Il
mio discorso sarà suddiviso in due parti: comincerò con un'esposizione su cosa
l'Ebraismo intende per Bibbia, per poi soffermarmi sulla lettura e il commento
di alcuni testi particolarmente significativi.
Partiamo
dalla parola lettura. In italiano
questo termine ha molti significati: può indicare una lettura silenziosa,
mentale, come quella che abitualmente si pratica oggi quando si legge un libro,
un giornale, un'insegna, una lettera; oppure una lettura ad alta voce,
perché gli altri ascoltino, pur senza avere il testo davanti: è la lettura che
si fa nelle assemblee religiose o civili, a scuola, a gente che non sa leggere
(gli antichi invece leggevano
sempre ad alta voce, anche quando erano soli, quindi il loro leggere era anche
un ascoltare); infine, lettura significa
modo di intendere e interpretare ciò che si legge.
Ora,
quando noi ci occupiamo del modo ebraico di leggere la Scrittura, dobbiamo prima
di tutto tener presente che in ebraico la Scrittura si chiama miqrà,
che significa "lettura". Ma che tipo di lettura? Il termine miqrà deriva dalla radice qarà
e dal verbo qarà, che significa
"leggere, chiamare, gridare, nominare". Tutti, come si vede, fatti
acustici. Questo ci aiuta a capire che, delle tre modalità di lettura che ho
citato prima, per la Bibbia ebraica ce ne sono due che contano e una che non
conta: la lettura silenziosa no; la proclamazione ascoltata e l'interpretazione
sì.
A
questo proposito, vorrei proporre un testo molto importante. Si tratta dei primi
otto versetti del cap. 8 di Neemia: "Come fu giunto il settimo mese e i figlioli di Israele si furono
stabiliti nella loro città, tutto il popolo si radunò come un sol uomo nella
piazza che è davanti alla porta delle Acque, e disse a Esdra, lo scriba, che
portasse il libro della legge di Mosè che il Signore aveva data a Israele. E il
primo giorno del settimo mese, il sacerdote Esdra portò la legge davanti alla
radunanza, composta di uomini, di donne e di tutti quelli che erano capaci di
intendere. E lesse il libro sulla piazza che è davanti alla porta delle Acque,
dalla mattina presto fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e
di tutti quelli che erano in grado di intendere; e tutto il popolo teneva
tese le orecchie a sentire il libro della legge. Esdra, lo scriba, stava
sopra una tribuna di legno, che era stata fatta apposta, e accanto a lui
stavano, a destra, Mattithia, Scema, Anania, Uria, Hilkia e Maaseia; a sinistra,
Pedaia, Mishael, Malkia, Hashum, Hashbaddana, Zaccaria e Meshullam. Esdra aprì
il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava in luogo più eminente;
e, come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedì
il Signore, l'Iddio grande, e tutto il popolo rispose: Amen, amen, alzando le
mani; e si inchinarono e si prostrarono con la faccia a terra davanti al
Signore. Jeshua, Bani, Scerebia, Jamin, Akkub, Shabbethai, Hodia, Maaseia,
Kelita, Azaria, Jozabad, Hanan, Pelaia e gli altri leviti spiegavano la legge al
popolo, e il popolo stava in piedi al suo posto. Essi leggevano nel libro della
legge di Dio distintamente; e ne davano il senso, per far capire al popolo quel
che s'andava leggendo".
Questa
scena, avvenuta verso il 444 prima
dell'era volgare o circa cinquant'anni prima (vi sono rilevanti problemi di
cronologia), ci rappresenta per la prima volta un culto di lettura. In questo periodo il secondo tempio esisteva già
(era stato infatti consacrato nel 515). Qui però avviene qualcosa fuori dal
tempio, in piazza, cioè nella situazione primitiva della sinagoga (le più
antiche sinagoghe erano le piazze). Ci sono già, infatti, i due elementi
fondamentali della sinagoga: la tribuna alzata e il libro. Il centro di questa
solenne seduta non è l'altare, ma il libro, il séfer ("rotolo") che viene portato con la solennità che
si usa quando si estrae il rotolo dall'Arca e lo si porta per la lettura. Questo
rotolo contiene la legge di Dio. Gli studiosi pensano che Esdra, con molta
probabilità, abbia letto l'attuale Pentateuco, o quasi, il quale, peraltro, era
stato edito da Esdra stesso.
Come
avviene questa lettura? C'è, prima di tutto, una cerimonia di "onore al
libro". Ancora oggi, nelle solenni messe cattoliche e ortodosse, si ripete
questo atto: il libro viene portato in processione, incensato, innalzato, mentre
la gente sta in piedi in segno di rispetto. Segue una benedizione. Anche adesso,
sia nel rito ebraico sia in quello cattolico, la lettura è preceduta da una
benedizione.
Il
libro viene letto a sezioni, con l'assistenza di alcune persone. Il brano che
abbiamo letto descrive una collaborazione alla lettura: "Esdra
leggeva"; poi si dice: "essi leggevano a sezioni e ne davano il senso per far capire al popolo quello
che si andava leggendo". Cosa sarà questo
ne davano il senso (terzo significato del termine lettura di cui s'è detto
sopra)? Può essere due cose contemporaneamente: facevano il targùm,
cioè la traduzione in aramaico (perché la gente non capiva più l'ebraico) e,
al tempo stesso, ne davano un'interpretazione, una spiegazione.
