Per
Medio
giudaismo (come vedremo, ultima denominazione in ordine di tempo) si
intende il periodo tra il III a.c. e il II d.c., il periodo cioè delle origini
cristiane e di quelle rabbiniche. Normalmente si pensa che in questo lasso di
tempo sia nata una religione (il cristianesimo); in realtà ne sono nate due,
dal momento che l'ebraismo non è nato all'epoca dell'AT, ma contemporaneamente
al cristianesimo.
Chiunque
si imbatta in questo periodo si trova di fronte a dei problemi rilevanti, non
solo perché è sempre difficile ricostruire un'epoca storica del passato, ma
perché si tratta di un periodo che riguarda due comunità religiose e due fedi
tuttora esistenti. E' del tutto comprensibile, quindi, che esse abbiano imposto
su tale periodo i propri schemi e le proprie conclusioni. La letteratura di
quest'epoca, per esempio, è giunta a noi divisa in scritti
canonici e scritti non canonici (i
cosiddetti "apocrifi"): si tratta di una divisione legittima dal punto
di vista religioso, ma priva di senso dal punto di vista storico nel quale un
testo apocrifo possiede lo stesso valore di un testo non canonico. Senonché
tale divisone confessionale delle fonti si è ripercossa nel modo stesso in cui
è organizzato il nostro sapere: se, per esempio, la Lettera agli Ebrei ha più
Øß=edizioni del Libro di Enoch, non è perché l'una sia più importante
dell'altro, ma perché l'una è canonica e l'altro no, anche se dal punto di
vista storico il secondo testo è più importante del primo. I canoni, infatti,
sono posteriori ai fatti che si vogliono studiare; di conseguenza, non ha senso,
in ambito storico, farsi guidare da essi. Anche importanti figure di questo
periodo, come Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio, sono finiti l'uno nella
filosofia ellenistica e l'altro nella storiografia ellenistica. Tutto ciò per
dire che questo periodo e le fonti che ce ne parlano devono essere considerati
nella loro globalità e senza pregiudizi confessionali.
Oltre
a queste difficoltà, bisogna tener presente che anche fra gli studiosi di
questo periodo ci sono state delle divergenze, le quali hanno comportato
conseguenze:
a)
di carattere terminologico;
b)
sul rapporto tra ebrei e cristiani;
c)
sul problema della separazione tra ebraismo e cristianesimo;
d)
sul dialogo interreligioso.
Prendiamole
in esame.
1.
Cominciamo dal modello più antico, che potremmo definire monolitico. Secondo questa visione tradizionale, giudaismo e
cristianesimo sono due insiemi omogenei, ben definiti e ben distinti l'uno
dall'altro (questa è anche l'idea più diffusa anche a livello di opinione
comune). Si tratta di un modello che è stato condiviso sia dagli ebrei sia dai
cristiani, per opposti motivi polemici. I
cristiani, infatti, potevano
sostenere l'idea che il giudaismo, religione dell'AT, molto antica,
sostanzialmente immutata e immutabile, fosse stato ad un certo punto sostituito
da una religione nuova, fondata da Gesù (secondo questo schema gli ebrei sono
coloro che hanno continuato la vecchia religione ebraica, non accettando la
nuova rivelazione di Gesù). Sulla base di tale visione, dunque, il giudaismo ha
la funzione di preparare la venuta di Cristo; di conseguenza, una volta esaurita
questa missione, non ha più ragione di esistere. Gli ebrei, invece, puntavano
sull'antichità della loro religione per dimostrare la loro fedeltà alla
rivelazione divina: i cristiani erano degli eretici. Per i cristiani, quindi,
gli ebrei erano ciechi (anzi,
colpevolmente ciechi, tanto da essere dei "deicidi") per non essersi
accorti della novità portata da Gesù, mentre per gli ebrei i cristiani erano
dei traditori, dal momento che si
erano allontanati dalla vera fede.
