Visto
che, per ovvie ragioni, non si potrà prendere in esame tutta la storia della
chiesa nei suoi rapporti con l'ebraismo, mi soffermerò su alcuni episodi
paradigmatici che aiutano ad evidenziare alcune coordinate del problema nei
termini in cui si pone oggi; non mi nascondo infatti che questo intervento è
animato dall'intenzione di capire qualcosa di quel gruppo di problemi che vanno
sotto il nome di antigiudaismo o antisemitismo. Spesso questi due termini vengono usati come
sinonimi: in realtà, l'antisemitismo,
fenomeno recente che affonda le sue origini nel XIX sec., indica
l'avversione verso il popolo ebraico, per l'appunto come popolo
(si tratta quindi di una vera e propria forma di razzismo). L'antigiudasimo,
invece, indica un rapporto di avversione nei confronti di ciò che è ebraico,
in particolare dal punto di vista religioso e culturale. Parlare, per esempio,
di antisemitismo nel Nuovo Testamento
è improprio, dal momento che all'epoca non si poneva un problema razziale;
sarebbe più corretto parlare di antigiudaismo.
Nei
confronti di questa problematica, i duemila anni di storia del cristianesimo
sono, secondo me, caratterizzati da una grande rimozione, la quale concerne
almeno tre punti; li definirei come le tre
ovvietà rimosse, dal momento che si tratta di tre aspetti tanto evidenti
quanto, per l'appunto, rimosse: la prima è che Gesù era ebreo, la seconda che
anche Paolo lo era, la terza che la Bibbia cristiana è quella d'Israele.
a)
Cominciamo dalla prima. Lutero nel 1523 ha scritto un libro intitolato Daß
Jesus Christus ein geborener Jude sei (Che
Gesù Cristo sia nato ebreo, ebreo di nascita); il fatto che ci sia bisogno
di scrivere un libro indica che questa realtà era stata rimossa e che quindi
creava difficoltà. Che il cristianesimo abbia ritenuto un fatto irrilevante l'ebraicità
di Gesù costituisce di per sé un problema storico di enorme portata. In
proposito potrei citare il dogmatico cattolico Karl Adam, il quale, intorno agli
anni Trenta-Quaranta, sosteneva che, siccome Gesù era figlio di Maria la quale,
secondo la dogmatica cattolica, era stata concepita senza peccato originale e
quindi a-stratta o e-stratta
dalla continuità storica, non si potesse, propriamente, sostenere l'ebraicità
di Maria e, a maggior ragione, neppure quella di Gesù, il quale è figlio di
una persona che non appartiene al popolo ebraico. Ma potrei continuare dicendo
che l'idea di un Gesù ariano è stata
sostenuta anche in ambito protestante (si veda la relazione di D. GARRONE).
b)
Seconda ovvietà: anche Paolo era ebreo. In molta pubblicistica corrente, sia
cristiana sia laica, si sostiene che Paolo sarebbe all'origine del fenomeno
dell'antigiudaismo. Intanto bisogna ricordare che non solo Paolo è, de
facto, ebreo, ma che spesso rivendica la sua ebraicità: non si vergogna
dell'evangelo, ma neppure di essere ebreo, figlio di ebrei, circonciso
all'ottavo giorno. La sua azione deve essere interpretata come una discussione
dell'ebraismo, non dall'esterno, ma a partire da quell'ebreo particolare che era
Gesù di Nazaret. L'essere cristiano di Paolo si configura a partire da
categorie assolutamente incomprensibili al di fuori dell'universo religioso
ebraico.
c)
Terza ovvietà. Quando Paolo usa l'espressione tecnica "secondo le
scritture", si riferisce ovviamente alle scritture ebraiche. Ciò significa
che Gesù è stato capito a partire dalle scritture d'Israele (tanto basterebbe
per squalificare duemila anni di antigiudaismo), le quali hanno fornito ai primi
cristiani il con-testo entro cui
conferire un senso ai vari tasselli della vita di Gesù, cioè una loro
collocazione significativa. Il fatto che egli non sia stato considerato un
semplice "starnuto della storia", dipende dall'essere stato
"illuminato" dalle scritture ebraiche: solo esse hanno permesso che il
fenomeno storico di Gesù abbia dato origine ad una fede. Non è certo un caso
che i racconti della passione siano infarciti di richiami ad Isaia o ai salmi:
l'apparato categoriale dell'Antico Testamento era l'unico che potesse permettere
di parlare di Gesù (cfr. D. GARRONE, supra).