Analizziamo
questa scena visivamente (analizzarla all'interno della sinagoga di sabato al
giorno d'oggi sarebbe la stessa cosa). In che modo l'assemblea entra in rapporto
con la Scrittura o, per dirla in ebraico, con la lettura? Non è
qualcosa di assimilabile ad un sapiente o a un non sapiente che legge e pensa a
ciò che lo Spirito gli fa capire. Nell'Ebraismo, al contrario, bisogna sempre
usare il plurale e parlare di fedeli,
di assemblea, perché il libro non può
essere estratto dall'Arca e letto se non c'è il cosiddetto miniàm, cioè la presenza di almeno dieci uomini. Ora, i fedeli non
stanno in rapporto diretto con il Libro. C'è piuttosto una situazione di tipo
triangolare: tra l'assemblea e il Libro sta la tradizione, che, in termine tecnico, è chiamata torà
she-be-'al pèh, che significa "la torà che sta sulla bocca". Non
solo sulla bocca di chi legge, ma anche sulla bocca di tutte le generazioni che
ci hanno preceduti.
L'assemblea
di ascolto non è altro che l'attualizzazione della Pentecoste del Sinai, quando
c'è stato il dono della Torà a Mosè. Si ricorderà che la gente non voleva
neppure sentire la voce di Dio perché aveva troppa paura ed era Mosè che
riceveva e trasmetteva. Se noi leggiamo il codice dell'Alleanza nei capp. 21-23
dell'Esodo, il codice rituale del cap. 34 e i vari codici contenuti nel
Pentateuco, ci accorgiamo che è sempre Mosè il mediatore tra Dio e il popolo
in ascolto. Dunque, nella situazione di lettura della Torà di qualunque secolo,
anche di oggi, dobbiamo sempre tener presente che tra l'assemblea e il Libro c'è
la tradizione orale.
All'inizio
del trattato rabbinico Pirqè Avòt ("Capitoli
dei Padri"), la tradizione orale è così presentata: "Mosè ricevette la Torà dal Sinai e la trasmise a Giosuè, Giosuè
agli anziani, gli anziani ai profeti e i profeti la trasmisero agli uomini della
grande assemblea. Questi dicevano tre cose: Siate misurati nel giudicare,
suscitate molti discepoli e fate una siepe intorno alla Torà" (Avòt
I,1). Un commentatore medievale, Machazor di Vitry, chiarisce: "La
Torà tutta intera, sia quella scritta sia quella orale". E il più
antico rabbì Jonà: "Sia la Torà che è stata messa per iscritto sia la Torà che è sulla
bocca, perché la Torà è già stata data insieme alle sue
interpretazioni" (Detti
rabbinici, a c. di A. Mello,
Edizioni Qiqajon, Bose 1993, p. 50). Se si rilegge questa catena della ricezione
che va da Mosè ad Esdra (e che poi continua fino al II sec. d.C.), si noterà
che i "maestri della grande assemblea" dicevano tre cose che dentro la
Torà non ci sono, ma che fanno parte della Torà orale.
E'
interssante notare che i Farisei e Gesù stesso si basavano sulla Torà orale,
mentre i Sadducei si attenevano alla Torà scritta. Nella disputa evangelica
sulla resurrezione, per esempio, i Sadducei vengono confutati da Gesù sulla
base della Torà orale. Essi, in fondo, avevano ragione, perché nella Torà
scritta non si parla della resurrezione. Ma è come se la Torà orale dicesse:
sembra che non si parli della resurrezione e invece c'è. Si ricorderà come
risponde Gesù: "Non avete letto
quello che vi è stato detto da Dio: Io sono il Dio di Abramo e il Dio di Isacco
e il Dio di Giacobbe? Ora, non è un Dio dei morti, ma dei vivi!" (Mt 22,31-32). E un maestro di Israele, ai
Sadducei che gli fanno più o meno la stessa obiezione, risponde in modo simile:
"Se Dio dice ad Abramo: Io darò a te
la terra, è segno che Abramo non è morto, ma vivo": Mi viene in
mente, a questo proposito, una bellissima frase di Gregorio Magno che dice: Scriptura
crescit cum legenti, cioè "la Scrittura cresce con colui che la
legge". Solo che qui il colui è
il coloro delle generazioni!
Tutto
ciò che costituisce la Torà orale è anch'esso rivelazione sinaitica, che Mosè
non ha messo per iscritto, ma ha trasmesso oralmente. Del resto, oggi noi
pensiamo il rapporto tradizione-scrittura alla luce della moderna critica
biblica, la quale sostiene che prima della Scrittura ci sono le tradizioni
orali. Certo, non sostiene ciò nel senso teologico che vi ho esposto ora, ma in
un senso storico-critico. Dal punto di vista ebraico, invece, la Torà scritta
è come un vascello trasportato da un fiume, che è la Torà orale. E' quest'ultima
la garanzia della Torà scritta, non viceversa. I maestri dopo Esdra si sono
accorti che, se da un lato la Torà
imponeva con grande severità di eseguire dei precetti, molto spesso essa non
spiegava come si dovevano eseguire.