In
una concezione di questo tipo, dunque, storicamente è esistito un solo
giudaismo, il quale è stato o completato
dai cristiani oppure fedelmente tramandato dagli ebrei.
a)
Quali sono state le conseguenze a livello terminologico? Per i cristiani questo
periodo rappresentava la fine del giudaismo; ecco allora che lo definivano in
due modi, di cui il secondo particolarmente antiebraico: periodo
intertestamentario (passaggio dall'AT al NT) o tardo-giudaismo (decadenza e fine del giudaismo per esaurimento
della sua funzione). Da parte ebraica, invece, oltre a poco interesse per una
definizione, c'è anche una tendenza a sminuire questo periodo: il giudasimo è
uno solo, la Mishnà e il Talmud sono la sua codificazione, quindi non si può
parlare di evoluzione del giudaismo (al massimo può essere definito come periodo
del secondo tempio, ma si tratta di una definizione di carattere più
storico che religioso).
b)
Vediamo ora quali sono le conseguenze nei rapporto tra ebrei e cristiani nel I
sec. Si potrebbe dire che laddove c'è il giudaismo non c'è il cristianesimo e
laddove c'è il cristianesimo non c'è il giudaismo. Secondo questo schema è
irrisolvibile anche la questione della ebraicità di Gesù: se era ebreo non era
cristiano e se era cristiano non era più ebreo (non a caso la tradizione
cristiana tendeva a sottolineare il fatto che Gesù fosse ebreo solo per caso) (cfr.
D. GARRONE, supra).
c)
Per quanto concerne il problema della separazione, è ovvio che nel momento
stesso in cui si affaccia il cristianesimo c'è separazione con l'ebraismo: per
definizione il cristianesimo, in quanto compimento dell'ebraismo, non è più
ebraico.
d)
Riguardo al dialogo ebraico-cristiano, questo schema serviva per ovvi intenti
polemici. Tuttavia, esso è sopravvissuto alla nuova stagione del dialogo.
Quanti cristiani, per esempio, pensano che gli ebrei del I sec. vivessero come
gli ebrei di oggi! Quanti, in buona fede, si avvicinano al dialogo con gli ebrei
per vedere "com'eravamo prima di diventare cristiani", secondo una
specie di ricerca dei fossili, senza tener presente che il cristianesimo è nato
dall'ebraismo di due mila anni fa e non da quello di oggi. La romantica idea di
ritrovare le "radici" nasconde una vecchia e sbagliata concezione
secondo la quale l'ebraismo è qualcosa di "conservato" (questo, tra
l'altro, è il motivo per cui gli ebrei, a differenza degli altri eretici, non
venivano uccisi, ma difesi: perché dovevano ricordare ciò che la Chiesa era
stata prima di diventare tale; cfr. in proposito F. FERRARIO,
supra). E' quindi sbagliato pensare che il cristianesimo sia l'ebraismo di oggi più Gesù!
2.
Dopo la seconda guerra mondiale, si
registra uno sforzo comune per ripensare il periodo delle origini
giudeo-cristiane. Al modello monolitico si è andato sostituendo (fino ad
imporsi verso la fine degli anni Settanta-Ottanta) un modello di tipo evolutivo,
alla cui base c'è il riconoscimento che l'ebraismo non è un monolite e che,
avendo le religioni una loro evoluzione, l'ebraismo antico è diverso da quello
posteriore, così come il cristianesimo. Si tratta di un modello che presuppone l'esistenza di modi diversi di essere ebrei: nel passaggio da
un periodo all'altro, il giudaismo ha generato una serie di possibilità aperte
prima di decidere quale fosse la migliore. Questo schema
riconosce che il giudaismo del I sec. non solo è diverso dal giudaismo
di oggi, ma anche plurimo, pur se esiste una linea evolutiva centrale (tanto per
capirci, è come un fiume con il suo letto principale e i suoi rivoli
secondari). In questo senso, il rabbinismo rappresenta la naturale evoluzione
del giudaismo del I sec., anche se in questo periodo ci sono altri tipi di
giudaismo, i quali però non sono normativi, ma dei gruppi settari. Il periodo
di Gesù, per esempio, è contrassegnato da una serie plurima di movimenti.
