ciclo di incontri - 14 Aprile 1994
Quaderno n. 59
Corso di cultura ebraica (I° ciclo)
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La storia della Chiesa di fronte a Israele

Fulvio Ferrario
Pastore Valdese- Centro Culturale Protestante di Asti
 

Visto che, per ovvie ragioni, non si potrà prendere in esame tutta la storia della chiesa nei suoi rapporti con l'ebraismo, mi soffermerò su alcuni episodi paradigmatici che aiutano ad evidenziare alcune coordinate del problema nei termini in cui si pone oggi; non mi nascondo infatti che questo intervento è animato dall'intenzione di capire qualcosa di quel gruppo di problemi che vanno sotto il nome di antigiudaismo o antisemitismo. Spesso questi due termini vengono usati come sinonimi: in realtà, l'antisemitismo,  fenomeno recente che affonda le sue origini nel XIX sec., indica l'avversione verso il popolo ebraico, per l'appunto come popolo (si tratta quindi di una vera e propria forma di razzismo). L'antigiudasimo, invece, indica un rapporto di avversione nei confronti di ciò che è ebraico, in particolare dal punto di vista religioso e culturale. Parlare, per esempio, di antisemitismo nel Nuovo Testamento è improprio, dal momento che all'epoca non si poneva un problema razziale; sarebbe più corretto parlare di antigiudaismo.

Nei confronti di questa problematica, i duemila anni di storia del cristianesimo sono, secondo me, caratterizzati da una grande rimozione, la quale concerne almeno tre punti; li definirei come le tre ovvietà rimosse, dal momento che si tratta di tre aspetti tanto evidenti quanto, per l'appunto, rimosse: la prima è che Gesù era ebreo, la seconda che anche Paolo lo era, la terza che la Bibbia cristiana è quella d'Israele.

a) Cominciamo dalla prima. Lutero nel 1523 ha scritto un libro intitolato Daß Jesus Christus ein geborener Jude sei (Che Gesù Cristo sia nato ebreo, ebreo di nascita); il fatto che ci sia bisogno di scrivere un libro indica che questa realtà era stata rimossa e che quindi creava difficoltà. Che il cristianesimo abbia ritenuto un fatto irrilevante l'ebraicità di Gesù costituisce di per sé un problema storico di enorme portata. In proposito potrei citare il dogmatico cattolico Karl Adam, il quale, intorno agli anni Trenta-Quaranta, sosteneva che, siccome Gesù era figlio di Maria la quale, secondo la dogmatica cattolica, era stata concepita senza peccato originale e quindi a-stratta o e-stratta dalla continuità storica, non si potesse, propriamente, sostenere l'ebraicità di Maria e, a maggior ragione, neppure quella di Gesù, il quale è figlio di una persona che non appartiene al popolo ebraico. Ma potrei continuare dicendo che l'idea di un Gesù ariano è stata sostenuta anche in ambito protestante (si veda la relazione di D. GARRONE).

b) Seconda ovvietà: anche Paolo era ebreo. In molta pubblicistica corrente, sia cristiana sia laica, si sostiene che Paolo sarebbe all'origine del fenomeno dell'antigiudaismo. Intanto bisogna ricordare che non solo Paolo è, de facto, ebreo, ma che spesso rivendica la sua ebraicità: non si vergogna dell'evangelo, ma neppure di essere ebreo, figlio di ebrei, circonciso all'ottavo giorno. La sua azione deve essere interpretata come una discussione dell'ebraismo, non dall'esterno, ma a partire da quell'ebreo particolare che era Gesù di Nazaret. L'essere cristiano di Paolo si configura a partire da categorie assolutamente incomprensibili al di fuori dell'universo religioso ebraico.

c) Terza ovvietà. Quando Paolo usa l'espressione tecnica "secondo le scritture", si riferisce ovviamente alle scritture ebraiche. Ciò significa che Gesù è stato capito a partire dalle scritture d'Israele (tanto basterebbe per squalificare duemila anni di antigiudaismo), le quali hanno fornito ai primi cristiani il con-testo entro cui conferire un senso ai vari tasselli della vita di Gesù, cioè una loro collocazione significativa. Il fatto che egli non sia stato considerato un semplice "starnuto della storia", dipende dall'essere stato "illuminato" dalle scritture ebraiche: solo esse hanno permesso che il fenomeno storico di Gesù abbia dato origine ad una fede. Non è certo un caso che i racconti della passione siano infarciti di richiami ad Isaia o ai salmi: l'apparato categoriale dell'Antico Testamento era l'unico che potesse permettere di parlare di Gesù (cfr. D. GARRONE, supra).