C'è
un esempio molto chiaro di ciò in Es 31,15, dove si dice che di sabato non si
deve fare alcun lavoro. Ma, dicono i maestri, quali sono i lavori che non si
possono svolgere? E cosa si intende per lavoro?
E allora i maestri fanno ricorso alla Torà orale, la quale dovrebbe specificare
ciò a cui la Torà scritta accenna soltanto. Ma con che sistema io scopro la
Torà orale dietro la Torà scritta? Perché, si badi, la Torà orale, pur
essendo il veicolo della Torà scritta, in un certo senso deve stare dietro la
Torà scritta. E' un meccanismo un po' complicato. I cattolici, forse, sono un
po' agevolati perché la dottrina cattolica, e anche quella ortodossa, parlano
di sacre scritture e di tradizione. Almeno in teoria, le tradizioni non
dovrebbero aggiungere nulla a ciò che è stato rivelato agli apostoli e nella
scrittura: esse non dovrebbero fare altro che metterlo in luce. Se dunque la Torà
orale deve essere scoperta dentro, sotto, dietro la Torà scritta, dove trovo la
spiegazione dei lavori che si possono fare di sabato? E' chiaro che, per evitare
di cadere nell'arbitrio, sono necessarie alcune regole ermeneutiche. E si
capisce come i maestri d'Israele abbiano affermato che le stesse regole
ermeneutiche sono Torà, perché hanno l'autorità di insegnare come si deve
lavorare sulla Torà stessa. Queste regole sono state codificate tre volte, tra
l'inizio dell'era volgare e II sec.; esse sono: le sette regole di Hillel, le
tredici regole di rabbì Ishmael e le trentadue regole di rabbì Eliezer. Le più
usate sono quelle di rabbì Ishmael. Alcune di esse sarebbero inaccettabili per
la critica moderna; altre invece enunciano principi ancora validi, per esempio: il
testo si spiega con il contesto, oppure a
minori ad maius, o ancora la regola
della contiguità, in base alla quale, quando in due testi lontani compare
la stessa espressione tecnica, essi hanno lo stesso contenuto (se ne veda
l'elenco in Il dono della Torà, commento
al Decalogo di Es 20 nella Mekiltà di R. Ishmael, a c. di A. Mello, Città
Nuova, Roma 1982, pp. 19-22).
Nel
cap. 31 dell'Esodo il divieto di lavorare di sabato è preceduto da queste
parole: "Il Signore parlò a Mosè e
gli disse: Vedi, ho chiamato per nome Bezaleel,
figlio di Uri, figlio di Cur, della tribù di Giuda. L'ho riempito dello Spirito
di Dio perché abbia saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro,
per concepire progetti e realizzarli in oro, argento e rame, per intagliare le
pietre da incastonare, per scolpire il legno e compiere ogni sorta di lavoro. Ed
ecco gli ho dato per compagno Ooliab, figlio di Achisamach, della tribù di Dan.
Inoltre nel cuore di ogni artista ho infuso saggezza, perché possano eseguire
quanto ti ho ordinato: la tenda del convegno, l'arca della Testimonianza, il
coperchio sopra di essa e tutti gli accessori della tenda; la tavola con i suoi
accessori, il candelabro puro con i suoi accessori, l'altare dei profumi
e l'altare degli olocausti con i suoi accessori, la conca con il suo
piedistallo, le vesti ornamentali, le vesti sacre del sacerdote Aronne e le
vesti dei suoi figli per esercitare il sacerdozio; l'olio dell'unzione e il
profumo degli aromi per il santuario. Essi eseguiranno
ogni cosa secondo quanto ti ho ordinato" (Es 31,1-11).
Si dirà: che elenco arido! I
maestri, invece, dicono: se questo
elenco di lavori è seguito dalla proibizione di non fare alcun lavoro di
sabato, noi dobbiamo intendere che che questo elenco ci esemplifica la categoria
dei lavori vietati, cioè la melakà,
il lavoro creativo, quello che, per esempio, ha compiuto Dio creando il mondo. E
di sabato sono vietati proprio i lavori creativi. Non è soltanto uno star lì
fermi a non fare nulla, ma si tratta di sospendere l'attività umana sul mondo
per riconoscere, così, che il vero creatore è Dio.
Questo
esempio ci mostra l'azione della Torà orale su quella scritta per farla
parlare. E allora, quando i maestri di Israele hanno individuato le categorie di
melakòt (plurale di melakà),
non hanno detto: noi abbiamo trovato questo!, ma: sul Sinai è stato rivelato ciò!
Tanto è vero che, se si prendono i libri rabbinici che contengono queste
discussioni, si scoprirà che, quando un maestro dice una cosa, viene citato.