L'importanza
di questa nuova impostazione consiste nella possibilità di dare una soluzione
al problema della ebraicità di Gesù. Il cristianesimo, infatti, può essere
considerato, almeno originariamente, come una delle sette giudaiche (l'
essenismo, il sadduceismo, il
fariseismo, i movimenti apocalittici) prima che il giudaismo si evolvesse nello
stadio successivo: una specie di falsa
partenza o falsa possibilità (falsa
non in senso morale), possibilità che non si realizza o che si realizza
soltanto cessando di essere ebraica e aprendosi ai "gentili". In
quest'ottica allora il problema non è più se Gesù fosse ebreo o cristiano, ma
che tipo di ebreo era Gesù, dal momento che il giudaismo a quel tempo era molto
sfaccettato. Si può cioè salvare l'idea del cristianesimo come movimento
originariamente ebraico, ma al tempo stesso come nuova religione: ebraismo e
cristianesimo non sono più separati, ma omogenei; sono due linee evolutive
composte da diversi anelli: un anello della catena evolutiva del giudaismo è al
tempo stesso il primo anello della catena evolutiva del cristianesimo.
a)
A livello terminologico, non si parla più, come nel primo schema, di tardo-giudaismo
(late giudaism),
ma di primo giudaismo o antico
ovvero nascente giudaismo (early giudaism): non è più solo il periodo del nascente
cristianesino, ma anche del nascente giudaismo rabbinico. Mentre nella visione
tradizionale si poneva l'accento sulla decandenza del giudaismo e sulla
conseguente ascesa del cristianesimo, adesso si sottolinea l'inizio di una nuova
fase anche nel giudaismo.
b)
Ne consegue un ribaltamento dei rapporti tra cristianesimo ed ebraismo, nel
senso che il cristianesimo delle origini può essere considerato al tempo stesso
ebraico e cristiano.
c)
A proposito della separazione, la domanda non è più "quando nasce il
cristianesimo?", ma "quando il cristianesimo cessò di essere un
movimento originariamente ebraico?". La risposta è varia (sono state
proposte varie date), ma è assodato che la prima fase del cristianesimo
appartiene sia all'ebraismo sia al cristianesimo, anche se, ad un certo punto,
il cristianesimo non è più giudaico (anche qui ci sono risposte diverse).
d)
Per il dialogo ebraico-cristiano è molto importante aver sottolineato l'ebraicità
di Gesù, perché ciò ha permesso di superare l'idea che il cristianesimo fosse
nato dalla cultura ellenistica (discorso che fu estremizzato da Hitler) oppure
la distinzione bultmaniana tra il Gesù storico e il Gesù della fede.
Questo
schema presenta però anche dei problemi. Anzitutto, se era sbagliato definire
questo periodo alla luce del cristianesimo (tardo giudaismo), è altrettanto
sbagliato definirlo soltanto alla luce del giuadaismo rabbinico. In secondo
luogo, il nascente giudasimo rischia di comprendere tutto furoché il
cristianesimo, considerandolo un movimento marginale, come un'eresia rispetto al
giudasimo normativo, una specie di aborto del giudasimo.
3.
Oggi ci si rende sempre più conto
che il giudaismo rabbinico non può essere considerato né secondo lo schema
tradizionale (codificazione dell'unico giudasimo) nè secondo lo schema
evolutivo (nuovo stadio nella storia del giudaismo), perché in entrambi il
giudasimo rabbinico è considerato come un'evoluzione naturale del giudasimo
antico. Tale visione è molto problematica dal punto di vista storico: il
movimento farisaico, infatti, che è l'erede immediato del giudaismo rabbinico,
non era maggioritario, quindi è strano etichettare questo movimento come
normativo quando si sa che a Gerusalemme l'autorità in massima parte era
rappresentata dai Sadducei che
erano anch'essi una setta. La contraddizione cioè consiste nel pensare che nel
I sec. c'era una religione i cui leaders
appartenevano ad una eresia settaria.