Perchè
allora queste tre ovvietà sono state rimosse? Partiamo dalla nascita della
chiesa. Uno dei punti fermi (in mezzo a tante intencertezze) della ricerca
storica a partire dall'Illuminismo è che Gesù non aveva nessuna intenzione di
fondare una chiesa: al centro della sua predicazione non c'era
Gesù stesso, ma il Regno dei cieli. Il NT è concorde nell'affermare che
la crocefissione di Gesù è stata vissuta dai suoi discepoli come una
catastrofe: sotto la croce non c'è nessuno e Gesù è morto da solo. Dopo un
po', tuttavia, succede che i discepoli ricominciano a predicare e il contenuto
della loro predicazione non è più il Regno, ma Gesù stesso: in pratica, l'annunciante
diventa l'annunciato, il portatore dell'annunzio diventa il contenuto dell'annunzio. Perché succede ciò? Il NT parla di
manifestazioni "fisiche" di Gesù come vivente: non si tratta per i
discepoli di una semplice presa di coscienza. Questo però non significa che
essi abbiano fondato il cristianesimo; negli Atti degli apostoli, per esempio,
noi vediamo Pietro che si reca al tempio; Paolo, all'inizio di una predicazione
in una città, va prima nella sinagoga. I discepoli, quindi, non avevano la
coscienza di essere altro rispetto ad
Israele; semplicemente erano degli ebrei i quali ritenevano che Gesù avesse
segnato un momento decisivo.
Senonché
questo orizzonte ebraico era tutt'altro che monolitico: per semplificare,
potremmo dire che esistevano, da un lato, ebrei di lingua aramaica, nati e
residenti in Palestina e legati al giudaismo palestinese il quale aveva delle
caratteristiche ben precise (lettura della Bibbia in ebraico, pratica rigorosa
della Legge, radicamento in Gerusalemme, forte legame con la dimensione cultuale
della fede, poca propensione all'espansione missionaria) e, dall'altro, ebrei di
lingua greca (la diaspora, infatti, comincia all'epoca dell'esilio babilonese e
non solo dopo la distruzione del tempio nel 70 d.C.), caratterizati da un legame
meno rigoroso con il tempio, dal fatto di dare più importanza agli aspetti
etici rispetto a quelli dottrinali e cultuali (una sorta di monoteismo
etico) e dal fatto di possedere un maggiore afflato missionario (su questo,
cfr. G. BOCCACCINI, infra). Quando i
discepoli cominciano a predicare, a Gerusalemme sono presenti entrambi questi
gruppi. Negli Atti si dice che ad un certo punto si scatena una persecuzione che
costringe i "cristiani" a fuggire, tranne gli apostoli (fatto strano);
si dice anche che si introduce una distinzione di compiti tra discepoli che si
dovranno dedicare alla predicazione e discepoli che si dovranno occupare
dell'assistenza (i diaconi), i primi provenienti dai circoli palestinesi e i
secondi da quelli ellenistici. Sembra di capire che tale persecuzione abbia
investito solo la parte della comunità che proveniva dall'ebraismo ellenistico,
tanto che il loro capo (Stefano) è stato eliminato, mentre gli altri (i
cirstiani di origine ebraica palestinese) sono stati lasciati in pace. Ciò
significa che l'ebraismo ufficiale ha visto nella comunità
cristiano-giudaico-ellenistica qualcosa di ereticale. La prima spaccatura
all'interno della comunità non è quella tra cristiani provenienti
dall'ebraismo e cristiani provenienti dal paganesimo, ma tra il cristianesimo di
origine ebraico-palestinese e quello di origine ebraico-ellenistica.
Questa
tensione dura anche quando dai circoli ellenistici emerge la figura di Paolo, il
quale porta alle estreme conseguenze la tensione missionaria propria del
cristianesimo ebraico-ellenistico, anche se ancora non si verifica una vera e
propria rottura tra quello che poi diventerà il cristianesimo e l'ebraismo (il
cristianesimo di matrice palestinese viene ancora concepito come una setta
ebraica): era più rilevante la differenza tra i cristiani di matrice
palestinese e quelli di matrice ellenistica che non tra gli ebrei e gli
ebrei-cristiani palestinesi. Certo è che lo slancio missionario di Paolo pone,
non senza drammi (si veda la discussione sulla circoncisione), il problema della
conversione dei pagani. Qualcosa di decisivo diviene manifesto: il cristianesimo
è altra cosa rispetto all'ebraismo; il fattore determinante, dal punto
di vista storico, è stato il rifiuto da parte delle autorità religiose di
Gerusalemme di accogliere gli ellenistici come parte della comunità sinagogale.
