Dividerò la mia
conversazione in due parti: nella prima daremo una panoramica di carattere
generale sulla figura del profeta così come emerge nella tradizione ebraica,
mentre nella seconda prenderemo in considerazione una figura esemplare di
profeta, qual è Eliah.
In ebraico, "profeta" si dice navi'i, cioè il "chiamato", "colui che porta la
parola di Dio". Per enucleare più precisamente questa figura ci
soffermeremo su tre aspetti fondamentali: i
limiti
della profezia, chi può essere
profeta e, infine, i livelli di
profezia.
1. Cominciamo
dai limiti. Il profeta è
colui che ha un incontro con Dio e che vede qualcosa che agli altri non è dato
vedere; eppure nel Talmud Babilonese si dice che il massimo dell'aspirazione per
un uomo è di essere un saggio (colui che vede attraverso la mente) e non un
profeta (colui che vede attraverso una visione che Dio gli mostra). In tutta la
Bibbia, a proposito dei profeti, non
si parla mai dell'aldilà: ciò significa che nessun profeta ha visto cosa
succede dopo la morte (primo limite). Il profeta, secondo la tradizione ebraica,
può vedere solo cose che avvengono su questa terra e non quelle che sono
slegate dal mondo terreno. Ciò non toglie che egli, nel momento della profezia,
possa vedere cose che noi non potremmo vedere, come, per esempio, la venuta del
Messia e le catastrofi che porterà l'epoca messianica (secondo la tradizione
ebraica, infatti, vi è la necessità di guerre, catastrofi e violenze che
accompagnino la venuta del Messia perché egli può venire solo in un mondo che
deve essere ricostruito). Il profeta quindi può vedere il futuro, ma non ciò
che avverrà oltre la vita terrena. Il saggio, invece, che ha un rapporto con
Dio non attraverso la visione ma attraverso la propria mente, può arrivare a
capire mediante la Scrittura ciò che avverrà nel mondo dell'aldilà. Ne
consegue che i limiti del profeta non sono i limiti del saggio e i limiti del
saggio (vedere cosa avverrà nel futuro nel mondo terreno) non sono quelli del
profeta. Non a caso il Talmud Babilonese dice che il profeta è meglio del
saggio e che il saggio è meglio del profeta; e comunque, dal momento in cui è
terminato il tempo della profezia (vale a dire con la chiusura del canone
biblico) e nessuno può più dire di aver avuto una profezia, a noi non rimane
che scoprire la volontà di Dio attraverso la nostra mente.
Altro limite è che il profeta, a differenza del saggio, ha
un tempo limitato nella storia: egli è limitato dalla storia, il saggio invece
la continua. Ci sono però profeti che vedono ciò che si trova in cielo: per
esempio Ezechiele vede il carro divino il quale non fa più parte di questo
mondo. Bisogna ricordare a questo proposito che nel momento della creazione del
mondo Dio ha posto dei limiti ben precisi nei quali nemmeno lui può entrare:
nel libro dei Salmi, infatti, si
dice che il cielo è di Dio e la terra dell'uomo. Ciò non significa che Dio non
abbia rapporti con gli uomini, ma che, quando Dio interviene nel mondo, dovrà
farlo, per essere compreso, con termini umani; si tratta, in un certo senso, di
una violenza che Dio fa a se stesso, dal momento che la divinità dovrebbe
parlare in termini divini. Quando nella Bibbia si dice che Dio
"discende" sul monte Sinai, si vuole indicare una discesa
di livello linguistico da parte di Dio. Allorché, dunque, Ezechiele vede il
carro divino, entra in una dimensione non più umana, quindi la sua visione
sembrerebbe non avere dei limiti; in realtà, ciò significa, secondo i
commentatori, che la divinità ha un rapporto fisico con il mondo terreno.
2. Vediamo
ora chi può essere profeta.
Partiamo dal presupposto che non tutti i profeti hanno la stessa importanza e
non tutti vedono le stesse cose. Una prova di ciò l'abbiamo già nella
divisione della Bibbia: Torah,
Profeti anteriori, Profeti posteriori e Agiografi.
Perché si dividono i profeti anteriori da quelli posteriori? Perché un profeta
come Daniele viene compreso tra gli agiografi? Evidentemente perché profeti che
sono in una parte della Bibbia non hanno la stessa importanza di profeti che si
trovano in un'altra parte della Bibbia. Chi è dunque colui che può diventare
profeta?