Un
riesame della letteratura giudaica del periodo ci offre un'immagine molto più
variegata e pluralista, tanto che attualmente molti studiosi, sia ebrei sia
cristiani, parlano di giudaismi e non più di un
solo giudaismo. Si provi, infatti, a definire cosa sono oggi il cristianesimo e
l'ebraismo a livello mondiale: ci sono degli elementi in comune e delle idee di
fondo, ma non si può certo parlare di una ideologia comune (basti guardare le
varie confessioni cristiane). E' difficile definire il cristianesimo oggi
mettendo insieme un trattato di Barth con un'enciclica di Giovanni Paolo II! Ma
anche l'ebraismo è molto variegato al suo interno: un conto è l'ebraismo
riformato, un altro è quello conservativo, quello ricostituzionista, quello
ortodosso o quello ultraortodosso; non si può mettere insieme i documenti dei
rabbini riformati con quelli dei rabbini ultraortodossi di Gerusalemme o di New
York! E così, se si prendono i documenti del I sec. per trovare un comune
denominatore, si ottiene un giudaismo che non esiste: non c'è un solo giudasimo,
ma molti giudaismi, tra loro diversi e competitivi.
Dunque,
se nel primo schema abbiamo un punto e
nel secondo una linea, qui abbiamo
delle rette parallele: non si può più
parlare di "giudaismo normativo", ma di un insieme di movimenti,
alcuni dei quali hanno avuto una breve storia, mentre altri una storia più
lunga. In questo senso bisogna abbandonare anche la distinzione tra gruppi
maggioritari e gruppi settari-eretici (casomai, ogni gruppo era settario ed
eretico rispetto all'altro).
a)
Dal punto di vista terminologico, mentre nel primo schema il giudaismo era
definito, alla luce del cristianesimo, come l'ultimo momento del giudaismo, e
mentre nel secondo era definito come la fase di passaggio tra il giudaismo
antico e quello rabbinico considerando il cristianesimo come un'evoluzione
divergente dalla linea principale, questa visione permette di considerare il
cristianesimo e il giudaismo rabbinico come i due giudaismi vincenti (o
superstiti) del I-II sec. nei quali si è evoluto l'antico giudaismo. La
definizione medio-giudaismo,
quindi, tende proprio a sottolineare il passaggio dal giudaimo antico (in cui si
è costituita la religione giudaica come movimento monoteista: prima dell'esilio
di Babilonia, gli ebrei erano politeisti) all'affermazione di due movimenti
(cristianesimo e fariseismo).
b)
Cosa comporta questa nuova visione dal punto di vista dei rapporti tra ebrei e
cristiani? Se dal punto di vista storico il cristianesimo non è più né
qualcosa di completamente altro (primo schema) né un movimento originariamente
ebraico poi abortito (secondo schema), ma semplicemente uno dei tanti giudaismi
del I sec., ciò significa che la distinzione tra ebraico e cristiano non ha
senso, così come non ha senso chiedersi se i documenti del NT siano ebraici o
cristiani, anche perché "giudaico" è inteso spesso come sinonimo di
"non cristiano", mentre ci si dovrebbe chiedere piuttosto se quel
documento è cristiano oppure appartenente ad un altro giudaismo del I sec.
c)
Si capisce allora che è assurdo, in questa visione, parlare di separazione tra
cristianesimo e giudaismo, ma di separazione tra cristianesimo e altri movimenti
giudaici, tra rabbinismo e cristianesimo per esempio. Da questo punto di vista
il cristianesimo non si è mai separato dal giudaismo perché esso è
altrettanto giudaico quanto il rabbinismo: possiamo dire, più correttamente,
che, dalla grande pluralità dei giudaismi del I sec., soltanto due movimenti
sono stati capaci di sopravvivere: quello di Gesù, che poi ha dato origine al
cristianesimo, e il fariseismo, che poi ha dato orgine al giudaismo rabbinico.