Perchè allora queste tre ovvietà sono state rimosse? Partiamo dalla nascita della chiesa. Uno dei punti fermi (in mezzo a tante intencertezze) della ricerca storica a partire dall'Illuminismo è che Gesù non aveva nessuna intenzione di fondare una chiesa: al centro della sua predicazione non c'era  Gesù stesso, ma il Regno dei cieli. Il NT è concorde nell'affermare che la crocefissione di Gesù è stata vissuta dai suoi discepoli come una catastrofe: sotto la croce non c'è nessuno e Gesù è morto da solo. Dopo un po', tuttavia, succede che i discepoli ricominciano a predicare e il contenuto della loro predicazione non è più il Regno, ma Gesù stesso: in pratica, l'annunciante diventa l'annunciato, il portatore dell'annunzio diventa il contenuto dell'annunzio. Perché succede ciò? Il NT parla di manifestazioni "fisiche" di Gesù come vivente: non si tratta per i discepoli di una semplice presa di coscienza. Questo però non significa che essi abbiano fondato il cristianesimo; negli Atti degli apostoli, per esempio, noi vediamo Pietro che si reca al tempio; Paolo, all'inizio di una predicazione in una città, va prima nella sinagoga. I discepoli, quindi, non avevano la coscienza di essere altro rispetto ad Israele; semplicemente erano degli ebrei i quali ritenevano che Gesù avesse segnato un momento decisivo.

Senonché questo orizzonte ebraico era tutt'altro che monolitico: per semplificare, potremmo dire che esistevano, da un lato, ebrei di lingua aramaica, nati e residenti in Palestina e legati al giudaismo palestinese il quale aveva delle caratteristiche ben precise (lettura della Bibbia in ebraico, pratica rigorosa della Legge, radicamento in Gerusalemme, forte legame con la dimensione cultuale della fede, poca propensione all'espansione missionaria) e, dall'altro, ebrei di lingua greca (la diaspora, infatti, comincia all'epoca dell'esilio babilonese e non solo dopo la distruzione del tempio nel 70 d.C.), caratterizati da un legame meno rigoroso con il tempio, dal fatto di dare più importanza agli aspetti etici rispetto a quelli dottrinali e cultuali (una sorta di monoteismo etico) e dal fatto di possedere un maggiore afflato missionario (su questo, cfr. G. BOCCACCINI, infra). Quando i discepoli cominciano a predicare, a Gerusalemme sono presenti entrambi questi gruppi. Negli Atti si dice che ad un certo punto si scatena una persecuzione che costringe i "cristiani" a fuggire, tranne gli apostoli (fatto strano); si dice anche che si introduce una distinzione di compiti tra discepoli che si dovranno dedicare alla predicazione e discepoli che si dovranno occupare dell'assistenza (i diaconi), i primi provenienti dai circoli palestinesi e i secondi da quelli ellenistici. Sembra di capire che tale persecuzione abbia investito solo la parte della comunità che proveniva dall'ebraismo ellenistico, tanto che il loro capo (Stefano) è stato eliminato, mentre gli altri (i cirstiani di origine ebraica palestinese) sono stati lasciati in pace. Ciò significa che l'ebraismo ufficiale ha visto nella comunità cristiano-giudaico-ellenistica qualcosa di ereticale. La prima spaccatura all'interno della comunità non è quella tra cristiani provenienti dall'ebraismo e cristiani provenienti dal paganesimo, ma tra il cristianesimo di origine ebraico-palestinese e quello di origine ebraico-ellenistica.