In primo luogo, il profeta deve sapere che è Dio, e solo
Dio, che lo fa profetizzare, il che significa che due persone dello stesso grado
culturale possono diventare uno profeta e l'altro no, perché è sempre Dio a
decidere chi può essere profeta. Ci vuole, però, anche una certa
predisposizione: chi non ha una profonda cultura ebraica, dolcezza di tratto e,
potremmo dire, bontà d'animo non può essere profeta, perché, se manca la
predisposizione, manca anche la profezia, non per volontà umama, ma per volontà
divina (del resto il popolo non avrebbe mai ascoltato una persona che non fosse
riconosciuta come saggio, giusto).
E' il Maimonide a soffermarsi sulle qualità essenziali del
profeta; egli dice che il profeta
deve essere:
a) un grande saggio.
Quando prima si distingueva il profeta dal saggio, non si voleva dire che
il profeta non possa essere saggio, ma che, nel momento in cui il profeta ha la
profezia, egli è un profeta e non un saggio e che, al cessare della profezia,
torna ad essere un saggio: il profeta deve essere saggio perché è lui, prima
degli altri, a dover dare un senso alle immagini che Dio gli fa vedere.
b) una persona forte:
nella tradizione rabbinica, il "forte" è colui che "sa bloccare
il proprio istinto".
c) un uomo ricco,
forse perché le persone ricche vengono più ascoltate di quelle povere, ma più
probabilmente nel senso di un proverbio ebraico che dice "il ricco è colui
che è felice di ciò che possiede", e quindi il profeta è tale quando non
cerca più denaro di quello che ha.
d) una persona che sa
consolarsi da sola
e) una persona che deve avere la gioia divina. Molto spesso la Bibbia ci presenta i profeti come
persone molto tristi e seriose; tuttavia, secondo una tradizione fatta propria
dal Maimonide, la parola di Dio può essere sentita solo in un momento di gioia.
Prendiamo l'esempio di Abramo che sta per uccidere il proprio figlio. I maestri
si chiedono: perché Abramo, e non qualcun'altro, è diventato il simbolo della
fede? Se si parte dal presupposto che un profeta, per sentire la parola di Dio,
deve essere in un momento di gioia, bisogna dire che, nel momento in cui
l'angelo lo ferma, Abramo era contento. Egli quindi diventa simbolo della fede
perché accetta di mettere a morte il proprio figlio ed è contento nel momento
di farlo. E' proprio la gioia nel momento della distruzione che può salvare il
mondo dalla distruzione. Ogni volta, quindi, che il profeta parla di catastrofi,
ne parla non in modo distaccato, ma, nonostante tutto, dentro di sé continua a
gioire.
3. Passiamo
ora a vedere quali sono i livelli
di profezia. Secondo il pensiero ebraico abbiamo dodici livelli di profezia. I primi due sono di carattere, per così
dire, propedeutico. I cinque livelli compresi tra il terzo e il settimo (prima
serie) sono caratterizzati da una profezia piuttosto confusa nel corso della
quale il profeta dorme; in quelli dall'ottavo al dodicesimo (seconda serie) il
profeta resta sveglio e le parole della profezia sono molto più chiare.
- Il primo è il livello
della bontà, quello che la Bibbia chiama "lo spirito divino":
tutte le volte che si dice, di un profeta, che "è colpito da spirito
divino", si intende che è colpito da spirito di bontà. Il profeta,
allora, non è semplicemente colui che cade in estasi, ma anche colui che sente
dentro di sé una spinta irresistibile che lo porta a far del bene: quando uno
sente l'obbligo di fare del bene, già possiede lo spirito profetico. Altre
culture religiose hanno posto la bontà verso gli altri al di sopra di tutto;
l'ebraismo invece ha visto nella bontà solo la base della profezia: il profeta
è molto di più (tanto è vero, come vedremo più avanti, che ci sono profeti,
in particolare Elia, i quali, per il bene del popolo, hanno decretato la morte
del popolo). Non è profeta, quindi, semplicemente chi fa del bene, ma colui che
non può fare a meno di fare del bene.