Dire che si tratta di due movimenti giudaici, però, non significa sostenere che
sono uguali, ma che entrambi sono in una linea di contintuità-discontinuità
con l'antico Israele. A questo proposito uno studioso ebraico, Alain Segal, nel
1986 ha pubblicato un libro, non tradotto in italiano, intitolato
Rebecca's children (I figli di Rebecca)
in cui descrive ebrei e cristiani come i due gemelli Giacobbe ed Esaù, che,
dopo essersi litigati, hanno preso strade diverese.
d)
Questa impostazione ha conseguenze molto importanti per quanto riguarda il
dialogo ebraico-cristiano: se non si parla più di un rapporto tra genitori
(ebraismo) e figli (cristianesimo), ma di un legame di fratellanza, ne consegue
che i cristiani non devono dialogare con i propri genitori, ma con i propri
fratelli. Molti cristiani fanno ancora molta difficoltà a riconoscere
l'attualità dell'ebraismo: quasi ci si stupisce che il fratello sia cambiato
tanto. Questa è la grande sfida del prossimo millenio: incontrarsi tra fratelli
che hanno avuto venti secoli di esperienze diverse e accettare l'altro non solo
per ciò che è stato o per ciò che ricorda. Ciò comporta anche la reciprocità:
non basta più che i cristiani chiedano agli ebrei di insegnare loro com'erano e
che gli ebrei si limitino appunto ad insegnarlo. Se è vero che l'ebraismo di
oggi ha preservato moltissimo dell'antico patrimonio giudaico, ciò è vero
anche per il cristianesimo il quale ha preservato tanto del giudaismo antico; se
il cristianesimo ha innovato tanto, anche il giudaismo rabbinico lo ha fatto
(mentre molti cristiani pensano che i farisei fossero dei conservatori).
Essendo
cristianesimo e giudaismo rabbinico due modi diversi di rispondere alle stesse
domande, vediamo ora di capire come si sia giunti a tale situazione.
Partiamo
dal momento in cui Israele è sicuramente monoteista (periodo dell'esilio
babilonese e successivo). In genere si pensa che il giudaismo antico coincida
con l'Antico Testamento, il quale però -come si è visto all'inizio- contiene
solo testi canonici (scritti per lo più
in epoca persiana): si tratta quindi di una specie di "selezione".
Accanto alla Bibbia ebraica, tuttavia, ci sono altri testi che, all'epoca,
godevano di un'importanza non inferiore a quella dei testi canonici; mi limito a
citare, tra i più importanti, il Primo
libro di Enoch, il quale, per molti secoli nelle chiese cristiane, fu
considerato un libro canonico. Si tratta, in realtà, dell'insieme di cinque
libri (in ordine cronologico Libro dei
vigilanti, Libro dei sogni, Epistola di Enoch, Le parabole di Enoch), una
specie di Pentateuco, riferito non a Mosè, ma ad Enoch, del quale, nella
Bibbia, si dice che venne rapito in cielo da Dio e di cui poi non si seppe più
nulla, mentre, nel testo in questione, si racconta che venne rapito in cielo per
essere il liberatore di cristiani ed ebrei: si tratta quindi di un patriarca
vissuto prima di Noè, portatore di una rivelazione più importante di quella
mosaica.
Il
primo libro (Libro dei vigilanti)
contiene, secondo gli studiosi, delle storie molto antiche, qualcuno dice più
antiche del libro della Genesi. In Gen 6,1-4 si dice: "Avvenne che gli
uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla faccia della terra e nacquero loro
delle figlie. Vedendo i figli di Dio che le figlie degli uomini erano belle, si
presero per moglie quelle che fra esse loro piacquero. Disse allora il Signore:
Il mio spirito non contenderà per sempre con l'uomo, perché è carne; il suo
tempo sarà di centoventi anni. Ora, in quel tempo c'erano sulla terra dei
giganti, e ve ne furono anche dopo che i figli di Dio entrarono dalle figlie
degli uomini e queste partorirono loro dei figli. Essi sono i forti, gli uomini
famosi fin dai tempi antichi". Questo testo, abbastanza misterioso, non è
altro che una specie di sommario riassuntivo del Libro
dei vigilanti, nel quale si narra la storia degli angeli caduti, una storia
importantissima per il cristianesimo: essi fecero una sorta di conciliabolo e
scesero sulla terra; ciò fu un disastro perché rivelarono agli uomini
conoscenze che dovevano rimanere segrete e, unitisi alle donne, concepirono
esseri mostruosi. Di fronte al lamento degli uomini, Dio dà l'ordine agli
angeli buoni (gli arcangeli) di mandare il diluvio sulla terra, il quale
-secondo questa storia- sarebbe la conseguenza della caduta degli angeli
malvagi. Gli angeli, insieme al loro capo, vengono imprigionati in un pozzo e i
giganti vengono uccisi. Senonché, le anime dei giganti sopravvivono e quindi,
nonostante il diluvio, il male continua ad operare. Mentre dunque nella
tradizione biblica il male è spiegato come una conseguenza della libertà di
scelta dell'uomo posto di fronte al bene e al male, in questa tradizione
enochica si pone l'accento sul fatto che l'uomo sia vittima del male: è quello
che, in termini cristiani, si chiama peccato originale. La dottrina del peccato
originale è ebraica (a partire dal V sec. a.C.): il peccato degli angeli è
responsabile della presenza del male nel mondo, per cui l'uomo, più che
responsabile, ne è vittima. Ne consegue che l'uomo, non potendo resistere al
male, ha soltanto la possibilità di chiedere a Dio un intervento liberatore.