Anzi, si cita addirittura la catena: "Disse il tale a nome del tale che
l'aveva sentito dal tal'altro". Il plagio delle opinioni non esisteva e
nessuno si impadroniva delle opinioni altrui. Ora, quando un'opinione viene
riconosciuta come precetto, perde la sua paternità. E questo perché il maestro
che l'ha detta non l'ha tirata fuori dalla propria testa, ma l'ha presa dalla
rivelazione sinaitica.
Diversamente,
però, dalla nostra maniera di concepire una raccolta di precetti, siano essi il
Codice di Diritto Canonico o il Diritto Civile, la tradizione ebraica concepisce
la Torà come un fiume che trasporta non solo ciò che è principale e
normativo, ma anche ciò che è laterale e secondario. Basta osservare il fatto
che, nelle raccolte degli insegnamenti, sono conservate rispettosamente e
religiosamente anche le opinioni respinte. Il Talmud Babilonese, per esempio, (si veda in proposito la relazione
di E. RICHETTI, infra) comincia con
una domanda; e non si tratta, come ci aspetteremmo noi, di una domanda da
vecchio catechismo cattolico, del tipo: Chi è Dio?. Ci si chiede infatti:
Da che ora si possono dire le preghiere?. Si danno diversi pareri, poi dice:
Ma i maestri insegnano che... Questa
espressione vuole indicare che la maggioranza ha ricevuto dallo Spirito
Santo la capacità di vedere che cosa era stato rivelato in proposito a Mosè
sul Sinai. Perché allora si conservano anche queste opinioni? Perché non
bisogna mai cessare di discutere e
di interrogarsi sulla Torà. Anzi, è bene impigliarsi
nella Torà perché, se pure ci si impiglia in una regola
che è già stata definita, chissà quante regole si riescono a tirar
fuori da lì!
A
questo punto devo dire una cosa che fa un po' a pugni con la concezione corrente
della lettura biblica nelle chiese e nelle abitudini della predicazione
cristiana. Mentre da molti cristiani il dubbio è considerato un male da evitare
o, almeno, da allontanare prima possibile, nell'Ebraismo esso è considerato una
cosa molto buona e necessaria; in un certo senso, è l'elemento che mantiene
viva la Torà. E' noto che, al tempo di Gesù, c'erano due grandi scuole
rabbiniche, quella di Hillel e quella di Shammaj, che divergevano tra di loro su
almeno trecento punti importanti. Qualcuno, allora, ha - per così dire- perso
la bussola e ha chiesto al cielo cosa fare, e dal cielo si è sentito una voce
che ha detto: "Le une e le altre sono
parole del Dio vivente, ma la regola sarà secondo l'opinione della casa di
Hillel" (Talmud Palestinese, Berakot I,4). Nella prassi si segue Hillel, ma nell'interpretazione
entrambe le opinioni sono parole del Dio vivente.
E se ci sarà una fine dei dubbi, sarà il Messia a portarla. C'è, per
esempio, un'immagine del Paradiso (ad uso dei dottori, probabilmente) secondo la
quale esso è un luogo in cui i dottori stanno seduti attorno ad un tavolo
insieme a Dio a discutere sulla Torà. E forse è già meglio che stare seduti a
cantare inni per l'eternità!
Non
è un caso che i Sadducei, a differenza dei Farisei, siano scomparsi. In un
certo senso, era scritto nel loro destino. Se, infatti, ci si attiene solo al
testo scritto, come facevano loro, esso di generazione in generazione si
allontana sempre più. Un esempio analogo ci viene offerto dalla vicenda dei
Samaritani, i quali, staccatisi dai Giudei quando già esisteva il Pentateuco,
hanno accettato solo il Pentateuco e il libro di Giosuè, rigettando invece la
Torà orale. Ciò ha fatto sì che si siano progressivamente impoveriti, ridotti
di numero, quasi devitalizzati, tanto che, alla fondazione dello stato di
Israele, erano ridotti a trecento. Ora hanno ripreso a crescere di nuovo un
poco, anche perché non si sposano più tra di loro. E questo sposarsi tra di
loro è, se così posso dire, una conseguenza ermeneutica del loro rifiuto della
mobilità della Torà orale, che ha impedito loro di mantenere la Torà
contemporanea alle loro generazioni.
La
fondazione della legittimità dell'interpretazione è inividuata nel passo di
Deut. 30, 11-14 che dice: "Questa
legge che oggi io ti do non è in cielo... non è al di là del mare... ma è
molto vicina a te, sulla tua bocca e nel tuo cuore". Quindi, te l'ho
data e ora cammina, tu e la Torà insieme. Emmanuel Lévinas ha illustrato
questo concetto con un'immagine bellissima. Nell'Esodo ci sono istruzioni sul
modo di fabbricare il santuario e così pure l'arca: essa deve avere quattro
anelli d'oro in cui devono essere infilare quattro stanghe di acacia rivestite
d'oro che, dice il testo, "non saranno mai tolte" (Es 25,10-16).