Certo, esiste una rilevante asimmetria: l'ebraismo è una religione dotata di
una forte tradizione ed è riconosciuta dai Romani come religio licita, mentre il cristianesimo non si sa ancora bene cosa
sia (si vedano le osservazioni di Tacito e di Plinio il Giovane). E tuttavia,
dal punto di vista dell'autocomprensione, all'epoca della stesura dei vangeli i
giochi sono già fatti, anche se ci sono ancora tante parole che tradiscono la
loro matrice giudeo-cristiano-palestinese (del tipo "neanche una iota sarà
cancellato dalla Legge" di Matteo), cosa che dimostra la scarsa
preoccupazione di armonizzare le due tradizioni.
Almeno
a partire dal 70, ma anche prima, vi verifica dunque una estraniazione.
I "forti" sono ancora gli ebrei: quando c'è una persecuzione, essa
viene messa in opera da parte ebraica contro quegli ebrei che attribuiscono
rilevante importanza al messaggio di Gesù di Nazaret, mentre, da parte
cristiana, c'è la speranza nella conversione degli ebrei, come pure la
constatazione che questa conversione non si verifica. Dal punto di vista di
Paolo e dei vangeli, tale dato di fatto viene interpretato come una decisione in
qualche modo provvidenziale: se Israele rifiuta l'evangelo, significa che esso
deve essere predicato oltre i confini di Israele ai pagani. E tuttavia a Paolo
non passa neppure per la testa di condannare il giudaismo e la Legge in quanto
tale. Il luogo comune secondo cui Paolo sostiene che la Legge non conta più
niente gli è estraneo: il suo problema, piuttosto, è se la Legge, una volta
obbedita, procura la salvezza (e la sua risposta è negativa), e non se la Legge
è buona oppure no. Anche perché non in tutto l'ebraismo sussiste l'idea
secondo cui l'amore di Dio si conquista con l'osservanza della Legge. La legge
-dice Paolo- va interpretata a partire da Gesù e non viceversa; tuttavia,
all'interno della fede, l'obbedineza alla legge diventa un fatto significativo:
il veleno non è nella legge in quanto tale, ma nel fatto che la legge sia
sottratta all'orizzonte della fede in Gesù, la quale per Paolo costituisce
ormai l'orizzonte decisivo.
Non
è quindi vero che in Paolo ci sia una scissione tra Gesù e la storia
d'Israele, come vorrebbe una lunga corrente di pensiero di origine illuminista
secondo la quale il vero fondatore del cristianesimo non è Gesù, ma Paolo. E'
vero invece che Paolo non inventa nulla, ma casomai radicalizza, essendo un
genio teologico, alcune tendenze che già il cristianesimo giudeo-ellenistico
aveva preparato. Paolo non taglia i ponti con la tradizione ebraica, ma di essa
fa l' interlocutrice privilegiata di un dibattito estremamente teso, dominato
dalla domanda sul perché Israele non si sia convertito: la consapevolezza che
quella cosa che si va configurando come fede cristiana sia figlia di
Israele è identificata in modo chiaro nell'immagine dell'innesto dell'olivo.
Tutto ciò allora che Paolo dice contro la legge va inquadrato in questa
problematica. Certo, nel vangelo di Giovanni, nato con ogni probabilità in un
contesto ebraico, c'è un altro atteggiamento, ma bisogna considerare che la
comunità giovannea si trovava in radicale contrasto con la sinagoga, contrasto
che era nato dall'espulsione dei cristiani dalla sinagoga e da altre forme di
persecuzione.
Una
volta che la scissione si consuma e il cristianesimo acquista la sua autonomia,
il processo di estraniazione dall'ebraismo accelera in modo esponenziale. Da un
lato ci sono le ragioni della polemica, dall'altro il fatto che il cristianesimo
si sviluppa al di fuori della Palestina e della cultura di matrice
veterotestamentaria, per cui l'interlocutore diventa il mondo ellenistico.