Mentre nella tradizione biblica si pone l'accento sulla cooperazione uomo-Dio,
qui si sottolinea la sua impotenza e la necessità di un intervento di Dio, che
può avvenire soltanto in un altro mondo, dal momento che questo mondo è ormai
corrotto.
Possiamo
dire che queste due tendenze rappresentino le due anime del pensiero giudaico
antico. Esse non possono essere separate in modo netto, perché anche quando si
sottolinea la cooperazione dell'uomo con Dio, ci si chiede in che misura possa
avvenire tale cooperazione. Nella tradizione mosaica l'allenza è vista come una
serie di comandi a cui l'uomo può obbedire, mentre in quella enochica essa è
considerata come una promessa, che non implica necessariamente una cooperazione,
la quale, se non è impossibile, è comunque molto difficile. La situazione, nel
periodo che stiamo analizzando, è ancor più complicata perché, mentre nel
giudaismo antico non si credeva nella retribuzione dopo la morte, anche se
c'erano dei meccanismi di retribuzione (l'idea, per esempio, che la punizione o
la retribuzione non avvennisse per il vivo), nel periodo ellenistico si afferma
l'idea della responsabilità individuale (si pensi al libro di Giobbe o, ancor
più, al libro di Qoelet).
Di
fronte alla crisi dell'idea del patto, le tendenze espresse dal Libro
di Enoch diventano ancora più forti e sempre più si impone un ripensamento
generale dell'intera religione di Israele. C'è un primo passo, compiuto da
Daniele, attraverso l'idea della retribuzione post
mortem (ciò elimina il problema di Qoelet, cioè l'incongruenza tra
l'azione di Dio e quella dell'individuo): se il giusto muore per difendere la
legge è un martire. E tuttavia anche qui ci sono molti problemi, perché, sia
in Daniele sia nella tradizione ebraica, esiste l'idea che è difficile per
l'uomo vivere una vita intera senza trasgressioni; che l'uomo sia peccatore è
un'idea condivisa da tutti i movimenti giudaici dell'epoca. Si tratta di una
concezione che nel giudaismo antico è strettamente legata a quella sul giudizio
divino, la quale è analoga all'idea che abbiamo noi della giustizia terrena: se
si commette una colpa, si va dal giudice per ricevere la punizione, anche se si
è vissuto sempre in modo irreprensibile; se invece non si commette un reato,
non si è giudicabili (ciò spiega, per esempio,
perché nel NT il termine "giudicare" sia sinonimo di
"condannare"). E' sottintesa l'idea secondo cui è impossibile o,
quanto meno, molto difficile che l'uomo non commetta una colpa, e ciò sia nella
prospettiva del patto sia in quella enochiana in cui il male ha proporzioni così
cosmiche che la stessa natura umana è corrotta fin nelle radici,
indipendentemente dalla buona volontà del singolo. Si capisce che, in questo
modo, non si salva nessuno o quasi.
La
necessità di dare una risposta a questi problemi produce nel medio giudaismo
una serie di diversi giudaismi, non più solo due, come un precedenza.
