Mi è stato chiesto di
parlare della virtù della prudenza; inevitabilmente ne parlerò a partire dalle
mie competenze che si collocano sul versante scientifico, con qualche
digressione su quello teologico.
Spero che il parlare di scienza
non spaventi nessuno; la reazione istintiva da parte dei non addetti ai lavori
è: io che c’entro. Non è prudente a proposito della scienza dire non mi
riguarda, anche perché non si tratta di entrare nei formalismi matematici, ma di
parlare di alcune idee fondamentali che stanno emergendo, e di quelle
implicazioni della scienza che riguardano tutti: sarebbe molto ‘imprudente’
permettere che siano solo gli specialisti ad occuparsi di queste implicazioni.
Punto di partenza è una
definizione di prudenza riportata da un dizionario e che mi sembra molto utile
per ciò che voglio dire, perché evita di evocare idee che sarebbero fuorvianti:
per intenderci la prudenza non ha nulla a che fare con atteggiamenti timidi ed
esitanti.
Prudenza = l’atteggiamento di
chi sa evitare inutili rischi agendo con cautela e assennatezza, e prudente
deriva dal participio presente di pro-vidére = vedere innanzi a sé = prendere le
misure più opportune per raggiungere un determinato fine.
La virtù della prudenza è,
quindi, in rapporto molto stretto con la dimensione del futuro, e con la nostra
necessità quotidiana di prendere delle decisioni. Essere prudente vuol dire
prendere decisioni evitando inutili rischi, dove l’accento è tutto
sull’aggettivo inutili, perché la dimensione del futuro, essendo fuori dal
nostro controllo, è comunque legata ad una certa componente di rischio, ed il
rischio uguale a zero non esiste.
Prudenza = 1) prendere delle
decisioni 2) in un contesto che valutiamo imperfettamente.
La conseguenza di tutto ciò è
che nella storia umana, come nella nostra vita quotidiana, l’inatteso
costituisce la regola, e la sorpresa è quello che ci si deve attendere.
Di fronte a queste incertezze
l’umanità ha sempre cercato di anticipare il futuro, magari consultando la sorte
o interpretando particolari segni, a volte ricorrendo ai fondi del caffè, ad un
volo di uccelli, o al passaggio di una cometa. Abbiamo proprio battuto tutte le
strade, il che vuol dire che si tratta di
un principio generale: da
quando i primi esseri umani hanno cominciato a camminare eretti sulla terra,
hanno cercato di sopravvivere adattandosi al proprio ambiente, noi siamo esseri
adattativi, ossia traiamo lezioni dall'esperienza, e se siamo prudenti
utilizziamo queste lezioni per anticipare un po’ sul futuro.
Da qualche secolo abbiamo messo
a punto il linguaggio scientifico che è lo strumento più potente che siamo
riusciti ad inventare per dire qualcosa sul futuro. Scienza e prudenza, quindi,
hanno entrambe qualcosa a che fare con la dimensione del futuro.
Con questa relazione mi
propongo due obiettivi:
1) Far vedere che la prudenza
non è una virtù superata, anzi potrebbe divenire una virtù superiore impostaci
dalla nostra responsabilità nei confronti del futuro dell’umanità. A questo
proposito il problema si pone a due livelli: il rapporto tra prudenza e
tecnologia, che per molti è l’aspetto concreto che la scienza assume, ed il
rapporto tra prudenza e scienza propriamente intesa. Il primo aspetto sarà solo
accennato, più spazio dedicherò al tentativo di rintracciare le ragioni della
prudenza nel discorso scientifico che si è sviluppato in questo secolo.
2) Presentare alcuni percorsi
tratti dalla storia dello sviluppo delle idee scientifiche per descrivere i
quali il termine migliore che possiamo utilizzare è proprio quello di prudenza.
Certo non tutti i percorsi
seguiti dalla scienza hanno avuto questa caratteristica, ma dovremmo abituarci
all’idea che non esiste la Scienza, intesa come sinonimo di certezza e di
verità, ma esistono le scienze, ognuna delle quali è caratterizzata da un
proprio linguaggio e da un proprio metodo. C’è scienza e scienza, così come c’è
scienziato e scienziato. Già questo è un accostarsi di tipo prudente alla
scienza.
1) Perché la nostra
responsabilità nei riguardi del futuro richiede la prudenza come virtù.
Brevemente per quanto riguarda
il rapporto con la tecnologia. E’ un’osservazione scontata che lo sviluppo
tecnologico verificatosi nell’ultimo secolo abbia fatto aumentare di molti
ordini di grandezza il nostro potere di intervento sul mondo che ci circonda.
Forse non riflettiamo abbastanza su una conseguenza di questa situazione: per la
prima volta nella storia dell’umanità possiamo dire con certezza che il mondo di
domani non sarà simile a quello di oggi, tanto che non è fuori luogo chiedersi
se questa differenza non possa assumere aspetti tragici.
Paradossalmente l’essere umano
pre-tecnologico poteva pronunciarsi con maggior certezza di noi sul futuro del
mondo che avrebbe lasciato alle generazioni successive: di sicuro non sarebbe
stato molto diverso dal suo.
Non vorrei essere frainteso:
non si tratta di tracciare scenari apocalittici, o di demonizzare la tecnologia
della quale ormai non potremmo più fare a meno. Si tratta di prendere coscienza
dei problemi che l’avventura tecnologica pone. Niente più di questo, ma neanche
niente di meno.
A questo proposito mi limito ad
una citazione di G. Bateson e ad una di Hans Jonas.