Questi fattori fanno sì che l'ellenizzazione del cristianesimo (seguita alla
ellenizzazione dell'ebraismo) presenti una accellerazione. Il cristianesimo si dà
una teologia che non sempre proviene dall'orizzonte veterotestamentario, ma da
concetti filosofici greci. Tale processo è rimarchevole solo negli scritti
successivi al NT (il Logos di
Giovanni, per esempio, non ha niente a che fare con la metafisica greca): più
ci si allontana, sia cronologicamente sia geograficamente, dal terreno
dell'ebraismo palestinese, più il cristianesimo assume connotazioni proprie che
lo allontanano anche dalla possibilità di un ebreo di capire. Il tutto culmina
con lo sviluppo di una cristologia elevata:
Gesù è figlio di Dio incarnato. Se infatti si diceva ad un ebreo che Gesù è
il Cristo (traduzione greca di Messia) non sorgevano grossi problemi; se gli si
diceva che Cristo è Dio allora l'incomunicabilità diventava totale.
Il
cristinesimo quindi definisce la propria identità prendendo le distanze
dall'ebraismo. Quando poi la cristologia, dopo Nicea e Caldedonia, acquista la
sua sistematizzazione, si attiva una dinamica di recipropca radicalizzazione: da
parte cristiana si accentua il fatto che Gesù non è stato riconosciuto
dall'ebraismo il quale, in questo modo, è venuto meno a se stesso; da parte
ebraica invece si pone in risalto come i cristiani abbiano fatto rientrare dalla
finestra il politeismo, dal momento che Dio non è più uno, ma, come minino,
due e, qualche volta, anche tre. Tutto ciò non fa altro che spingere l'ebraismo
a concepirsi come altra religione.
Prendiamo
ora in considerazione tre nuclei tematici e
problematici della storia dell'antigiudaismo: i primi secoli del cristianesimo,
l'epoca della Riforma protestante, l'Olocausto nazista.
1. Intanto
bisogna dire che nemmeno l'antigiudaismo è propriamente un'invenzione del
cristianesimo, perché già nel mondo pagano esisteva, nei confronti
dell'ebraismo, un diffuso sentimento, da una parte di attrazione (specialmente
presso le classi colte) e, dall'altra, di ripulsa. Ciò era dovuto
essenzialmente a quattro fattori (seguo le osservazioni di Hans Kung, Ebraismo,
Rizzoli, Milano 1993).
Il
primo fattore di ripulsa è il monoteismo
ebraico. La società tardo-antica infatti possedeva un atteggiamento religioso
di tipo sincretistico, che si traduceva in un pluralismo fortemente
relativizzante nel quale tutto è portatore di valore (non sfugga la forte
somiglianza con la situazione attuale); ne consegue che il monoteismo ebraico è
visto come qualcosa di settario. Il secondo fattore è il modo aggressivo attraverso il quale il mondo pagano pensa che Israele
viva la storia della salvezza: esodo e conquista militare della terra promessa,
con una vera e propria teologia dello sterminio (su questo tema esiste una forte
discussione presso gli studiosi ebraici). Il terzo fattore è rappresentato
dalla circoncisione, sentita da molti
come un'usanza barbara, truculenta, che nulla ha a che fare con il concetto
spirituale di Dio, come quello a cui il mondo antico, attraverso le religioni
misteriche, intende riferirsi. Il quarto fattore di ripulsa riguarda i precetti
alimentari della Torah, i quali, anche nella diaspora, con il prevalere
dell'insegnamento rabbinico, erano diventati, come la circoncisione, una memoria
di identità.
Tuttò
ciò contribuiva a presentare, da un lato la religione di Israele come un
qualcosa di rozzo e primitivo, che poneva l'accento su fattori rituali anziché
intellettuali e, dall'altro, il popolo di Israele come un popolo misantropo, che
tende a sottolineare la propria particolarità rispetto agli altri e quindi ad
isolarsi. Così è stata vissuta già dal mondo tardo-antico la tradizione
ebraica.
Il
cristianesimo, dapprima, ha condiviso il destino dell'ebraismo, nel senso che,
sia pure in forme diverse, ha vissuto lo stesso tipo di emarginazione (anche i
primi cristiani venivano considerati dai pagani come persone misantrope e un po' fanatiche). Col passare del tempo, tuttavia, mentre
tra ebrei e cristiani continua la polemica di cui abbiamo detto e mentre il
cristianesimo si qualifica sempre più come una religione autonoma, esso, nei
confronti del paganesimo, conquista posizioni su posizioni. Nei primi tre secoli
le varie persecuzioni non riescono a stroncare il fenomeno cristiano, anzi, come
dice Tertulliano, "il sangue dei martiri è il seme dei cristiani". Il
fatto che entrambe le comunità, quella ebraica e quella cristiana, si trovino
in una situazione di diaspora e di minoranza non favorisce, di per sè, un
rinnovato rapporto tra di loro: esse vivono indipendentemente. Ne consegue che
la Chiesa, sempre più, assume la coscienza di essere il nuovo
Israele: secondo questo schema, la promessa che Dio ha rivolto ad Israele
viene ereditata dalla chiesa cristiana.