Quando poi Salomone costruisce il tempio e colloca l'arca dentro il Santo dei
Santi, le stanghe risultano più lunghe del luogo che doveva accoglierle, eppure
non vengono tolte. Ebbene, di questo fatto Lévinas dà un'interpretazione,
direi, midrashica: "Le stanghe non vengono tolte
perché la Torà è sempre pronta al movimento, deve essere sempre in grado
di camminare con il popolo". E questo sarebbe un significato delle
stanghe. Un significato, perché l'ermeneutica rabbinica parte dal presupposto
che ogni parola della Torà possiede settanta significati. Per affermare ciò ci
si appella a vari testi biblici, ma in particolare al Salmo che dice: "Una cosa Dio ha detto, due ne ho udite" (Sal 62,12). Perché
settanta significati? Perché nel mondo biblico si riteneva che i popoli della
terra fossero settanta e, quindi, almeno potenzialmente, la Bibbia è detta a
tutti i popoli.
Ora,
se le parole della Scrittura hanno settanta significati, come ci si regola? Non
bisogna trascurare il peshàt, cioè
il senso letterale che tutti i libri, tranne il Cantico dei Cantici, possiedono.
Non è possibile svuotare un testo trasformandolo interamente in simbolo.
Possiamo forse trovare un po' buffo un esempio, che i rabbini invocano, a
proposito dei due decaloghi. Essi sono quasi identici, ma, tra le varie
differenze, a noi qui ne interessa una sola: a proposito del giorno del sabato
uno dice: "Osserva il giorno del
sabato", mentre l'altro dice: "Ricorda
il giorno del sabato". Noi siamo smaliziati, abbiamo la critica biblica, ma
gli antichi trovavano qui un problema rilevante: quando Dio ha parlato sul
Sinai, ha detto "osserva" oppure "ricorda"? Perché allora
non ha dato due volte il Decalogo? Il testo di un inno che si canta la sera del
venerdì dice: "Osserva, ricorda: con
un solo detto si è fatto sentire, si è fatto sentire il Dio uno". Dio
è miracoloso in tutto ciò che dice, che fa, che è, e quindi è riuscito, con
una sola emissione di voce, a dire "osserva" e "ricorda",
che sono poi i due elementi fondamentali della fede ebraica. Questo è uno degli
esempi a cui ci si rifà per spiegare il Salmo citato prima: "Una
cosa Dio ha detto, due ne ho udite". Lèvinas ha detto una cosa molto
bella, che ripeto sempre quando ne ho occasione: "I
sensi della Scrittura sono tanti, ce n'è uno per ogni uomo. E se un uomo non
nasce, un senso non si rivela; e questo sino alla fine del mondo".
Questa
mi sembra l'idea più significativa del modo di intendere la lettura della Torà,
che significa anche conoscere Dio. Per l'Ebraismo conoscere Dio è inteso in un
senso solo (questo sì in un senso solo!), cioè sapere cosa Egli vuole e non
sapere com'è fatto. L'unico contatto che noi abbiamo con Dio (ed è più che
sufficiente) è udire con le orecchie la sua volontà e metterla in pratica. Es
24,7 dice una cosa mal tradottta dalla Bibbia cristiana. Mosè, dopo aver
scritto il libro, lo legge alle orecchie del popolo, il quale risponde: "Quello
che Dio ha parlato noi lo eseguiremo e lo ascolteremo". Cioè, ci
precipiteremo alla prassi; "eseguiremo" e poi "ascolteremo",
ci faremo sopra studio, conoscenza. Il contatto con Dio è fare la sua volontà,
che poi è l'unico modo possibile per essere come Lui. Se ogni uomo ha un senso
per Lui, ogni uomo è chiamato ad essere come Dio in un modo speciale. Quindi,
le rifrazioni, le immagini di Dio sono, almeno nel desiderio di Dio, tanti
quanti sono gli uomini.
Passiamo
ora alla lettura e al commento di alcuni testi della tradizione rabbinica che ci
permetteranno di comprendere le modalità
di lettura del testo biblico.
Si
è detto prima che la pluralità delle interpretazioni, se di fatto manifesta
una delle caratteristiche fondamentali dell'intelligenza ebraica e una delle
eredità più preziose del fariseismo e del rabbinismo classico, va vista in
primo luogo come ricchezza inesauribile del parlare divino, in cui ogni parola
può legittimamente essere intesa secondo le diverse potenzialità umane. Due
sono i passi biblici che vengono citati a sostegno di questo modo di intendere i
sensi della Scrittura: "Abbajè dice:
Siccome la Scrittura dice "Una cosa ha detto Dio, due ne ho udite; è
questa la potenza di Dio" (Sal 62,12), se ne deve dedurre che un solo passo scritturistico dà luogo a dei
sensi molteplici" (Talmud Babilonese, Sanhedrin 34a). E: "E'
stato insegnato nella scuola di rabbì Jishmael: Non è forse la mia parola come
il fuoco, oracolo del Signore, e come un martello che frantuma la roccia? (Ger
23,29). Come questo martello sprigiona molte scintille, così pure ogni parola
che usciva dalla bocca della Potenza si divideva in settanta lingue" (Talmud
Babilonese, Shabbat 88b).