Dice Bateson sulle specie che
sono tanto stolte da non andare d’accordo con la propria ecologia:
“Se l’ambiente ci sembrerà da sfruttare a nostro
vantaggio la nostra unità di sopravvivenza saremo noi e la nostra gente o gli
individui della nostra specie, in antitesi con l’ambiente formato da altre unità
sociali da altre razze e dagli animali e dalle piante.
Se
questa è l’opinione che abbiamo sul nostro rapporto con la natura e se
possediamo una tecnica progredita, la probabilità che abbiamo di sopravvivere
sarà quella di una palla di neve all’inferno. Noi moriremo a causa dei
sottoprodotti tossici del nostro stesso odio o, semplicemente, per il
sovrappopolamento e l’esagerato sfruttamento delle riserve”( Verso un’ecologia
della mente-Adelphi- pag. 480)
Quindi per Bateson il problema
si pone per la convergenza di due fattori: da una parte l’idea che noi ci siamo
fatti della natura come qualcosa di separato da noi di cui possiamo
tranquillamente disporre, e dall’altra il fatto che siamo dotati di una
tecnologia progredita: queste due condizioni quando si verificano
contemporaneamente sono una miscela esplosiva.
Questo è anche il quadro
presente in Jonas, il quale, tuttavia, pone l’accento sulla nostra
responsabilità e quindi su un futuro che sarà determinato dalle nostre scelte:
ci stiamo cacciando in un vicolo cieco dal quale potremo uscire solo se sapremo
esercitare la prudenza come virtù necessaria:
“In
passato valeva il proverbio ‘chi non risica non rosica’, l’audace era stimato,
chi era prudente un po’ disprezzato. Ma per la collettività, che all’inizio
dell’avventura tecnologica poteva ancora pensarla in modo analogo e per un lungo
periodo poté gloriarsi delle sue conquiste, la prudenza è divenuta una virtù
superiore.....Per quanto concerne l’esame dei singoli rischi, nel Principio
responsabilità ho proposto una regola ferrea per trattare l’incertezza:
in dubbio pro malo, nel dubbio da’ ascolto alla prognosi peggiore piuttosto
che alla migliore, poiché la posta è diventata troppo alta per il gioco.”(
Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità-pag. 47- Einaudi)
E’ la stessa idea di prudenza
che sottolineerà Bateson: bisogna essere prudenti nel porre il piede là dove
anche gli angeli esitano, (dirò poi del perché si deve essere prudenti nel
turbare equilibri millenari in cui siamo immersi, purtroppo non possiamo tirarci
fuori dalla natura come soleva fare il Barone di Munchausen, che quando si
trovava nella melma si sollevava per il codino).
Io mi limito a sottolineare un
aspetto che considero fondamentale di questa avventura tecnologica: a prima
vista essa sembra essere in stretto collegamento con il progresso scientifico, e
all’inizio è stato sicuramente così. Solo che la scienza nell’ultimo secolo ha
cambiato di molto le proprie prospettive, ma la tecnologia non se n’è accorta: i
suoi obiettivi sono rimasti omogenei con le idee scientifiche del secolo scorso,
dominate dall’idea di onnipotenza conoscitiva della scienza, mentre le rimangono
sostanzialmente estranee le nuove immagini del mondo evocate dalla scienza del
900.
Non ci dobbiamo far ingannare,
la tecnologia non è la scienza applicata. C’è una differenza sostanziale: la
scienza è il nostro tentativo di comprendere meglio l’universo; la tecnologia è
semplicemente una nostra creazione con la quale cerchiamo di costruire minuscoli
universi, all’interno dei quali noi siamo i padroni, ai quali possiamo far loro
fare ciò che vogliamo. Questi nostri universi tecnologici devono avere,
pertanto, un comportamento prevedibile e deterministico per poter essere
utilizzabili secondo i nostri fini, ma il mondo reale in cui viviamo, quello cui
si riferisce la scienza, quello che la scienza si sforza di capire, è realmente
deterministico e prevedibile?
E’ su questo interrogativo che
inizia il discorso più propriamente scientifico. Secondo la scienza classica sì,
il mondo era realmente deterministico e perciò il suo comportamento era
perfettamente prevedibile purché conoscessimo le equazioni giuste. Tra
tecnologia e scienza classica c’è, quindi, un rapporto molto stretto, entrambe
si fondano sullo stesso paradigma e sulla stessa visione della realtà.
Una visione che, per quel che
se ne sapeva fino al secolo scorso, poteva anche essere giusta, ed invece era
sbagliata. La realtà è molto più complessa di quanto si sospettasse, e forse di
quanto potremo mai sospettare.
Io vorrei dire
dell’inadeguatezza di una visione del mondo troppo semplice, perché una visione
semplicistica del mondo si accompagna inevitabilmente con l’imprudenza. Forse se
ci rendiamo conto che l’incertezza e la complessità sono presenti nel cuore
stesso della scienza potremo anche avanzare qualche dubbio sull’ottimismo che
sembra caratterizzare la nostra impresa tecnologica, secondo il quale noi
potremmo permetterci qualsiasi impresa arrischiata contando sul fatto che se
effetti dannosi ci saranno, ad essi porrà rimedio il futuro progresso della
tecnica: se la tecnica promette miracoli la scienza li esclude.
Cos’è accaduto a partire
dall’inizio del secolo? perché la scienza non è più così ottimista sulle proprie
possibilità?
Per rispondere a questi
interrogativi punto di partenza è l’ideale conoscitivo della scienza classica
che è stato espresso da Laplace nella seguente forma: se per ipotesi esistesse
un essere che conoscesse la posizione attuale di tutte le parti componenti
l’universo, e le forze agenti su di esse, allora questo essere avrebbe davanti
ai propri occhi la conoscenza istantanea di tutto il passato e di tutto il
futuro dell’universo. Un ideale difficile da perseguire ma in linea di principio
possibile.