Questa tensione dura anche quando dai circoli ellenistici emerge la figura di Paolo, il quale porta alle estreme conseguenze la tensione missionaria propria del cristianesimo ebraico-ellenistico, anche se ancora non si verifica una vera e propria rottura tra quello che poi diventerà il cristianesimo e l'ebraismo (il cristianesimo di matrice palestinese viene ancora concepito come una setta ebraica): era più rilevante la differenza tra i cristiani di matrice palestinese e quelli di matrice ellenistica che non tra gli ebrei e gli ebrei-cristiani palestinesi. Certo è che lo slancio missionario di Paolo pone, non senza drammi (si veda la discussione sulla circoncisione), il problema della conversione dei pagani. Qualcosa di decisivo diviene manifesto: il cristianesimo è altra cosa rispetto all'ebraismo; il fattore determinante, dal punto di vista storico, è stato il rifiuto da parte delle autorità religiose di Gerusalemme di accogliere gli ellenistici come parte della comunità sinagogale. Certo, esiste una rilevante asimmetria: l'ebraismo è una religione dotata di una forte tradizione ed è riconosciuta dai Romani come religio licita, mentre il cristianesimo non si sa ancora bene cosa sia (si vedano le osservazioni di Tacito e di Plinio il Giovane). E tuttavia, dal punto di vista dell'autocomprensione, all'epoca della stesura dei vangeli i giochi sono già fatti, anche se ci sono ancora tante parole che tradiscono la loro matrice giudeo-cristiano-palestinese (del tipo "neanche una iota sarà cancellato dalla Legge" di Matteo), cosa che dimostra la scarsa preoccupazione di armonizzare le due tradizioni.

Almeno a partire dal 70, ma anche prima, vi verifica dunque una estraniazione. I "forti" sono ancora gli ebrei: quando c'è una persecuzione, essa viene messa in opera da parte ebraica contro quegli ebrei che attribuiscono rilevante importanza al messaggio di Gesù di Nazaret, mentre, da parte cristiana, c'è la speranza nella conversione degli ebrei, come pure la constatazione che questa conversione non si verifica. Dal punto di vista di Paolo e dei vangeli, tale dato di fatto viene interpretato come una decisione in qualche modo provvidenziale: se Israele rifiuta l'evangelo, significa che esso deve essere predicato oltre i confini di Israele ai pagani. E tuttavia a Paolo non passa neppure per la testa di condannare il giudaismo e la Legge in quanto tale. Il luogo comune secondo cui Paolo sostiene che la Legge non conta più niente gli è estraneo: il suo problema, piuttosto, è se la Legge, una volta obbedita, procura la salvezza (e la sua risposta è negativa), e non se la Legge è buona oppure no. Anche perché non in tutto l'ebraismo sussiste l'idea secondo cui l'amore di Dio si conquista con l'osservanza della Legge. La legge -dice Paolo- va interpretata a partire da Gesù e non viceversa; tuttavia, all'interno della fede, l'obbedineza alla legge diventa un fatto significativo: il veleno non è nella legge in quanto tale, ma nel fatto che la legge sia sottratta all'orizzonte della fede in Gesù, la quale per Paolo costituisce ormai l'orizzonte decisivo.

Non è quindi vero che in Paolo ci sia una scissione tra Gesù e la storia d'Israele, come vorrebbe una lunga corrente di pensiero di origine illuminista secondo la quale il vero fondatore del cristianesimo non è Gesù, ma Paolo. E' vero invece che Paolo non inventa nulla, ma casomai radicalizza, essendo un genio teologico, alcune tendenze che già il cristianesimo giudeo-ellenistico aveva preparato. Paolo non taglia i ponti con la tradizione ebraica, ma di essa fa l' interlocutrice privilegiata di un dibattito estremamente teso, dominato dalla domanda sul perché Israele non si sia convertito: la consapevolezza che quella cosa che si va configurando come fede cristiana sia figlia di Israele è identificata in modo chiaro nell'immagine dell'innesto dell'olivo. Tutto ciò allora che Paolo dice contro la legge va inquadrato in questa problematica. Certo, nel vangelo di Giovanni, nato con ogni probabilità in un contesto ebraico, c'è un altro atteggiamento, ma bisogna considerare che la comunità giovannea si trovava in radicale contrasto con la sinagoga, contrasto che era nato dall'espulsione dei cristiani dalla sinagoga e da altre forme di persecuzione.