- Il secondo è il livello
di saggezza: il profeta ha dentro di sé una forza che lo fa pensare. Tutti
i libri che si trovano negli Agiografi
(Daniele, Salmi, Giobbe, ecc.) contengono un basso livello di profezia, quello
della saggezza.
- Con il terzo livello entriamo nel vero e proprio mondo
della profezia: è il livello della
visione. Il Maimonide dice che ogni profeta, nel momento della visione, cade
estasi perdendo le proprie forze e
la propria mente. L'unico profeta che riusciva a rimanere se stesso era Mosè.
Ezechiele, per esempio, nel momento della visione, dice "la mia forza
diventava la mia debolezza e non riuscivo a stare in piedi": è come se il
profeta capisse di essere talmente piccolo di fronte a Dio da dover cascare.
Siccome invece Mosè è l'esempio di umiltà, quando Dio gli parla non può
diventare più umile di quanto già non sia e questo spiega perché Mosè, a
differenza degli altri profeti, non soccomba di fronte a Dio: ciò dimostra che,
più si va avanti col tempo, cioè ci si allontana dalla rivelazione del Sinai,
più i profeti posseggono una personalità meno forte. Dunque, secondo
Maimonide, nel momento in cui Dio gli parla, il profeta capisce la sua pochezza
e quindi soccombe; Mosè invece capiva la sua nullità anche quando Dio non gli
parlava (questo spiega perché Mosè ha capito più di tutti gli altri profeti).
- Il quarto è il livello
del sogno: non più una visione, ma parole che vengono sentite nel sogno. Il
sentire ha maggior valore della visione.
- Il quinto è il livello
delle parole senza visione: ci sono profeti che non hanno visioni, che
perdono la propria forza, ma sentono delle parole che, pur venendo da lontano ed
essendo confuse, hanno più valore di quelle sentite nel sogno. Altri invece
(per es. Ezechiele) sognano parole
dette da un uomo: la parola, in questo modo, risulta più intensa.
- Il sesto è il livello
angelico: non è più un uomo che parla, ma un angelo.
- Il settimo è il livello
divino: non è più un angelo, ma è Dio stesso che si rivolge al profeta.
Qui termina la prima serie, caratterizzata, come si è visto,
dal fatto che i profeti devono necessariamente dormire per sentire la parola di
Dio.
- L'ottavo livello (che apre la seconda serie) è quello
della visione da sveglio: il profeta
vede qualcosa di confuso (nella Haggadà
si dice che il profeta vede qualcosa come dietro ad una tenda: più il profeta
è grande più la tenda cade davanti alla sua vista). In questo livello abbiamo
i grandi profeti dell'ebraismo, per esempio Abramo (cfr. Gen. 15 dove si dice
che fu colpito da sonnolenza, ma resta sveglio).
- Il nono è il livello
della voce: c'è sempre una visione confusa, ma con la presenza di una voce
(della quale però non si conosce l'identità).
Come si vede, anche in questa seconda serie come nella prima (dal terzo
al settimo livello) la visione lascia progressivamente posto ad una voce.
- Nel decimo livello c'è la presenza di un
uomo che parla, ma in modo
molto più chiaro. L'esempio è costituito da Giosuè, il quale, prima di
entrare in Israele, ha la visione di un uomo che gli si para davanti con la
spada sguaniata e che gli dice quale sarà il futuro del popolo. Giosuè non si
pone neppure il dubbio che quest'uomo sia un nemico, perché sa che si tratta di
un messaggero divino. Ma come può saperlo? Per il fatto che egli l'ha visto non
come noi vediamo un essere umano, ma attraverso un livello altissimo di capacità
profetica, nel quale Dio gli parla direttamente attraverso un uomo le cui parole
sono chiarissime.
- Nell' undicesimo livello c'è un angelo che parla: anche in questo caso le parole pronunciate
dall'angelo sono molto chiare.
- Nel dodicesimo e ultimo livello è Dio che parla. Dio aveva già parlato ad altri profeti (cfr. il
settimo livello), ma in modo confuso. Qui invece Dio parla in modo così chiaro
come se stesse parlando un essere umano. A questo livello è giunto soltanto Mosè,
mentre gli altri, al massimo, possono arrivare all'undicesimo livello.
Prendiamo ora in esame la figura del profeta Elihau, o Eliah.