(E’ importante sottolineare le
possibilità di principio: anche se irraggiungibili la conoscenza può essere
pensata avvicinarsi indefinitamente a quanto fissato per principio. Ed infatti
così si pensava).
La storia della scienza di
questo secolo è la storia della crisi di questa idea di onnipotenza conoscitiva.
Certamente l’obiettivo della
scienza è pur sempre quello di spiegare la realtà, quello che cercherò di dire è
perché il grado di spiegazione scientifica massima, quella cioè a cui possiamo
aspirare per principio, non possa più essere quello a cui aspirava il paradigma
precedente ma debba compiere, per così dire, una ritirata strategica ed
attestarsi su posizioni che definirei più prudenti e tolleranti (chi lega la
scienza all’idea di audacia le definirebbe rinunciatarie).
Alla fine del secolo scorso,
quando si comincia a studiare la struttura atomica della materia, vengono
scoperti fatti completamente nuovi che non è più possibile interpretare seguendo
le tracce dell’antico. I nuovi fenomeni dovevano essere interpretati con un
linguaggio completamente nuovo: la meccanica quantistica fu questo nuovo
linguaggio.
Sulle implicazioni filosofiche
di questo nuovo linguaggio sono scorsi fiumi di inchiostro; sicuramente ne sono
possibili diverse letture. Quella che propongo io è una lettura che sottolinea
la necessità di una maggiore prudenza nell’accostarci alla realtà, prudenza che
deriva da una maggiore consapevolezza dei nostri limiti.
Di questo nuovo linguaggio
sottolineo due caratteristiche essenziali:
A) Nel nuovo linguaggio è
assente il concetto di certezza nel prevedere il comportamento futuro di un
oggetto. La nuova scienza consente solo di calcolare delle probabilità che un
evento accada.
Di sicuro si tratta di un
ripiegamento, ma non c’è altro da fare. L’aspetto sostanziale della questione è
che questo limitarci a calcolare delle probabilità non è dovuto ad una
momentanea situazione di ignoranza che sviluppi futuri potrebbero superare;
purtroppo o per fortuna la Natura è fatta in modo tale che ci consente di
calcolare solo delle probabilità che gli eventi accadano o che vadano in una
certa direzione.
Un simile cambiamento di
prospettiva cambia lo scopo programmatico della scienza, ma cambia anche la
visione che noi ci facciamo del mondo che ci circonda, cambia anche la risposta
alla domanda che da sempre ci poniamo: se al fondo delle cose ci sia una
situazione dominata dall’ordine o dal disordine.
E’ una vecchia questione
presente in tutti i miti della Creazione, e che Galileo sembrava aver risolto in
maniera definitiva: il mondo parla un linguaggio matematico, e quindi esso deve
essere ordinato ed il suo comportamento prevedibile.
Ora la situazione è ribaltata:
al fondo delle cose domina il caso, e noi non possiamo avere certezze sul
comportamento di alcunché, possiamo solo presentare varie possibilità di
evoluzione, varie storie possibili, ognuna delle quali caratterizzata da una
propria probabilità.
B) La seconda caratteristica
fondamentale del nuovo linguaggio si potrebbe così esprimere: il contesto
risulta decisivo nel determinare ciò che si osserva.
Anche questa affermazione
esprime una radicale rinuncia rispetto agli ideali del passato: ora è l’idea di
realtà oggettiva, esistente con proprietà indipendenti da chi osserva, che viene
meno.
Per capire perché si è dovuti
giungere a questa conclusione, bisogna dire della difficoltà imprevista che
sorge quando l’oggetto che noi osserviamo è dell’ordine di grandezza atomico.
Mi limito ad una considerazione
ovvia, ma che ciò che è ovvio sia anche comprensibile non è poi tanto ovvio.
Questo è un caso: noi partiamo da una considerazione ovvia e arriviamo ad un
risultato che appare completamente sballato per il senso comune.
Per poter compiere una
misurazione su un oggetto lo si deve osservare, ma per osservarlo si deve
colpire quello stesso oggetto per esempio con un raggio di luce. Questo avviene
anche nel mondo macroscopico, noi possiamo osservare un oggetto solo attraverso
i raggi di luce riflessi ai nostri occhi. La luce è il principale mezzo che
abbiamo a disposizione per conoscere la realtà che ci circonda.
A pensarci bene noi viviamo
immersi e circondati dalla luce riflessa, luce che ha interrotto il suo cammino,
ha urtato contro qualcosa che altrimenti ci sarebbe rimasto misteriosamente
invisibile, di cui mai avremmo saputo l’esistenza. Questa rete di riflessioni
giunge ai nostri occhi, li attraversa ed in qualche modo noi vediamo e
conosciamo ciò che l’ha determinata.
Nel mondo macroscopico possiamo
senz’altro ritenere che questa rete di riflessioni non modifichi gli oggetti che
vi sono immersi, ma che accade quando le dimensioni, o l’energia, di un oggetto
sono più o meno le stesse di quelle del raggio incidente? In questo caso non
esiste più alcun ‘nascondiglio perfetto’ dal quale compiere l’osservazione, il
semplice atto di osservare perturberà in maniera sostanziale l’oggetto
osservato, e con ciò viene meno l’idea di una realtà oggettiva indipendente
dall’osservatore. Ma il fatto realmente decisivo è che la perturbazione subita
dall’oggetto dipenderà dal tipo di misurazione che su di esso si è effettuata, e
dalle condizioni sperimentali che si sono dovute realizzare per effettuare
questa misura.