Un'indagine sommaria, basata sulle fonti, ne evidenzia almeno sei: giudaismo
ellenistico (Alessandria d'Egitto), movimento
sadduceo, movimento farisaico
(possiamo dire, in termini generali, che questi tre si rifanno alla teologia del
patto), movimento enochico o apocalittico, movimento cristiano e movimento
essenico (si rifanno alla tradizione enochica, basata sulla teologia della
promessa). Il gruppo più conservatore era quello dei Sadducei, i quali
rimangono ancorati alla soluzione data dal Siracide (inizio del II sec.):
rifiuto dell'idea della resurrezione, sottolineatura della libertà dell'uomo,
retribuzione divina che può avvenire anche all'ultimo momento dell'esistenza
dando al peccatore una morte atroce che cancella una vita apparentemente felice
oppure dando al giusto una buona morte o un ricordo imperituro presso i
discendenti. Non potendo analizzarli tutti, vediamo quali sono le risposte date
dal cristianesimo e dal fariseismo.
Per
il cristianesimo è importantissimo l'ultimo testo che viene elaborato dalla
tradizione enochica prima del cristianesimo, cioè il Libro
delle parabole di Enoch, un testo che parla del "Figlio
dell'uomo". Mentre in Daniele il Figlio dell'uomo non è il Messia, ma un
simbolo del popolo di Israele, nelle Parabole
di Enoch egli diventa un essere divino, creato prima della creazione
dell'uomo (si ricordi che, secondo la tradizione enochica, il male cominciò con
la creazione degli angeli), superiore agli angeli, ripieno di Spirito Santo; è
preesistente e verrà sulla terra, dal cielo, per distruggere gli angeli malvagi
(si veda sopra) e per purificare con il fuoco il mondo dalla presenza del male,
visto come una specie di malattia. Ora, Gesù, una volta staccatosi da Giovanni
Battista, si inserisce su questa linea, ma con una novità importantissima
rispetto alla tradizione enochica, nel senso che il Figlio dell'uomo ha qualcosa
da fare prima di giudicare l'uomo, cioè perdonare i peccati. A differenza della
tradizione enochica, Gesù è venuto non per i santi, ma per i peccatori, cioè
per dare loro un'ultima opportunità prima della resurrezione dei morti. Per i
cristiani il problema è evitare il giudizio (come s'è detto, sinonimo di
condanna); la buona novella è che c'è
un modo per evitare il giudizio: far leva sulla misericordia divina, perché,
non potendo volere la perdizione degli uomini, Dio manda loro il Figlio
dell'uomo non come giudice, ma come salvatore. Ne consegue che si salva non chi
dice di essere giusto, ma chi, riconoscendo di essere peccatore, accoglie questa ultima
opportunità di salvezza offerta prima della venuta definitiva. Questo è il
modo per non essere giudicati: chi accoglie Gesù non è condannato e quindi,
riconoscendosi peccatore e vivendo una prassi simile a quella del Figlio
dell'uomo, può essere salvato.
Nella
tradizione farisaica non c'è l'idea del peccato originale, ma piuttosto quella
di una certa inclinazione al male tipica di tutti gli esseri umani (di Adamo si
può dire, al massimo, che è stato di cattivo esempio, ma ogni uomo è nella
sua condizione). Essa riuscì a risolvere il problema in altro modo: la riforma
dell'idea del giudizio. Alla morte dell'individuo, ci sono in cielo due porte,
una stretta (attraversata da chi è senza peccato e quindi non viene giudicato)
e una larga (attraversata dai peccatori, cioè la maggioranza degli uomini). La
tradizione farisaica, tuttavia, ritiene che anche per il peccatore ci sia una
possibilità di giudizio, perché Dio è un giudice non solo giusto, ma anche
misericordioso, e quindi non considera solo le colpe, ma anche le buone azioni,
cioè la totalità della vita dell'individuo. Questa concezione permetteva ai
farisei di non separare la giustizia di Dio dalla sua misericordia. Secondo la
tradizione cristiana, Dio è giusto e, se agisse secondo la sua giustizia,
sarebbe giusto che tutti fossero distrutti, tranne una piccola minoranza (Dio è
anche misericordioso); si opera quindi una netta distinzione tra la giustizia di
Dio e la sua misericordia: secondo la giustizia di Dio non vi è salvezza, ma
Dio è talmente misericordioso che ha inviato il Figlio dell'uomo dando così al
peccatore la possibilità di salvarsi. La tradizione farisaica, al contrario,
cerca di mantenere una certa armonia tra la giustizia di Dio e la sua
misericordia: la sua misericordia è attuata secondo criteri di giustizia e la
sua giustizia secondo criteri di misericordia. Se così non fosse, dal punto di
vista farisaico il Dio dei cristiani sarebbe un Dio arbitrario che salva l'uomo
senza tener conto delle sue azioni; perché Dio dovrebbe salvare una persona
solo perché dice di essere peccatore? Da parte cristiana invece si diceva che
il Dio dei farisei era un Dio spietato che prometteva la salvezza quando la
forza del male fa sì che il male prevalga sempre.