Nella tradizione ebraica egli è chiamato Elihau ha navi'i, "Eliah il profeta per eccellenza". Si
tratta di una figura molto significativa perché nella tradizione talmudica è
l'unico profeta che appare in sogno ad alcuni rabbini dando loro la soluzione di
alcuni problemi; è colui che, sempre in sogno, punisce alcuni rabbini per ciò
che hanno detto o fatto e che non dovevano fare o dire. Nel Talmud si racconta
che un giorno un capretto, scappato dal padrone, si nasconde sotto la veste di
un rabbino il quale consegna il capretto al padrone dicendo: "Vai dal tuo
padrone perché sei stato creato per essere ucciso": da quel momento in poi
il profeta Elihau non comparve più in sogno a quel rabbino. Elihau è inoltre
colui che accompagna la storia del popolo ebraico di generazione in generazione;
un'antichissima tradizione dice che egli non è mai morto, ma che si reincarna
nel corso dei secoli. E' un personaggio che si traveste, che si trova tra noi,
ma che noi non riusciamo a riconoscere. E' il profeta a cui durante la cena
pasquale si lascia un bicchiere di vino perché egli viene a trovare il popolo.
Elihau è molto amato: è l'esempio della bontà. Per assurdo, è l'unico
profeta che ama tanto il popolo ebraico da accompagarne l'esistenza e da
decretarne la morte.
La sua storia viene raccontata nel primo libro dei Re. "Al
tempo del re Acab, Iel di Betel ricostruì Gerico. A prezzo di Abiram, suo
primogenito, gettò le fondamenta, e al prezzo di Segub, suo ultimo nato, alzò
le sue porte, secondo la parola del Signore che aveva proferito per mezzo di
Giosuè, figlio di Num. Eliah il Tesbite, uno dei dimoranti di Galaad, disse ad
Acab: «Come è vivo il Signore, Dio d'Israele, dinnanzi al quale io sto, in
questi anni non ci sarà rugiada, né pioggia, se non per mio comando»"
(1Re 16,34-17,1). Abbiamo qui il caso di un profeta che potrebbe non essere
profeta, dal momento che il testo non ci dice nulla della sua identità, della
sua discendenza e della sua tribù, ma soltanto che aveva decretato la morte del
popolo per mancanza di cibo ed acqua. Un profeta che si presenta in questo modo
ci causa parecchi problemi: come si permette di decretare la morte del popolo?
chi è lui per dire che ci sarà una carestia? Tutto ciò contrasta con quanto
si è detto sopra a proposito della necessaria umiltà che il profeta deve
possedere: è come se Eliah togliesse a Dio ogni possibilità di decidere la
sorte del popolo.
Per risolvere questi problemi dobbiamo far ricorso al
commento rabbinico, nel quale si dice che per capire il cap. 17 si devono tener
presenti i versetti precedenti
circa la ricostruzione di Gerico a prezzo della morte dei figli di Iel di Betel.
Il midrash racconta che Dio disse ad
Elihau: "in quella casa c'è un padre che sta piangendo la morte dei suoi
figli: vai a casa di quell'uomo per consolarlo". Elihau -continua il midrash-
dapprima chiede a Dio l'assicurazione di mettere in pratica tutto ciò che
avrebbe detto a Iel e poi si reca a casa sua, entra, lo trova seduto per terra
cosparso di cenere; si avvicina e gli dice: "Se Dio ha ucciso i tuoi figli,
ha fatto bene!". Tra le persone che stavano consolando Iel c'era anche il
re, il quale, nel sentire le parole di Elihau, si mette a ridere dicendogli:
"Se parla un maestro o un allievo, chi si deve ascoltare?". Elihau
risponde: "Ovviamente il maestro". "Allora -dice il re- tu mi
porti una profezia di Giosuè che è allievo di Mosè il maestro: a chi si deve
dare ascolto?". "A Mosè". "Se dunque non si è realizzata
la profezia di Mosè, come potrà realizzarsi quella di Giosuè?". Elihau
risponde: "Se la metti così, facciamo avverare la parole di Mosè e quindi
io decreto che tutti moriremo per mancanza di pioggia".