Il risultato è che la realtà
diventa contestuale, noi creiamo un contesto sperimentale per osservare un certo
oggetto, ma l’oggetto osservato manifesterà comportamenti diversi, addirittura
contraddittori, a seconda del contesto sperimentale utilizzato. E’ un duro colpo
per il concetto di realtà oggettiva.
Per il tema che ci riguarda
questa considerazione ha conseguenze di vasta portata.
Cosa vuol dire che il contesto
risulta decisivo nel determinare ciò che si osserva? Vuol dire che nemmeno a
livello delle particelle elementari, cioè delle unità più semplici che si
conoscano, è possibile considerare tali unità isolate ed indipendenti da ciò che
le circonda. Se questo è vero per le particelle elementari tanto più lo sarà per
oggetti di complessità crescente, per i quali risulterà decisiva la struttura
che connette come la chiamava Bateson:
Avrebbero potuto dirci qualcosa sulla struttura
che connette: che ogni comunicazione ha bisogno di un contesto, che senza
contesto non c’è significato, che i contesti conferiscono significato perché c’è
una classificazione dei contesti” (Verso un’ecologia della mente-Adelphi- pag.
30-33)
“La struttura che connette. Perché le scuole non
insegnano quasi nulla su questo argomento?
Quale struttura connette il granchio con
l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi? E
tutti e sei noi con l’ameba da una parte e con lo schizofrenico dall’altra?
(Mente e natura-Adelphi- pag. 21)
Questo è il punto cui volevo
arrivare: a tutti i livelli la scienza scopre l’importanza della pluralità di
storie possibili da una parte, e del contesto dall’altra.
[Questa interpretazione è
accusata di essere anticopernicana perché rimetterebbe al centro l’essere umano
là da dove Copernico l’aveva scacciato. In realtà la rivoluzione copernicana
aveva sì scacciato l’essere umano dal centro geografico dell’universo, tuttavia
non aveva riconosciuto ad esso nessun limite naturale alla sua possibilità di
conoscere. La nuova interpretazione rimette sì l’essere umano al centro
dell’interpretazione della realtà, tuttavia fissa delle colonne d’Ercole
insuperabili per la sua conoscenza, una colonna è senz’altro il principio
d’indeterminazione, l’altra è la complessità della natura che circonda. Spero
che dal percorso risulti chiaro che la prudenza è più legata ad una
consapevolezza dei nostri limiti più che ad un semplice spostamento geografico
della nostra collocazione nell’universo].
Le implicazioni sono evidenti:
sottolineare l’importanza del contesto in cui gli eventi si realizzano significa
dire della complessità degli eventi stessi, il fatto cioè che non esistano
eventi isolati che possano essere descritti senza alcun riferimento ad altri
sistemi. Tutti gli eventi avvengono in un contesto con il quale formano una
unità inscindibile.
Se le particelle (per dire
delle parti costituenti un sistema) potessero esistere, per così dire, ‘nude’,
cioè isolate, senza interazioni con l’ambiente, con una loro identità precisa e
univoca, il mondo sarebbe incredibilmente semplice. Ai fisici piacerebbe un
mondo siffatto; anche se dubito che in un mondo del genere potrebbero esistere
dei fisici.
Se invece vogliamo descrivere
un sistema dobbiamo tener conto non solo delle parti che lo compongono, ma anche
delle relazioni tra di esse: il tutto non è mai riducibile alla somma delle
parti, sono le relazioni tra le parti a fare la differenza.
La prudenza ha molto a che fare
con il nostro rapporto con un mondo dominato dalla complessità.
Questo può essere un punto di
riflessione: che differenza di atteggiamento c’è nel nostro rapporto con il
mondo a seconda che noi pensiamo di avere a che fare con un mondo semplice il
cui comportamento può essere previsto dalle nostre leggi, e quindi possiamo
anche pensare di dominarlo, e un mondo caratterizzato dalla complessità.
Se pensiamo ad un mondo
semplice potremo anche pensare di poterlo descrivere esattamente. Noi scriviamo
delle formule sulla carta e questi segni ci dicono della storia del mondo (Laplace).
Se pensiamo ad un mondo
complesso questi segni non basteranno, (non dico che siano inutili, dico che non
basteranno), dovremo utilizzare anche altri criteri per descriverlo, dovremo
ricorrere anche a criteri narrativi, e davanti ad esso non si aprirà mai una
singola storia, ma una possibilità di storie, quale di queste si realizzerà
effettivamente dipenderà da molti fattori, alcuni saranno indipendenti dalla
nostra volontà, altri saranno la conseguenza delle nostre scelte.
Queste considerazioni danno un’idea della profondità del cambiamento che
l’immagine della natura ha subìto negli ultimi decenni: al mondo delle leggi,
dell’ordine, della misura si accompagna un paradigma storico (si accompagna non
si sostituisce), che è necessario per poter narrare di eventi contingenti unici
ed irripetibili, che per essere descritti richiedono che vengano abbattute le
barriere fra due stili di fare scienza (quello fondato sulle leggi e quello
fondato sulla storia), ed occorre, quindi, che lo scienziato che vuol
confrontarsi con essi acquisisca nuove abilità.
La
sostituzione di un paradigma con l’altro sarebbe una ingenuità: ci sono entrambi
necessari, perché ognuno di essi cattura un principio profondo che la
comprensione umana dei fenomeni storici richiede assolutamente. Noi siamo uno
strano miscuglio di temporalità e atemporalità.