Vediamo
un primo esempio. A commento del passo di Qoelet 12,11 ("Le
parole dei sapienti sono come pungoli, e come chiodi piantati quelle dei maestri
delle assemblee: sono state date da un unico pastore"),
i rabbini danno questa spiegazione: i pungoli e i chiodi sono due cose diverse,
così come la tradizione orale è data da un solo pastore, ma possiede due
aspetti, i chiodi e i pungoli. Qual'è la differenza tra i due? I chiodi hanno
la funzione di tener fermo qualcosa, mentre i pungoli fanno camminare. E la Torà
-dicono i rabbini- non è forse questo? Non è forse qualcosa che è insieme
stabile e dinamico, che progredisce e fa progredire? C'è quindi, ben chiara,
l'idea dell'innovazione.
A
proposito di questo passo di Qoelet desidero proporre un testo rabbinico di
commento: «Un giorno, rabbì Jochanam
Berukà e rabbì Eleazar Asmek andarono a trovare rabbì Joshuà a Pekj. Questi
domandò loro: " Che innovazione c'è stata oggi nella casa di studio?
" .Gli risposero: "Noi siamo tuoi discepoli e beviamo solo
la tua acqua". Disse loro: "Ciò nondimeno non si danno cose di
studio senza che vi sia innovazione. Era il sabato di chi? Non era il sabato di
rabbì Eleazar ben Azarià? (significa: non era lui a predicare quel
giorno?) E a partire da quale testo si è
fatta oggi l'omelia?". Essi risposero: "Rabbì Eleazar ben Azarià ha
aperto e interpretato così ("aprire" significa citare un testo da
cui parte l'omelia): Le parole dei
sapienti sono come pungoli; come chiodi piantati le parole dei maestri delle
assemblee: sono state date da un unico pastore. Perché le parole della Torà
sono state paragonate ai pungoli? Per dire che, come il pungolo dirige la
giovenca lungo il solco per dare vita al mondo, così le parole della Torà
dirigono il cuore di quanti le studiano dalle vie della morte alle vie della
vita. Ma forse che , come un chiodo non diminuisce né cresce, anche le parole
della Torà non diminuiscono né crescono? La Scrittura dice: "Piantàti".
Come una pianta cresce e si moltiplica, così anche le parole della Torà
crescono e si moltiplicano. I maestri dell'assemblea sono discepoli dei sapienti
che stanno in tante comunità per occuparsi dello studio della Torà
("discepoli dei sapienti" è un'espressione che indica i sapienti). Gli
uni dichiarano una cosa pura e gli altri impura, gli uni legano e gli altri
sciolgono. Ma se uno dicesse: se
questi legano e gli altri sciolgono, come posso io imparare la Torà? La Torà
insegna: tutte queste cose sono state date da un unico pastore, un unico Dio le
ha date, un unico capo le ha lette. Esse vengono dalla bocca del Signore di
tutte le cose. Come sta scritto in Esodo: Io sono il Signore tuo Dio. Perciò,
anche tu devi fare del tuo orecchio come un imbuto, devi acquistarti un cuore
intelligente per ascoltare le parole di quelli che dichiarano puro e impuro, di
quelli che legano e di quelli che sciolgono". All'udire questo, rabbì
Joshuà commentò: "Non è orfana la generazione in cui si trova rabbì
Eleazar ben Azarià!"».
Vi
propongo adesso altre due storie. La prima è una parabola rabbinica detta Midrash
di rabbì' Aqivà e dice così: «Quando
Mosè salì nell'alto dei cieli trovò il Santo, benedetto sia, assiso e intento
a legare piccole corone (si tratta di ornamenti calligrafici) alle
lettere della Torà. Egli disse: "Signore del mondo, chi ti vieta di darmi
le lettere senza corone?". Dio rispose: "Verrà un uomo, dopo tante
generazioni, Aqivà ben Josef il suo nome, e su ognuno di questi segni accumulerà
nuove interpretazioni". Disse Mosè: "Signore del mondo, fa' che lo
veda!". Dio disse: "Torna indietro e va'!". Mosè andò e si
sedette nell'ultima delle otto file della scuola di Aqivà. Ma non capiva nulla
di ciò che si diceva, e la sua forza divenne la sua debolezza. E mentre Aqivà
spiegava, uno dei suoi allievi gli disse: "Rabbì, da dove lo
deduci?". Egli rispose: "Da un insegnamento che Mosè ricevette sul
Sinai". Allora, Mosè si tranquillizzò. Tornò davanti al Santo, benedetto
sia, e gli disse: "Signore del mondo, tu hai un uomo come quello e vuoi
dare la Torà per mezzo mio?". E Dio gli rispose: "Taci, così
voglio!"». C'è una coda drammatica a questa storia, che spesso non
viene raccontata. Aqivà venne scorticato dai Romani perché si era rifiutato di
sottostare alla proibizione di insegnare la Torà. Mosè dice a Dio: "Fammi
vedere la sua ricompensa". Allora Dio gli fa vedere che sul mercato pagano
un macellaio vendeva la carne di Aqivà. Allora Mosè chiede a Dio: "E'
questa la sua ricompensa?". Al che Dio risponde: "Taci, così ho
deciso!" (Menachot 29b).