Il midrash con
questa storia vuole mostrarci come in questo periodo storico presso il popolo
ebraico tutto veniva assegnato al caso, alla legge naturale, non esisteva il
miracolo e il rapporto con Dio. A proposito del v. 34, il commento rabbinico si
chiede perché il testo specifichi che Segub è il figlio più giovane quando già
si è detto che Abiram è il primogenito (secondo i rabbini infatti la Bibbia
non dice mai niente di superfluo e tutto ha un senso ben preciso, anche se non
sempre chiaro): il significato è che a Iel di Betel non muore il figlio
primogenito e l'ultimogenito, ma dal
primogenito all'ultimogenito, cioè tutti i suoi figli, dal primo all'ultimo, e
nonostante ciò il padre non si ferma dalla ricostruzione di Gerico. Il midrash
dunque vuole mettere in evidenza come, in un periodo in tutto era affidato al
caso, Elihau, in un certo senso, rispolvera un'antica profezia di Goisuè dal
momento che il popolo si comporta come se Dio non esistesse.
Questo è il pensiero di Elihau. Ma Dio -ci chiediamo noi- è
dello stesso parere di Elihau? Già il fatto che il profeta sia introdotto senza
una presentazione ci fa capire che Dio non era d'accordo con lui: ci potrà pure
essere una punizione, anche dura, ma essa non potrà riguardare tutto il popolo.
Dio non vuole avere nulla a che fare con Elihau. Il problema è perché Elihau
si comporta in questo modo: egli non è l'esempio del profeta cattivo, ma del
profeta che ama il popolo a tal punto da idealizzarlo e, quando la sua idea di
popolo non corrisponde alla realtà, non gli rimane che la punizione. Non
propone la morte del popolo perché lo odia, ma perché il popolo non corriponde
più con il suo ideale. Ma se Dio non è d'accordo con Elihau ed interviene per
dirgli che sta sbagliando, ne consegue che tutti possono essere profeti.
Vediamo allora che, a partire dal v.2, Dio lavora sul
carattere di Elihau per portarlo a riconoscere il proprio errore: deve essere
infatti il profeta, e non Dio, a dire che la morte del popolo è ingiusta.
Vediamo il testo: "La parola del
Signore fu rivolta a lui dicendo: «Vattene di qui, ti dirigerai verso oriente e
ti nasconderai nel torrente Carit, che è di fronte al Giordano. Tu berrai del
torrente e io ordinerò ai corvi di nutrirti là». Egli partì e agì secondo
le parole del Signore. Andò e dimorò nel torrente Carit, che è di fronte al
Giordano. I corvi gli portavano pane e carne alla mattina e alla sera e beveva
del torrente. Ma avvenne che, passato del tempo, il torrente si seccò, poiché
non ci fu pioggia sulla terra" (17,2-7).
Dio parla ad Elihau attraverso dei simboli e la grandezza di
Elihau è di riuscire a capire questi simboli. In ebraico, infatti, il termine qédem/qòdem
significa "oriente", ma anche "prima"; qòdem è anche uno dei nomi che vengono attribuiti a Dio,
"colui che viene prima, che precede la creazione del mondo". Ora,
perché Elihau viene mandato proprio verso oriente? Perché è come se Dio gli
volesse dire: "te ne devi andare, perché, nel momento in cui hai decretato
la morte del popolo di Israele, ti sei staccato da colui che vive prima della
creazione del mondo".
Un'altra stranezza è il fatto che il torrente Carit non è
mai esistito; il nome deriva da qarà
che significa "tagliare, uccidere" e il qarét ("spaccatura", "recisione") è la
punizione più grave che si possa infliggere ad una persona. Dio lo manda verso
oriente, in un fiume con un nome particolare perché tutto deve ricordare ad
Elihau che il suo decreto di morte per il popolo è quello che ha generato un
distacco da Dio e che la morte del popolo è la punizione peggiore, il qarét.