Due
citazioni, a questo proposito, di due scienziati che più hanno contribuito al
diffondersi di queste idee. Recentemente a Torino si è tenuto il Salone del
libro. Tema della manifestazione era l’immortalità. Invitato di rilievo il
chimico-fisico Ilya Prigogine, secondo il quale il compito principale cui si
trova di fronte la scienza è quello di ripensare le proprie leggi in modo che in
esse sia presente in maniera intrinseca l’irreversibilità del tempo.
Significativo un passaggio della sua relazione:
“Non bisogna considerare le particelle isolate,
bensì le popolazioni di particelle nel loro insieme; con questo nuovo tipo di
fisica si sono trovate nuove soluzioni che sono orientate nel tempo: il fatto
nuovo e importante è il passaggio da un universo geometrico a un universo
narrativo” (da L’Eco di Bergamo del 25/05/97)
A
tutti i livelli vediamo nella natura l’emergere di ‘elementi narrativi’, e
questi elementi storico-narrativi sono parte della complessità.
La
seconda citazione è di Stephen J. Gould, probabilmente il più grande biologo
evoluzionista vivente, che riprende l’idea della storia della natura come un
grande romanzo:
“Prospero ,dopo aver salvato i suoi nemici dalla tempesta, dice di non poter
narrare la storia della sua vita troppo semplicemente, poiché “questa è una
storia da narrarsi un po' per giorno e non un racconto da ripetersi a
colazione”. Il racconto è lungo e complesso ma affascinante e risolvibile. Noi
possiamo conoscere la ricchezza della storia anche nella scienza. Una
spiegazione appropriata può richiedere una grande quantità di particolari. Le
nostre storie possono richiedere le sottili abilità di Sheherazade piuttosto che
la concisione e l’essenzialità; ma chi si è mai annoiato leggendo le storie di
Sindbad il marinaio o della lampada magica di Aladino?” ( Risplendi grande
lucciola- Feltrinelli- pag.260)
La consapevolezza di vivere in
un mondo dominato dalla complessità dovrebbe renderci estremamente cauti nel
credere che un’unica via (quella scientifica) possa esaurire le nostre
possibilità di conoscenza. La prudenza consiste nel riconoscere che nuovi
territori possano essere meglio esplorati utilizzando più forme di sapere,
riconoscendo che nessuna figura della razionalità (scientifica, filosofica o
teologica) può essere quel luogo all’interno del quale far quadrare tutti i
conti.
Prudenza in rapporto alla
scienza, allora significa abbandono di una visione meccanicista e frammentata
del mondo, istituzione di vie di comunicazione tra diversi modi di conoscere,
abbandono di ogni autorità assoluta che pretenda di avere il monopolio della
verità, secondo lo stile con cui P. Feyerabënd cominciò una sua lezione:
“Ora, eccoci qui; seduti nell’aula magna di una università e io suppongo che voi
siate venuti per ascoltare qualche idea piuttosto che per assistere ad una
dimostrazione di perversione sessuale. Perciò vi presenterò delle idee, ma a
modo mio.[.....]
Ci
sono molte maniere per farlo. Una di queste consiste nel presentare idee e
concezioni del mondo in una prospettiva storica, cioè raccontare come sono nate
e perché molti le hanno accettate ed hanno agito di conseguenza. Questo compito
non è affatto semplice, perché il nostro modo di considerare la storia è
influenzato da modelli che ci hanno ormai ipnotizzato. Inoltre, io non sono un
esperto; so di uno scandaletto qui, di una ideuzza là, e con tutto questo
imbastisco le mie storie. A rigor di termini, le mie lezioni saranno delle
favole imbastite intorno a certi fatti che sono vagamente storici. Ciò non mi
preoccupa affatto, perché io ho il sospetto che anche i veri ‘esperti’
raccontino favole, solo che le loro favole sono più lunghe e molto più
complicate, il che non significa che non possano essere molto interessanti.
Ascoltare semplici favole può non essere il vostro spettacolo favorito: forse
vorreste sentire la VERITA’. Se questo è ciò che volete, allora forse dovreste
trovarvi altrove: ma giuro sulla mia vita che non saprei dirvi dove esattamente”
( Ambiguità e armonia- Laterza- pag.16-18)
2) Nel secondo punto presento
alcuni esempi tratti dalla storia del pensiero scientifico. Vorrei mostrare che
quando si parla di prudenza in relazione alla scienza non si fa semplicemente un
auspicio sul come dovrebbe essere, ma che percorsi legati alla prudenza sono
stati ampiamente praticati.
2.1) Niels Bohr e il
principio di complementarità.
2.1.1) Bohr è stato grande come
essere umano prima ancora che come scienziato. Popper quando lo incontrò per la
prima volta ebbe a dichiarare di aver avuto l’impressione di essersi trovato di
fronte ad un uomo grande e buono, da sottolineare l’aggettivo buono, non viene
utilizzato spesso per descrivere un essere umano. Ho il sospetto che queste
caratteristiche umane di Bohr in qualche modo si siano trasferite anche nelle
sue concezioni scientifiche, nel senso che in esse è possibile ritrovare tracce
sia della prudenza che della tolleranza che furono dell’uomo Bohr. In
particolare nel suo principio di complementarità che è stato al centro di accesi
dibattiti negli anni ’30, e che dopo essere sparito per alcuni decenni dalle
discussioni scientifiche viene ora ripreso da importanti fisici. Ora si possono
eseguire esperimenti capaci di indicare se la complementarità sia una semplice
opzione filosofica, o sia un principio profondo che caratterizza la natura, e
gli esperimenti sembrano indicare che si tratta di una proprietà della natura
ancor più fondamentale del principio di indeterminazione, con la quale dovremmo
imparare a convivere.
Il punto in discussione era
esattamente questo: che fare quando la stessa realtà sembra descrivibile con
linguaggi tra di loro inconciliabili ma entrambi veri?