Questa
parabola fa vedere come la trasmissione sia intesa come un arricchimento, il
quale tuttavia non crea nulla, perché si rifà sempre al momento della
rivelazione sinaitica. Ma chiarisce anche la nozione di "siepe" (sejag),
che consiste nel circondare il precetto divino di osservanze supplementari, per
impedirne meglio la violazione. Per queste ragioni e per il fatto obiettivo -su
cui i lettori non ebrei si soffermano poco-
che spesso le disposizioni della Torà sono difficili o impossibili da
applicare per la loro genericità o imcompletezza, la tradizione orale ha
portato a un vero accrescimento del patrimonio sinaitico. Da qui l'importanza
massima dello studio: uno studio non solamennte per sapere,
ma per saper fare, sebbene, come s'è
detto, questo saper fare sia ancora conoscenza, la conoscenza di Dio in quanto
Volontà.
L'altra
storia è quella di rabbì Eleazar. Discutendo con un gruppo di colleghi se una
stufa fatta in un certo modo fosse pura o impura, si trovò a sostenere una cosa
e gli altri il contrario. Allora disse: "Se ho ragione, questo carrubo si
sposti di cento passi!". E il carrubo effettivamente si spostò. Ma gli
altri risposero: "Un carrubo che si sposta non dimostra niente". Egli
disse: "Se ho ragione, che questo fiume scorra al contrario!". Così
avvenne, ma i maestri risposero la stessa cosa. Al che egli disse: "Se ho
ragione, che questa scuola si sposti!". E così avvenne. Allora i maestri
presero a rimproverare i muri dicendo: "Muri, muri, quando i maestri
discutono, di che vi impicciate voi?". I muri, non sapendo cosa fare,
rimasero inclinati. Allora Eleazar disse: "Se ho ragione, una voce celeste
lo dica!". E così avvenne. I maestri guardarono il cielo e dissero il
versetto del Deuteronomio ("Non è in cielo....", 30,12), ad indicare
che la Torà non è più in cielo e che quindi toccava a loro gestirla. Così,
scomunicano Eleazar. In seguito, incontrano il profeta Elia e gli chiesero cosa
avesse detto Dio a proposito delle parole di Eleazar. Elia risponde: "Dio
ha detto: I miei figli mi hanno vinto!, e ha riso di gioia". Queste parole
significano: tanto è forte la convinzione che tutto è rivelazione sinaitica,
tanto è forte la convinzione che è nelle nostre mani.
Del
resto, anche Gesù ha messo in pratica queste convinzioni. Si tratta del famoso
episodio dei discepoli di Emmaus (Luca 24,13-35). "Cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le
Scritture ciò che si riferiva a lui" (v. 27). "Non
ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino,
quando ci spiegava le Scritture?" (v. 32). A questo proposito, è
interssante menzionare la storia di rabbì Awuià. In occasione della festa per
la sua circoncisione, suo padre aveva invitato anche due maestri, i quali, ad un
certo punto, si appartarono per fare la harizà,
cioè una collana di testi, e, mentre facevano questo, si accese un grande
fuoco. Non è forse la stessa cosa che accade ai discepoli di Emmaus ("ci
ardeva il cuore")?
Si
è detto prima che è proibito indagare sulle ragioni dei precetti, dal momento
che essi valgono perché Dio li ha mandati. A questo riguardo bisogna ricordare
che nell'Ebraismo non è possibile parlare di natura, né in senso cosmologico
(non c'è la natura, ma il creato) né in senso etico (non ci sono quelle che
noi chiamiamo le "leggi di natura"). C'è solo il Creatore e la sua
parola. Di conseguenza, i precetti non possono essere inseriti in un diritto
naturale; essi hanno senso perché Dio li ha voluti così. Ma perché Dio li ha
voluti così? Perché, se Dio da un lato ha indicato all'uomo la halakà,
la via, dall'altro lo ha circondato di quelle che definirei
azioni promemoria, che hanno lo scopo di tenerlo distinto dai pagani e di
fargli ricordare Dio. In proposito, rabbi Jozakan ben Zakai (70-100 d.C.) esce
con questa frase: "Né il morto
contamina né l'acqua purifica, ma
il Re dei re ha detto: Ho decretato
i miei decreti, ho prescritto le mie prescrizioni, non vi è permesso di
trasgredire il mio decreto!".
Si dice anche che, se uno esegue con fede uno
dei 613 precetti, è degno di ricevere lo Spirito Santo. Rabbì Ravuià
dice: "I precetti non sono stati
dati che allo scopo di purificare le creature; e forse che importa al Santo,
benedetto sia, che chi scanna l'animale (ritualmente) lo colpisca al collo (com'è
prescritto) o lo colpisca alla nuca (come è vietato)? Così i precetti non sono
stati dati che allo scopo di purificare le
creature" (Genesi Rabbà XLIV,1).
Affermazioni
di questo genere sono numerose e ci fanno capire cos'è la Torà: è la parola
di Dio che insegna ciò che bisogna fare e non fare. Ma a che scopo? Nel
Levitico si dice: "Siate santi perché io sono santo". Questa frase
non significa: siate buoni perché io sono buono, ma: siate separati da ciò che
io non voglio. Si tratta di una separazione anche rituale e non solo etica. Se
l'Ebraismo è un mondo in cui domina il pluralismo, le discussioni, il dubbio,
tuttavia domina anche la distinzione: Dio odia qualsiasi mescolanza (ci sono
tanti esempi nella Torà). I precetti, quindi, hanno lo scopo di sottolineare
questa separazione. Non a caso, quando Dio crea il mondo (il testo è di fonte
sacerdotale), separa gli elementi (si tratta della nozione più antica di santità).