Egli poi dovrà essere nutrito dai corvi e dovrà bere
l'acqua del torrente. Perché proprio i corvi? -si chiedono i maestri. A questo
proposito c'è un interessante racconto: quando Noè dovette raccogliere gli
animali da collocare nell'arca, Dio, nonostante le sue perplessità, gli disse
di portare con sé anche i corvi facendogli notare come, in futuro, la vita del
popolo di Israele sarebbe stata salvata da alcuni corvi che porteranno da
mangiare ad Elihau; nulla di quello che fa Dio -conclude il racconto- è
affidato al caos, anche quando si serve di animali brutti e insignificanti come
i corvi. C'è però anche un'interpretazione più razionale: se tutto in questo
brano è un simbolo, cosa rappresentano i corvi? E' noto che i corvi abbandonano
i propri piccoli nel nido di altri uccelli lasciandoli curare a loro: in tutte
le tradizioni, quindi, il corvo è sempre stato l'esempio della mancanza di
misericordia nei confronti degli altri. Ne consegue -secondo questa
interpretazione- che Dio vuol far capire ad Elihau che si sta comportando come
un corvo.
Dopo aver ricevuto tutti questi messaggi simbolici, Elihau
dovrebbe mutare carattere. Ma non accade proprio niente. Dio allora cambia
strada: se la solitudine non ti serve a nulla, vai a vedere cosa hai creato con
la tua profezia! "La parola del
Signore fu rivolta a lui dicendo: «Alzati, va' a Sarepta, appartenente a Sidone,
lì ti stabilirai. Ecco, lì ho ordinato ad una donna vedova di nutrirti». Egli
si alzò e andò a Sarepta. Arrivò alla porta della città ed ecco qui una
donna vedova che raccoglieva legna; egli la chiamò e le disse: «Per favore,
portami un poco di acqua in un vaso perché io beva». Ella andò a prenderla,
ma egli la chiamò e le disse: «Per favore, portami un pezzo di pane nella tua
mano»" (17,8-11). Bisogna notare che, in questo momento, Elihau non è
più un profeta, ma un uomo qualunque che si vergogna di chiedere subito alla
vedova di portargli anche qualcosa da mangiare. Si assiste ad un cambiamento in
Elihau: mentre la solitudine non ha inciso sul suo carattere, adesso, posto di
fronte ad una vedova a cui è rimasta solo un po' di acqua e di pane, prova
vergogna e non ha il coraggio di guardarla in faccia (v.8). "Ella
rispose: «Viva il Signore, tuo Dio, io non ho pane cotto, ma soltanto un pugno
di farina in un vaso e un poco d'olio dell'orciuolo; ecco io sto raccogliendo
della legna, vado a prepararla per me e per mio figlio, poi la mangeremo e
quindi moriremo»" (17,12). I commentatori dicono che questo
"moriremo" deve essere interpretato come "magari potessimo
morire".
Elihau viene così posto in modo brutale di fronte a ciò che
aveva causato e questo deve fargli cambiare carattere, se vuole continuare ad
essere profeta. "Elihau disse allora:
«Non temere, va', fai secondo la tua parola, però prima fammi con essa una
focaccia piccola e portamela, per te per tuo figlio la farai dopo. Così ha
parlato il Signore, Dio d'Israele: Non finirà il vaso della farina e non scemerà
l'orciuolo dell'olio, fino al giorno in cui il Signore invierà l'acqua sulla
terra»" (17,13-14). All'inizio del capitolo, Elihau aveva detto che
non sarebbe più caduta la pioggia finché non l'avrebbe detto lui; adesso
invece attribuisce a Dio la potenzialità di decidere la carestia.
Ma c'è un altro problema: perché Elihau vuole mangiare
prima della vedova e di suo figlio (v.13)? I rabbini fanno notare come Elihau
provenga da un tribù particolare, quella dei sacerdoti. Ora, una delle regole
cui tutti gli ebrei dovevano sottostare (e dico dovevano perché adesso non c'è più il santuario) era di lasciare
da parte un po' di pasta, nel giorno di Pasqua, da riservare ai sacerdoti, i
quali, occupandosi del santuario, non avevano di che mangiare.
E nella storia ebraica i sacerdoti sono stati coloro che, più degli
altri, hanno combattuto, anche in modo violento ( si pensi a Mosè),
l'idolatria. Questo spiega il comportamento di Elihau: egli non si dimentica di
essere un cohén, un sacerdote. E
allora in lui si scatena il conflitto tra il provare misericordia e l'essere
inflessibile contro l'idolatria.