(Come ad es. nel caso della luce? La luce era costituita da particelle e quindi
spiegabile utilizzando un linguaggio corpuscolare, o era un’onda
elettromagnetica e quindi spiegabile con un linguaggio ondulatorio? Ognuno dei
due linguaggi ha caratteristiche specifiche e risulta applicabile solo
all’interno della categoria di fenomeni cui si riferisce. Eppure non sembrava
esserci mezzo per descrivere coerentemente tutti i fenomeni luminosi con uno
solo dei linguaggi disponibili, quello ondulatorio o quello corpuscolare.
Talvolta si doveva ricorrere ad una teoria e talvolta all’altra, ottenendo così
due rappresentazioni opposte della medesima realtà: nessuna delle due era
sufficiente a descrivere l’ente fisico “luce”, solo insieme vi riuscivano.
Secondo qualche bello spirito la luce era onda di lunedì, mercoledì, e venerdì,
e particella di martedì, giovedì e sabato. Quanto alla domenica non restava che
pregare.)
Su
questo terreno si affrontano due diverse impostazioni filosofiche. Einstein, e
con lui Schrödinger, ritengono che quando si è di fronte a due interpretazioni
alternative e contraddittorie dello stesso fenomeno, si debba cercare una loro
composizione a livello superiore. Scopo della scienza è quello di arrivare ad
una immagine unica e completa della realtà fisica che sia a noi comprensibile.
Questa immagine unica dovrebbe essere ottenuta dalla composizione o dal
superamento delle due immagini contraddittorie che noi ora possediamo.
L’impostazione di Bohr è affatto diversa. Si è spesso sottolineato il debito di
Bohr nei confronti delle idee di Kierkegaard, al contrario della posizione di
Schrödinger che seguirebbe un’impostazione hegeliana.
Quando Kierkegaard si trova di fronte a due termini che si escludono a vicenda
non cerca una loro composizione, piuttosto considera queste opposizioni così
irriducibili che il pensiero umano non può tentare una loro sintesi
conciliatrice che in qualche modo le riunisca.
Bohr
utilizza questa stessa impostazione per risolvere i problemi della descrizione
del mondo atomico, con il suo principio di complementarità afferma che è
impossibile ricercare un’unica immagine che racchiuda la totalità dei dati
ottenuti da diverse condizioni sperimentali. Questi dati devono essere
considerati complementari, nel senso che noi potremo avere un’informazione
completa sugli oggetti non attraverso una sintesi che compendi aspetti diversi e
contrastanti, ma considerando la totalità dei fenomeni presi separatamente.
Dobbiamo rinunciare a ricercare
spiegazioni in termini univoci: o....o, o una cosa o il suo opposto. Spesso è
più adeguato dire e.....e, una cosa può presentare sia un aspetto che il suo
contrario, solo che noi con la nostra percezione e il nostro linguaggio
riusciamo a cogliere solo un aspetto alla volta.
Bohr non era interessato solo
ai problemi della fisica atomica ma anche ai problemi dell’esistenza umana, e
riteneva che i progressi compiuti dalla fisica atomica nella visione del mondo
potessero aiutarci anche in altri campi dell’esperienza. Negli ultimi anni della
sua attività Bohr sottolineava molto l’importanza della complementarità anche
per questioni molto lontane dalla fisica,
Secondo Bohr un atteggiamento
conoscitivo fondato sul principio di complementarità comporta cautela e prudenza
quando ci si accosta a realtà che non appartengono al nostro mondo quotidiano,
questo vale sia nel mondo atomico sia quando si affrontano culture diverse:
“Nonostante il grande divario esistente tra i diversi rami della conoscenza di
cui ci occupiamo, la recente lezione appresa dai fisici circa la cautela con la
quale tutte le convenzioni usuali vanno applicate non appena si esce
dall’esperienza quotidiana, può, in effetti, servire a mostrare sotto nuova luce
i pericoli, ben noti agli umanisti, insiti nell’atteggiamento di chi giudica dal
proprio punto di vista culture sviluppatesi in seno ad altre società”.(N.Bohr-I
quanti e la vita pag. 48- Boringhieri)
“Possiamo dire che le diverse culture umane sono complementari le une rispetto
alle altre. Infatti ognuna di queste culture rappresenta un bilancio armonico di
convenzioni tradizionali per mezzo delle quali le potenzialità latenti della
vita umana possono dispiegarsi e rivelarci nuovi aspetti della sua illimitata
ricchezza e varietà” (ibid. pag.57)
Dal principio di
complementarità Bohr fa, quindi, discendere una lezione di prudenza e
tolleranza, anche se la cosa non è automatica, e legata a questa tolleranza vi è
ancora l’idea che la verità assoluta sia qualcosa che ci sfugge: chissà se c’è,
chissà dov’è, certo non nella scienza.
Si racconta che una volta gli
chiesero in tedesco qual è la qualità complementare della verità (Wahrheit).
Dopo una breve riflessione Bohr rispose che era la chiarezza (klarheit), come a
dire che la verità è sempre avvolta da una nube di nebbia.
Quella di cui parla Bohr non è
una nebbia banale in cui semplicemente tutte le vacche sono grigie, ma una
nebbia nella quale si procede con difficoltà consci dei propri limiti e dalla
complessità della realtà che ci circonda, una complessità nella quale le cose
non sono o bianche o nere, ma possono essere simultaneamente e bianche e nere.