Dio è separato dal mondo, ma è anche presente in esso. Un
midrash, in proposito, dice una frase molto bella: "L'idolo
è vicino e lontano, Dio è lontano e vicino". E in altri testi si
legge: "Ogni divisione che avviene
nel nome dei cieli finisce per mantenersi e, se non avviene nel nome dei cieli,
finisce per non mantenersi". E ancora: "Insegna
alla tua lingua a dire: io non so!, perché tu non sia preso per un mentitore".
Sull'arbitrarietà
dei precetti, un rabbino diceva: "Come
fonderei queste considerazioni? Prima di tutto non si deve dire che è
impossibile vestirsi con stoffe miste, è impossibile non mangiare carne di
maiale, ecc.,ma si deve dire: Tuttto ciò è possibile; ma che fare, dal momento
che Dio me lo proibisce?".
Tutto ciò si fonda, come abbiamo visto, su Lev 20,26: "Sarete santi perché
io, il Signore, sono santo e vi ho separati dagli altri popoli, perché siate
miei". Anche qui si scoraggia ogni tentativo di leggere la Torà come un
insieme di principi puramente etici. Lo stesso Lev 19,18 ("amerai il
prossimo tuo come te stesso") si fonda su Dio e non è un precetto di etica
naturale (questo lo possono dire tutte le religioni!): si tratta di un comando,
non di un'esortazione. Non a caso, secondo i Farisei, il destinatario della Torà
non era il santo, ma il benonì, cioè l'uomo comune, colui che non è né santo
né canaglia, vale a dire la maggior parte degli uomini.
Il
precetto ha un'evidente funzione memoriale. L'esempio più chiaro e più
importante è offerto dal testo di Num 15,38-40, nel quale si ordina di
applicare delle frange (zizzìth) alle
vesti: "Parla ai figli di Israele.
Dirai loro che si facciano dei fiocchi all'estremità delle loro vesti e a
quelle dei loro discendenti, e mettano ai fiocchi degli angoli un filo di
porpora azzurra. E questo sarà per voi dei fiocchi: quando li guarderete,
ricorderete tutti i precetti di Dio e li eseguirete, e non correrete dietro al
vostro cuore e dietro ai vostri occhi, dietro ai quali vi siete prostituiti".
I fiocchi, che pure di per sé non simboleggiano nulla e non si possono certo
riferire ad alcun comportamento etico e neppure devoto, sono soltanto (e questo soltanto
non indica il minimo, ma il massimo del valore dell'esistenza ebraica) un
promemoria di Dio e delle sue opere. Sono un appello al ricordo e
all'obbedienza, e quindi l'esecuzione di questo
precetto è un atto di fede che merita il dono dello Spirito Santo. Rabbì
Shimon bar Jocahj (II sec. d.C.), a proposito del brano di Numeri citato prima,
riferiva il guardare o, meglio, il vedere,
non ai fiocchi, ma a Dio stesso: l'esecuzione del precetto, si potrebbe dire, chiama
Dio, e ciò non come ricompensa di un merito, che il precetto, peraltro, non
produce, ma perché Dio ha voluto, nel suo insindacabile disegno, associarsi al
precetto. Se ne può vedere un interessante parallelismo nell'episodio
evangelico della donna affetta da emorragie, la quale, per guarire, tocca le frange
del mantello di Gesù (Lc 8,43-48).
La
Torà, quindi, è un continuo memoriale del Signore. Certi mistici dicono che
essa non è altro che un lunghissimo nome
di Dio. E ancora: la Torà sono parole nere scritte su un foglio bianco, ma
il vero senso è nel bianco (cioè, la Torà orale).
NOTA
BIBLIOGRAFICA:
Per
i testi citati, si veda:
Detti rabbinici,
a cura di A. MELLO, Ed. Qiqajon, Bose 1993.
Il dono della Torà,
a cura di A. MELLO, Città Nuova, Roma
1982.
Il canto del mare,
a cura di U. NERI, Città Nuova,
Roma 1981.
Sulla
concezione ebraica della Torà, si veda:
A.C. AVRIL-P. LENHARDT,
La lettura ebraica della Scrittura,
Ed. Qiqajon, Bose 1989.
J.J.
PETUCHOWSKI, Come i nostri maestri
spiegavano la Scrittura, Morcelliana, Brescia 1984.
P.
DE BENEDETTI, Torà e rivelazione nel
Giudaismo rabbinico, in AA.VV., Libri
sacri e rivelazione, Facoltà teologica interregionale, La Scuola, Brescia
1975.
E. LEVINAS, La
Révelation dans la tradition juive, in AA.VV., La révelation, Bruxelles 1977.
E.
FROMM, Voi sarete come dei, Ubaldini,
Roma 1970.
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