Una volta che la scissione si consuma e il cristianesimo acquista la sua autonomia, il processo di estraniazione dall'ebraismo accelera in modo esponenziale. Da un lato ci sono le ragioni della polemica, dall'altro il fatto che il cristianesimo si sviluppa al di fuori della Palestina e della cultura di matrice veterotestamentaria, per cui l'interlocutore diventa il mondo ellenistico. Questi fattori fanno sì che l'ellenizzazione del cristianesimo (seguita alla ellenizzazione dell'ebraismo) presenti una accellerazione. Il cristianesimo si dà una teologia che non sempre proviene dall'orizzonte veterotestamentario, ma da concetti filosofici greci. Tale processo è rimarchevole solo negli scritti successivi al NT (il Logos di Giovanni, per esempio, non ha niente a che fare con la metafisica greca): più ci si allontana, sia cronologicamente sia geograficamente, dal terreno dell'ebraismo palestinese, più il cristianesimo assume connotazioni proprie che lo allontanano anche dalla possibilità di un ebreo di capire. Il tutto culmina con lo sviluppo di una cristologia elevata: Gesù è figlio di Dio incarnato. Se infatti si diceva ad un ebreo che Gesù è il Cristo (traduzione greca di Messia) non sorgevano grossi problemi; se gli si diceva che Cristo è Dio allora l'incomunicabilità diventava totale.

Il cristinesimo quindi definisce la propria identità prendendo le distanze dall'ebraismo. Quando poi la cristologia, dopo Nicea e Caldedonia, acquista la sua sistematizzazione, si attiva una dinamica di recipropca radicalizzazione: da parte cristiana si accentua il fatto che Gesù non è stato riconosciuto dall'ebraismo il quale, in questo modo, è venuto meno a se stesso; da parte ebraica invece si pone in risalto come i cristiani abbiano fatto rientrare dalla finestra il politeismo, dal momento che Dio non è più uno, ma, come minino, due e, qualche volta, anche tre. Tutto ciò non fa altro che spingere l'ebraismo a concepirsi come altra religione.

Prendiamo ora in considerazione tre nuclei tematici  e problematici della storia dell'antigiudaismo: i primi secoli del cristianesimo, l'epoca della Riforma protestante, l'Olocausto nazista.

1. Intanto bisogna dire che nemmeno l'antigiudaismo è propriamente un'invenzione del cristianesimo, perché già nel mondo pagano esisteva, nei confronti dell'ebraismo, un diffuso sentimento, da una parte di attrazione (specialmente presso le classi colte) e, dall'altra, di ripulsa. Ciò era dovuto essenzialmente a quattro fattori (seguo le osservazioni di Hans Kung, Ebraismo, Rizzoli, Milano 1993).

Il primo fattore di ripulsa è il monoteismo ebraico. La società tardo-antica infatti possedeva un atteggiamento religioso di tipo sincretistico, che si traduceva in un pluralismo fortemente relativizzante nel quale tutto è portatore di valore (non sfugga la forte somiglianza con la situazione attuale); ne consegue che il monoteismo ebraico è visto come qualcosa di settario. Il secondo fattore è il modo aggressivo attraverso il quale il mondo pagano pensa che Israele viva la storia della salvezza: esodo e conquista militare della terra promessa, con una vera e propria teologia dello sterminio (su questo tema esiste una forte discussione presso gli studiosi ebraici). Il terzo fattore è rappresentato dalla circoncisione, sentita da molti come un'usanza barbara, truculenta, che nulla ha a che fare con il concetto spirituale di Dio, come quello a cui il mondo antico, attraverso le religioni misteriche, intende riferirsi. Il quarto fattore di ripulsa riguarda i precetti alimentari della Torah, i quali, anche nella diaspora, con il prevalere dell'insegnamento rabbinico, erano diventati, come la circoncisione, una memoria di identità.

Tuttò ciò contribuiva a presentare, da un lato la religione di Israele come un qualcosa di rozzo e primitivo, che poneva l'accento su fattori rituali anziché intellettuali e, dall'altro, il popolo di Israele come un popolo misantropo, che tende a sottolineare la propria particolarità rispetto agli altri e quindi ad isolarsi. Così è stata vissuta già dal mondo tardo-antico la tradizione ebraica.