"Ella partì e
fece secondo la parola di Elihau e mangiò lui, lei e la sua famiglia per molto
tempo. Il vaso della farina non finì e l'orciuolo dell'olio non scemò, secondo
la parola del Signore che aveva pronunciato per mezzo di Elihau. Dopo questi
fatti, il figlio della donna, padrona di casa, si ammalò e la sua malattia fu
assai grave, tanto che non rimase in lui respiro. Allora lei disse ad Elihau: «Cosa
c'è fra me e te, o uomo di Dio? Sei venuto da me per ricordarmi la mia iniquità
e far morire mio figlio?»" (17,15-18). Si noti che, mentre al v. 10 si
parlava di una "vedova", qui si parla di "donna, padrona di
casa": evidentemente l'aver potuto mangiare e bere le ha fatto perdere il
pensiero di essere vedova. Ma è proprio questa possibilità di mangiare e bere
che le fa problema: se Dio, attraverso il profeta, l'ha sfamata e dissetata,
mentre tutto il popolo sta morendo, ciò deve essere pagato con la morte del
figlio, il quale -nel pensiero della donna- è morto perché ella non ha provato
pietà per i vicini di casa che stavano morendo di fame.
Su questo episodio c'è un midrash molto bello: vi si immagina una discussione tra Dio e Elihau,
nel corso della quale il profeta chiede a Dio di dargli la possibilità di
guarire il figlio della vedova; egli non si limita a pregare, ma vuole
essere lui in prima persona, in quanto responsabile della sua morte, a ridare la
vita al bambino. Secondo questo midrash,
Dio gli risponde: "Ci sono tre cose che solo Dio può fare. Quando ho
creato il mondo, ho creato tre chiavi che aprono tre porte: della nascita, della
pioggia e della resurrezione dai morti. Queste tre porte le posso aprire solo
io. Io ti ho prestato la chiave della porta della pioggia: se ti do anche quella
della resurrezione dei morti, tu hai due chiavi e io una sola; quindi dovresti
darmi la chiave della pioggia per avere quella della resurrezione dei
morti". Elihau acconsente: il bambino rinasce e, tornata a cadere la
pioggia, il popolo ritorna a vivere. Si vede chiaramente come Elihau sia profeta
proprio per la sua capacità di capire i propri errori, di cambiare carattere e
soprattutto di comprendere i simboli attraverso i quali Dio manda i suoi
messaggi.
Nel cap. 19 (su cui ci soffermeremo brevemente) Elihau cambia
carattere un'altra volta: di misericordia non ne vuole più sapere. "Acab
raccontò a Gezabele tutto ciò che aveva fatto Elia e come aveva massacrato con
la spada tutti i profeti (si tratta di falsi profeti, n.d.r:) Allora
Gezabele spedì un nunzio a Elia dicendo: «Così mi facciano gli dei se domani
a quest'ora io non ti ho tolto la vita, come la vita di uno di loro». Egli ne
ebbe timore, perciò si alzò e partì per salvarsi. Pervenne a Bersabea,
appartenente a Giuda, e vi fece fermare il suo servo, mentre egli si inoltrò
nel deserto per il cammino di un giorno, andò, si riposò sotto una ginestra ed
espresse il desiderio di morire, dicendo: «Basta, ora, o Signore, prendi la mia
vita, perché io non sono migliore dei miei padri»" (19,1-4). Perché
Eliahu chiede la morte? Noi potremmo rispondere perché si trova in pericolo di
vita. Ma se è in pericolo di vita perché scappa? Elihau non chiede la morte
perché il re aveva ordinato di ucciderlo, ma perché si pente di qualche grave
azione commessa. Cosa significa poi l'espressione "i miei padri non sono
migliori di me"? Elihau, in realtà, si deprime perché si accorge di
essere come i suoi padri: anche Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè e tutti gli
altri hanno chiesto misericodia per la vita del popolo ebraico ed Elihau si è
comportato come loro (cfr. 17,19-24).
Elihau si pente per aver chiesto misericordia e si siede
sotto una ginestra. Anche qui la ginestra ha un valore simbolico. Un midrash
dice che il legno della ginestra ha la particolarità, quando viene bruciato, di
essere freddo all'esterno, ma caldo all'interno. Nel Talmud poi si racconta di
un tale che aveva bruciato una ginestra: dopo settant'anni ritornò sul posto,
spaccò il legno e si accorse che dentro era ancora caldo. Elihau, quindi, è
come una ginestra: si può anche raffreddare di fuori, può anche provare
misericordia, ma dentro rimane quello di prima. Passata la visione della vedova,
ad Elihau non rimane che una cosa: il pentimento per aver chiesto misericordia,
quando invece il popolo -lui dice- non dovrebbe aver bisogno della misericodia,
perché questo è un simbolo di debolezza e non è giusto avere a che fare con
un popolo che si basa sulla misericordia divina. Per questo Elihau si abbatte.