Il che non vuol dire che siano grigie, anzi il principio di complementarità
esclude le situazioni intermedie, il dualismo è conservato nella sua pienezza,
come esige il principio di sovrapposizione (il principio più importante a cui
obbediscono le relazioni della meccanica quantistica), secondo il quale quando
uno stato è esprimibile come somma di altri stati il segno + che compare nella
somma va interpretato come e....e....: tutti gli stati che compaiono nella somma
sono contemporaneamente possibili: la realtà è avvolta in una nebbia di
possibilità.
Questa immagine della nebbia me
ne richiama un’altra: Mosé che per accostarsi alla Verità sul monte Sinai deve
entrare in nube di caligine (Es. 19,18): ‘Il Sinai era tutto fumante perché su
di esso era sceso il Signore come un fuoco. Il fumo saliva come quello di una
fornace, e tutto il monte era scosso come da un terremoto’ ‘Allora vi siete
avvicinati e vi siete fermati ai piedi del monte che bruciava: le sue fiamme
arrivavano fino al cielo; era buio e c’erano nubi molto dense’ (Dt. 4,11)
Così appariva il monte della
Verità a coloro che stavano ai suoi piedi: avvolto da nubi molto dense. Come
osserva Paolo de Benedetti (Sul Monte Sinai etica o Rivelazione? -Morcelliana)
noi non siamo entrati con Mosè dentro la nube: per noi la tenebra, la nube e la
caligine rimangono a nascondere ciò che Mosè ha visto. Per essere precisi non
abbiamo visto nemmeno Mosè e neanche il Sinai.
Da un lato, come credenti, ci
troviamo a dover dire sì a ciò che Mosè ha visto, e dall’altro ad essere
consapevoli che si tratta di una realtà avvolta nell’inconoscenza e per di più
soggetta alla critica storica. Forse anche quando parliamo di Dio il principio
di complementarità può esserci d’aiuto, non per dirci la verità su Dio, ma come
ammonimento contro la ricerca di soluzioni dialettiche, ed in favore, invece,
dei doppi pensieri. Doppi pensieri che ci assillano tutte le volte che ci
troviamo di fronte a ciò che è vivo che diventa morto e ci chiediamo come ciò
possa piacere a Dio.
Questo strumento dei doppi
pensieri in teologia è utilizzato da Italo Mancini:
“L’uomo non è capace di un pensare trasparente che non comporti in ogni tesi
l’urto di una antitesi, meglio è forse dire, per schivare il modulo dialettico,
che in ogni posizione c’è il suo opposto e la sua contrapposizione. O la
teologia si cimenta nella coesistenza di queste antinomie, oppure rischia di
organizzarsi in fenomeni chiamati teologici, ma che in realtà hanno ben poco del
tormento teologico”
“...la verità dura dei doppi pensieri, così inclini alla doppiezza, può essere
elevata a struttura del pensiero, come quella che non ha mai un valore e un atto
unico, ma sempre si spezza in queste doppie valenze, che non necessariamente
rivelano doppiezza, ma dualità, mancanza di occhi semplici e trasparenti, severa
necessità di tener conto della complessità delle cose”.(citaz. da P.de
Benedetti: Sul Monte Sinai etica o Rivelazione? pag.35)
E’ da sottolineare l’ultima
frase: severa necessità di tener conto della complessità delle cose, perché sul
contenuto di questa frase convergono tutte le riflessioni che ho presentato, e
che sono state elaborate negli ambiti più diversi. Tener conto della complessità
delle cose è sinonimo di prudenza.
2.2) Gregory Bateson,
antropologo-psichiatra-cibernetico, è uno scienziato che ha operato in un
contesto tutto diverso rispetto a Bohr, e le cui riflessioni portano il discorso
della prudenza a livello di ecosistema. Il fatto che anche a livello di
ecosistema si ripropongano situazioni con forti analogie rispetto a quelle
incontrate da Bohr a livello atomico è degno di riflessione.
Temi centrali di Bateson: Le
creature non sono sistemi isolati, ma parti di sistemi più vasti, per cui anche
a livello ecologico si ripropone quanto si è già visto a livello atomico: la
realtà è non-separabile, le creature sono le loro storie, e le storie possono
essere raccontate solo specificando il contesto in cui avvengono.
Essere prudenti per Bateson
significa sostanzialmente due cose:
A) Dare più importanza ai mezzi
che ai fini.
Non si tratta della solita
predica sui fini se giustificano o meno i mezzi, ma si tratta di ragionare sui
pericoli che sono inerenti a questi mezzi. Bateson, a questo proposito, cita un
contributo di Margaret Mead:
“<<Prima di applicare la sociologia ai nostri affari nazionali, dobbiamo
riesaminare e modificare lenostre abitudini di pensiero sul tema dei mezzi e dei
fini. Nel quadro della nostra cultura abbiamo appreso a classificare i
comportamenti in ‘mezzi’ e ‘fini’ e se procediamo a definire i fini come se
fossero separati dai mezzi e poi applichiamo brutalmente gli strumenti
sociologici, adoperando ricette scientifiche per manipolare la gente, arriveremo
a un regime totalitario piuttosto che a un regime democratico>>. La soluzione da
lei proposta consiste nel ricercare le ‘direzioni’ e i ‘valori’ impliciti nei
mezzi a disposizione, piuttosto che spingersi verso uno scopo programmato
considerando questo scopo come in grado di giustificare o di non giustificare i
mezzi di manipolazione mesi in essere. Dobbiamo ricercare il valore di un atto
pianificato in quanto implicito e contemporaneo all’atto stesso, e non come
separato da esso come se l’atto derivasse il suo valore solo riferendosi a un
qualche scopo o fine futuro.”( Bateson-Verso una ecologia della mente-Adelphi)
Non
credo che con questo si voglia dire che non dobbiamo avere un fine nelle nostre
azioni.