Il cristianesimo, dapprima, ha condiviso il destino dell'ebraismo, nel senso che, sia pure in forme diverse, ha vissuto lo stesso tipo di emarginazione (anche i primi cristiani venivano considerati dai pagani come persone misantrope e  un po' fanatiche). Col passare del tempo, tuttavia, mentre tra ebrei e cristiani continua la polemica di cui abbiamo detto e mentre il cristianesimo si qualifica sempre più come una religione autonoma, esso, nei confronti del paganesimo, conquista posizioni su posizioni. Nei primi tre secoli le varie persecuzioni non riescono a stroncare il fenomeno cristiano, anzi, come dice Tertulliano, "il sangue dei martiri è il seme dei cristiani". Il fatto che entrambe le comunità, quella ebraica e quella cristiana, si trovino in una situazione di diaspora e di minoranza non favorisce, di per sè, un rinnovato rapporto tra di loro: esse vivono indipendentemente. Ne consegue che la Chiesa, sempre più, assume la coscienza di essere il nuovo Israele: secondo questo schema, la promessa che Dio ha rivolto ad Israele viene ereditata dalla chiesa cristiana.

Ma ci sono altri fattori che contribuiscono all'irrigidimento del cristianesimo antico nei confronti dell'ebraismo. Ne ricordo quattro. Il primo è il fenomeno -già accennato- della progressiva ellenizzazione del messaggio cristiano a scapito del suo retroterra semitico. C'è poi la disputa attorno alla Bibbia: il cristianesimo sviluppa, a partire dal NT, la consapevolezza di essere, attraverso la fede in Gesù Cristo, il possessore dell'unica e autentica interpretazione della Bibbia (tutte le altre interpretazioni sono, nel migliore dei casi, delle interpretazioni parziali). Si verifica una sorta di "espropriazione" della Bibbia ai danni della sinagoga; c'è tutta un'esegesi -su cui non possiamo soffermarci- che tende a leggere l'AT alla luce del NT: tutto è prefigurazione. In pratica, c'è un processo di cristianizzazione della Bibbia ebraica o -se si vuole- di proiezione cristologica sull'AT. Per troppi secoli la Chiesa ha letto l'AT alla luce del Nuovo (una sorta di neotestamentizzazione), senza però svolgere l'operazione inversa, cioè senza riscoprire le radici ebraiche del NT (si veda D. GARRONE, supra). Il terzo fattore è la radicale interruzione di ogni forma di dialogo tra chiesa e sinagoga, se non nella forma residuale dell'apologetica (si veda il Dialogo con Trifone il giudeo di Giustino, in cui si sostiene che l'ebraismo non ha più ragione di essere). Infine, si sviluppa sempre più una teologia e poi una ideologia della responsabilità degli ebrei, come popolo, nella morte di Gesù: gli ebrei sono un popolo deicida. Ora, che Gesù sia stato condannato e messo a morte dai Romani su pressione delle autorità ebraiche è assodato; ma è anche probabile che, per motivi apologetici nei confronti del mondo romano, i vangeli tendono ad accentuare la responsabilità degli ebrei. La teoria del deicidio comincia, però, a diventare drammatica con la svolta costantiniana allorché il cristianesimo diventa religione imperiale: si verifica una svolta nei confronti delle altre religioni e in particolare dell'ebraismo, il quale diventa "nemico".

La chiesa, a lungo perseguitata, diventa persecutrice: l'idea è che, siccome la verità su Dio è una, tutto ciò che non coincide con essa deve essere combattuto, e la lotta contro la menzogna, di conseguenza, viene concepita come un atto di carità (si offre la possibilità, tramite una squalificazione anche morale degli ebrei, di non cadere nell'errore!). Nascono allora delle leggende sulle perfide abitudini degli ebrei, tanto che "giudeo" diventa un insulto (e lo è ancora oggi). Si tratta di un vero e proprio processo di demonizzazione, tanto più paradossale se si pensa che questo schema era stato in precedenza applicato contro gli stessi cristiani da parte dei romani (si veda l'accusa di cannibalismo). La parabola si impenna sempre più nel corso del tempo, tanto che la demonizzazione lascia il posto ad una detenzione: l'ebreo non viene propriamente sterminato (benché ci siano stati degli episodi di uccisioni), ma volutamente mantenuto in vita ed emarginato quale segno vivente di come l'ira di Dio punisce chi l'ha rifiutato.