Tutto
ciò fu causa di una fortissima polemica tra i due gruppi. Partendo da un tema
simile (la salvezza del peccatore), si danno due risposte diverse: mentre nel
cristianesimo c'è maggiore enfasi sulla forza del male, nel fariseismo si
insiste molto sulla responsabilità e
sulla libertà umana. Al tempo stesso c'è un diverso modo di combinare i due
criteri, quello della giustizia e quello della misericodia.
A
titolo esemplificativo, vorrei proporre la medesima parabola (quella del padrone
della vigna) così come viene raccontata nelle due tradizioni. Bisogna
preliminarmente ricordare che spesso nelle due tradizioni ci sono le stesse
parole, le stesse espressioni: si tratta infatti di medesime persone, vissute
nel medesimo contesto religioso e culturale. Ciò che è diverso tra farisei e
cristiani non è, per usare una metafora, il materiale di costruzione che usano,
ma l'edificio che costruiscono. Il fatto che, nei diversi giudaismi, si usino
mattoni uguali non significa che si costruisca la stessa casa, ma che alle
stesse domande si danno risposte diverse. Veniamo alla parabola. Com'è noto, il
padrone assegna lo stesso stipendio a tutti gli operai, suscitando le proteste
degli operai della prima ora, a cui il padrone risponde che, se egli vuole
essere buono, non è un problema loro: questo nella tradizione cristiana. In
quella rabbinica, invece, il padrone dà una risposta diversa: è giusto che
vengano pagati tutti allo stesso modo perché chi ha lavorato solo un'ora lo ha
fatto con maggiore entusiasmo anche se in minor tempo; essendo misericordioso,
il padrone considera non solo quanto si è lavorato, ma anche come
si è lavorato, per cui la sua misericordia è impartita secondo criteri di
giustizia.
Come
si vede, ciò che fa la differenza, tra ebraismo e cristianesimo, è la diversa
rilettura del medesimo patrimonio ideologico. Da questo punto di vista non c'è
differenza: i cristiani sono coloro che rileggono l'AT alla luce del NT, mentre
gli ebrei rileggono l'AT alla luce della tradizione farisaica (raccolta nella
Mishnà e nel Talmud). La medesima tradizione, quindi, è letta secondo chiavi
di lettura diverse. E' quindi logico, per esempio, che nella tradizione
cristiana il serpente di Genesi diventi il diavolo, mentre nella tradizione
rabbinica esso rimanga l'espressione dell'inclinazione al male. Non si può
dire, allora, chi ha ragione e chi ha torto, chi ha conservato o chi ha innovato
di più; senza dubbio la tradizione rabbinica è rimasta più legata alle
categorie etnico-culturali del popolo ebraico, ma anche il cristianesimo ha
conservato molte idee (salvezza per grazia, peccato originale), così come la
tradizione rabbinica ha innovato molti concetti.
Il
fatto che i nostri padri abbiano litigato, non significa che lo dobbiamo
continuare a fare anche noi; niente ci vieta di incontrarci e di conoscere un
po' meglio qualcosa dei nostri comuni genitori.
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