E’
chiaro che l’insieme dei nostri gesti deve essere legato da un filo conduttore
che può essere appunto un nostro progetto, ma questo progetto deve funzionare
come sfondo, come orizzonte di riferimento, e non come qualcosa di assoluto solo
in riferimento al quale ciò che facciamo ha o non ha valore. Dobbiamo stare
molto attenti alla Qualità dei mezzi che utilizziamo, forse è questo il fine più
importante che ci dobbiamo proporre.
B) Conoscere il contesto più
ampio entro cui si svolge la nostra storia, i meccanismi fondamentali di
regolazione di questo contesto, come reagisce alle modifiche che noi
introduciamo in esso. Prima di giocare agli apprendisti stregoni dovremmo
conoscerlo, e quando non possiamo prevedere le conseguenze di lungo periodo di
ciò che facciamo, dovremmo essere prudenti nel porre il piede là dove anche
gli angeli esitano.
Questa considerazione potrà
risultare sorprendente, ma com’è possibile? Supponiamo di sapere tutto dal primo
miliardesimo di secondo in poi sull’evoluzione dell’universo, ci occupiamo di
quark e di superstringhe per trovare una legge che unifichi tutte le interazioni
presenti in natura, e non sappiamo prevedere come il nostro mondo reagirà alle
nostre azioni?
Eppure è così: sul
comportamento dell’atmosfera rimane molto da sapere, del comportamento della
biosfera, in cui si svolge la nostra azione, rimane da sapere quasi tutto.
Ciò che conosciamo
relativamente meglio è il comportamento dell’idrosfera. Le grandi correnti
oceaniche sono studiate da molto tempo, ma anche qui non mancano sorprese.
La corrente meglio studiata è
El Nino, la corrente calda che bagna le coste dell’America meridionale.
La temperatura del percorso sud
del Nino è aumentata dal 1976 al 90 e rimane la più alta mai registrata. E’
crudele el Nino: il clima di una vastissima zona è sconvolto, piove dove già
piove troppo e non piove dove dovrebbe. Il plancton muore e con esso i pesci.
Centinaia di milioni di persone fanno la fame per colpa del Nino. I coordinatori
dei rilevamenti del Nino dicono che secondo loro questa tendenza sembra in parte
dovuta all’incremento dei gas da effetto serra. Ed eccoci tornati alla biosfera,
qui prevale l’attività umana, e di questa noi siamo i responsabili: essere
responsabili significa aver presente che tutto si tiene, che spesso sono le
piccole cose, a torto considerate ininfluenti, ad essere decisive, perché
esistono interrelazioni su grande scala; modifiche della biosfera che ci
appaiono insignificanti possono avere conseguenze imprevedibili e scatenare El
Nino dall’altra parte del pianeta.
Interrogarsi sulla struttura
che connette la nostra specie con la natura in una storia comune di coevoluzione,
evitando di pensare sempre in termini di ‘io’, come se noi non fossimo parte di
questa struttura: questo è l’insegnamento di Bateson. La presa di coscienza di
questa comunanza terrestre può essere l’evento chiave per il successo, o meno,
di quell’interessante esperimento di coscienza che l’evoluzione ha tentato
appena un paio di secondi geologici fa.
Concludo con un riferimento
alla Genesi ed al racconto della Creazione.
I primi sei giorni sono i
giorni dell’evoluzione biologica, ma comparso l’essere pensante al settimo
giorno Dio si riposò. Il settimo giorno di Dio sta durando tuttora.
Dio si riposa non perché la sua
opera è compiuta, è evidente che non è compiuta, e forse qualcosa non è andato
per il verso giusto: noi ci stiamo dando molto da fare per disturbare il giorno
di riposo di Dio. Nonostante vi sia una terra ancora da costruire Dio si riposa
perché il compimento dell’opera è affidato alla responsabilità di questa nuova
creatura pensante.
Questa è la logica della
Creazione in termini evolutivi, e qui possiamo ancora seguire una pista indicata
da Jonas, che porta alle estreme conseguenze la teoria della contrazione
(ritiro) di Dio già presente nella Kabbalah di Yitzaq Luria e riscoperta da
Gershom Scholem: nel momento in cui Dio accetta la creazione di un universo in
cui nascerà una creatura libera e autonoma, accetta inevitabilmente di
autolimitarsi, accetta, cioè, di porre il destino della Creazione nelle mani
della creatura libera, rinunciando con ciò alla propria potenza.
Così si esprime Jonas cercando
di dare significato al concetto di Dio dopo Auschwitz:
Dopo
essersi affidato totalmente al divenire del mondo, Dio non ha più nulla da dare:
ora tocca all’uomo dare. E l’uomo può dare, se nei sentieri della sua vita si
cura che non accada o non accada troppo sovente, e non per colpa sua, che Dio
abbia a pentirsi di aver concesso il divenire del mondo. (Il concetto di Dio
dopo Auschwitz pag.38).
Questa considerazione ci
rimanda all’inizio: alla prudenza intesa come capacità di anticipare il futuro
ed esserne responsabili, noi ci troviamo davanti a queste prospettive finali:
quello di una creatura che accetta di portare a compimento la Creazione in
alleanza con essa, essendo consapevole della propria fragilità; quella fragilità
che costituisce la stoffa di cui è fatta la Creazione, e sulla quale si fonda
quel legame profondo e misterioso che in qualche maniera tiene avvinto tutto ciò
che contiene il soffio di Dio, oppure sarà l’alternativa drammatica evocata da
Wiesel: non ci resterà che piangere con Dio sulle rovine della Creazione, e
magari piantarci sopra un bel cartello: esperimento fallito.
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