Sono secoli in cui si intrecciano due concezioni circa il rapporto con gli ebrei: una è quella che chiede a gran voce la conversione forzata degli ebrei (basato anche sul "compelle intrare" della famosa parabola del banchetto), attraverso delle campagne militari o l'istituzione di casse che finanziano i convertiti. L'altra idea è la cacciata degli ebrei dai territori cristiani (valga per tutti l'episodio degli ebrei spagnoli cacciati da Isabella di Castiglia nel 1492). E' interessante notare come anche personaggi passati alla storia come alfieri della tolleranza condividano appieno i presupposti su cui si basano tali ideologie.

2. Veniamo ora al secondo nodo problematico, quello della Riforma protestante. E' noto che Lutero è passato alla storia come uno dei principi dell'antisemitismo cristiano, con il suo libro intitolato Contro gli ebrei e le loro menzogne, il quale ha goduto di grande fortuna nel periodo nazista. Ma anche Erasmo, noto campione di tolleranza, condivideva l'idea che l'ebraismo costituisse una grandezza estranea all'interno della società cristiana, proprio perché negatrice di ciò che per il cristianesimo è fondamentale (egli per esempio si compiace del fatto che la Francia sia rimasta l'unica nazione priva della presenza giudaica). E' vero che Erasmo si presenta come un alfiere dei diritti della cultura e quindi della tolleranza, ma è anche vero che egli rifiiuta persino la conversione forzata, dicendo che un ebreo battezzato non è un cristiano, ma un ex-ebreo. La posizione di Erasmo mostra chiaramente come il fattore religioso abbia ormai lasciato il posto al fattore razziale, cosa che invece non è presente in Lutero, il quale, quando parla di "ebrei", si riferisce a "coloro che sono di religione ebraica" (per lui infatti un ebreo battezzato è un cristiano). E tuttavia anche Lutero partecipa dell'ideologia antigiudaica, sia pure in modo originale, tanto che i suoi scritti in proposito sono in apparente contraddizione. Nel 1523 scrive un testo intitolato Che Gesù sia nato ebreo, ebreo di nascita, in cui sottolinea le radici ebraiche del cristianesimo indicando in esse la fonte da cui non si può prescindere; in polemica con il cristianesimo del suo tempo, egli afferma che, "se per essere cristiani bastasse essere antiebrei, allora il nostro secolo sarebbe pieno di cristiani" (una frase analoga era stata pronunciata da Erasmo, il quale però non aveva tratto le stesse conseguenze). Col passare del tempo, però, l'atteggiamento di Lutero si inasprisce, sino ad arrivare, nell'ultimo dei suoi scritti, a richiedere alle autorità di bruciare le sinagoghe e di bandire gli ebrei.

Di fronte a tale contraddizione, c'è chi ha sostenuto che il vero Lutero sia quello giovanile, poi incattivitosi di fronte allo scarso successo della sua predicazione presso gli ebrei, e chi è del parere che il vero Lutero sia quello intollerante (in questo caso il libro del '23 costituirebbe un'eccezione). La verità, probabilmente, è che Lutero elabora l'antigiudaismo cristiano in chiave apocalittica (il segno apocalittico per eccellenza, secondo lui, era la presenza a Roma dell'Anticristo): in questo contesto, gli ebrei (e con loro i turchi, i papisti, Munster e compagnia) sono concepiti come le forze demoniache dell'Apocalisse che si fanno avanti per affliggere la vera Chiesa. E' sintomatico come per lui l'ebraismo sia una (non la sola!) delle manifestazioni del demonio stesso: è in tale misura che l'autorità secolare deve difendere la cristianità (o quel che resta) dall'assalto delle forze maligne. Sotto questo profilo, la questione ebraica in Lutero non esiste in se stessa, ma viene inserita nella più generale battaglia degli ultimi tempi nei confronti di Satana, anche se il risultato è, comunque, nei confronti dell'ebraismo, un atteggiamento fortemente negativo, come del resto era comune nel suo tempo, sia pure con delle eccezioni, tra cui alcuni discepoli dello stesso Lutero (i quali passano addirittura per filoebrei). Ne consegue che il mito del Lutero-antisemita non va combattutto con il contro-mito del Lutero-tollerante, ma in base, da una parte, al fatto che l' atteggiamento antigiudaico era largamente diffuso (non si trattava certo di una specialità confessionale!) e, dall'altra, sullo sfondo di questa radicata idea apocalittica.