"Si sdraiò e si
addormentò sotto la ginestra ed ecco che un angelo lo toccò e gli disse: «Alzati,
mangia». Egli guardò ed ecco che presso il suo capo c'era una focaccia cotta
sulle pietre calde e un orciuolo di acqua. Mangiò, bevve, poi si sdraiò di
nuovo. L'angelo del Signore tornò una seconda volta, lo toccò e gli disse: «Alzati,
mangia, perché lunga è per te la strada». Si alzò, mangiò e bevve, poi con
la forza di quel cibo camminò quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di
Dio, l'Oreb" (19,5-8). Non si pensi che Elihau abbia camminato per
quaranta giorni: tutto sta avvenendo sottoforma di visione. Si noti anche come
l'annuncio sia fatto da un messaggero divino: sulla base di quanto s'è detto
sopra, si vede chiaramente come il livello della profezia si sia abbassato (dal
livello undici si passa al livello nove). Anche Mosè è stato quaranta giorni e
quaranta notti sull'Oreb, senza mangiare né bere; se si considera che ogni
profeta ha un altro -per così dire- "profeta di riferimento", qui
Elihau si paragona a Mosè, il più grande dei profeti. L'intervento di Dio,
tramite la visione, ha lo scopo di far vedere ad Elihau, il quale era un cohen,
in che cosa non era uguale a Mosè; è come se gli dicesse: "Tu hai
mangiato e bevuto, mentre Mosè ha trovato la forza proprio per il fatto di non
aver mangiato né bevuto. Come puoi quindi paragonarti a Mosè? Per te allora
comincerà una calata della profezia fino a che la perderai totalmente".
"Qui entrò in una
grotta (anche Mosè lo aveva fatto) e
vi passò la notte. Ed ecco che la parola del Signore gli fu rivolta dicendo: «Cosa
fai qui Elia?», cioé: questo è il posto dove poteva stare Mosè, non tu,
dal momento che stai per perdere la profezia. A questo punto Elihau potrebbe
rispondere scusandosi con Dio, come del resto aveva fatto Mosè (cfr: Es.
32,7-14), invece dice: "Sono arso
dallo zelo del Signore, Dio delle schiere, poiché i figli di Israele hanno
abbandonato il tuo patto, hanno distrutto i tuoi altari e hanno ucciso di spada
i tuoi profeti. Io son rimasto l'unico e cercano la mia vita per prenderla"
(19,10). Nonostante tutto, egli rimane della sua idea. Subito dopo ad Elihau il
Signore fa vedere delle cose spaventose e per ultimo il silenzio (19,11-12): il
fuoco, il vento e il terremoto sono elementi distruttori, ma l'essenza divina
non consiste nella distruzione, come pretenderebbe Elihau, bensì nel silenzio
del perdono. Ancora una volta però Elihau non cambia idea (19,13-14). Ecco
allora che Dio gli ordina di andare nel deserto di Damasco e di ungere un altro
profeta, perché la sua profezia può considerarsi finita (19,15-16).
In base a tutto ciò che si è detto, si vede come Elihau sia
un tipico esempio di profeta che non cambia assolutamente idea a causa di ciò
che Dio gli fa vedere. Anche questo significa essere profeti: prendersi fino in
fondo le proprie responsabilità. E -come si è detto sopra- a portare il Messia
e a seguire il popolo ebraico lungo tutta la sua storia non sarà un profeta
buono e gentile, ma proprio Elihau, cioè il profeta che è stato rifiutato da
Dio. Perché tutto ciò? Per il fatto che nel profeta Elihau il popolo ha visto
il simbolo della propria maturità, per effetto della quale ha capito che non si
può andare avanti facendo sempre conto sulla misericordia divina, ma anche
sulle sue punizioni, perché è solo con esse che si può crescere.
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