3. C'è infine un terzo nodo problematico, il quale dimostra come l'eredità infelice dei primi secoli e del XVI sec. abbia fatto sentire in modo disastroso le sue conseguenze. Si tratta del famigerato periodo del Terzo Reich sfociato nella Shoà. Dopo che Hitler, salito al potere nel 1933 per via democratica, promulga leggi restrittive circa i diritti civili della popolazione di origine israelitica, la Chiesa evangelica si pone il problema di come comportarsi: per esempio, un ebreo diventato cristiano può diventare pastore? Dal momento che prevale una posizione di apertura, si potrebbe pensare ad una significativa vittoria della tolleranza. In realtà, la chiesa si è limitata a rifiutare una pesantissima ingerenza dello stato nella propria autonomia; quando, infatti, si comincia a prendere coscienza di quanto sta accadendo e si chiede alla chiesa evangelica di prendere posizione, la chiesa risponde che gli ebrei non vengono perseguitati per motivi religiosi, ma per motivi razziali sui quali essa non ha competenza. Rifiutando le leggi ariane, la chiesa non ha inteso esprimere la sua solidarietà agli ebrei, ma il suo rifiuto per l'ingerenza dello stato nella propria sfera d'azione, senza che ciò comportasse alcunché nei confronti dell'antisemitismo. E di fronte al genocidio la scelta prevalente sarà il silenzio. Da parte cattolica, invece, questi sono gli anni in cui -come si diceva sopra- Karl Adam scrive che Gesù era ariano.

La dimostrazione di quanto poco sia stata avvertita, anche in seguito, la responsabilità della chiesa si può vedere da un episodio avvenuto nel 1980: in un clima di generale ripensamento del rapporto tra ebrei e cristiani, alcune chiese evangeliche tedesche riconosceranno la propria responsabilità, dicendo che è vero che le camere a gas non sono state istituite dalla chiesa, ma è anche vero che tra la polemica di Cirillo di Alessandria e le camere a gas c'è un rapporto. Di fronte a tale confessione, alcune facoltà teologiche (per esempio quella di Bonn) risponderanno che il nazismo è stato un fenomeno tanto antiebraico quanto anticristiano. Ora, a me pare che una posizione di questo tipo dimostra di non aver capito nulla di ciò che è stata la shoà. Come è possibile non vedere che il solo fatto che il genocidio sia avvenuto in un paese di tradizione cristiana costituisca in sé un atto d'accusa, peraltro già documentato dalla storia precedente? Come è possibile non vedere il rapporto tra antisemitismo e antigiudaismo? Questo alibi non regge né alla critica storica né alla critica morale. Oggi la chiesa innalza il vessillo di Dietrich Boenhoffer, dimenticandosi che egli (famosa una sua frase: "chi non grida per gli ebrei, non può cantare il gregoriano!") non era incluso nella lista di coloro per i quali bisognava pregare, per il fatto che era stato imprigionato per motivi politici (tra i quali l'aver organizzato una fuga di ebrei in Svizzera) e non per motivi religiosi.

Tutto ciò dimostra come l'onda lunga dell'antigiudaismo dei primi secoli agisce fino a ieri, o forse fino ad oggi. A questo proposito, avviandoci alla conclusione, vorrei ricordare che, secondo un altro mito moderno, l'esplosione antisemita dell'olocausto costituisce per l'occidente, ormai secolarizzato, una sorta di "vaccinazione": ciò che è successo è irripetibile. Dall'altro lato, all'interno delle chiese, c'è la diffusa consapevolezza di aver imparato la lezione: gli anticorpi sono in circolazione. Tuttavia, prese di posizione come quella della facoltà teologica di Bonn (prima citata) mostrano come siamo ancora lontani dall'immunità nei confronti dell'antisemitismo. Io spero, comunque, che la riscoperta delle tre ovvietà rimosse ponga oggi le chiese, se non altro, nella condizione di rapportarsi ai "bacilli" dell'antisemitismo che ancora circolano nella società non con un atteggiamemto magisteriale, ma in spirito autocritico di persone che si sanno solidali con la colpa della civiltà europea, con una parola debole, sommessa, ma ferma.

 

 

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