Ma
ci sono altri fattori che contribuiscono all'irrigidimento del cristianesimo
antico nei confronti dell'ebraismo. Ne ricordo quattro. Il primo è il fenomeno
-già accennato- della progressiva ellenizzazione
del messaggio cristiano a scapito del suo retroterra semitico. C'è poi la
disputa attorno alla Bibbia: il cristianesimo sviluppa, a partire dal NT, la
consapevolezza di essere, attraverso la fede in Gesù Cristo, il possessore
dell'unica e autentica interpretazione della Bibbia (tutte le altre
interpretazioni sono, nel migliore dei casi, delle interpretazioni parziali). Si
verifica una sorta di "espropriazione" della Bibbia ai danni della
sinagoga; c'è tutta un'esegesi -su cui non possiamo soffermarci- che tende a
leggere l'AT alla luce del NT: tutto è prefigurazione. In pratica, c'è un
processo di cristianizzazione della
Bibbia ebraica o -se si vuole- di proiezione
cristologica sull'AT. Per troppi secoli la Chiesa ha letto l'AT alla luce del
Nuovo (una sorta di neotestamentizzazione),
senza però svolgere l'operazione inversa, cioè senza riscoprire le radici
ebraiche del NT (si veda D. GARRONE, supra).
Il terzo fattore è la radicale interruzione di ogni forma di dialogo tra chiesa
e sinagoga, se non nella forma residuale dell'apologetica (si veda il Dialogo
con Trifone il giudeo di Giustino, in cui si sostiene che l'ebraismo non ha
più ragione di essere). Infine, si sviluppa sempre più una teologia e poi una
ideologia della responsabilità degli ebrei, come popolo, nella morte di Gesù:
gli ebrei sono un popolo deicida. Ora,
che Gesù sia stato condannato e messo a morte dai Romani su pressione delle
autorità ebraiche è assodato; ma è anche probabile che, per motivi
apologetici nei confronti del mondo romano, i vangeli tendono ad accentuare la
responsabilità degli ebrei. La teoria del deicidio comincia, però, a diventare
drammatica con la svolta costantiniana allorché il cristianesimo diventa
religione imperiale: si verifica una svolta nei confronti delle altre religioni
e in particolare dell'ebraismo, il quale diventa "nemico".
La
chiesa, a lungo perseguitata, diventa persecutrice: l'idea è che, siccome la
verità su Dio è una, tutto ciò che non coincide con essa deve essere
combattuto, e la lotta contro la menzogna, di conseguenza, viene concepita come
un atto di carità (si offre la possibilità, tramite una squalificazione anche
morale degli ebrei, di non cadere nell'errore!). Nascono allora delle leggende
sulle perfide abitudini degli ebrei, tanto che "giudeo" diventa un
insulto (e lo è ancora oggi). Si tratta di un vero e proprio processo di demonizzazione, tanto più paradossale se si pensa che questo schema
era stato in precedenza applicato contro gli stessi cristiani da parte dei
romani (si veda l'accusa di cannibalismo). La parabola si impenna sempre più
nel corso del tempo, tanto che la demonizzazione lascia il posto ad una detenzione:
l'ebreo non viene propriamente sterminato (benché ci siano stati degli episodi
di uccisioni), ma volutamente mantenuto in vita ed emarginato quale segno
vivente di come l'ira di Dio punisce chi l'ha rifiutato.
Sono
secoli in cui si intrecciano due concezioni circa il rapporto con gli ebrei: una
è quella che chiede a gran voce la conversione
forzata degli ebrei (basato anche sul "compelle
intrare" della famosa parabola del banchetto), attraverso delle
campagne militari o l'istituzione di casse che finanziano i convertiti. L'altra
idea è la cacciata degli ebrei dai
territori cristiani (valga per tutti l'episodio degli ebrei spagnoli cacciati da
Isabella di Castiglia nel 1492). E' interessante notare come anche personaggi
passati alla storia come alfieri della tolleranza condividano appieno i
presupposti su cui si basano tali ideologie.
2. Veniamo
ora al secondo nodo problematico, quello della Riforma protestante. E' noto che
Lutero è passato alla storia come uno dei principi dell'antisemitismo
cristiano, con il suo libro intitolato Contro
gli ebrei e le loro menzogne, il quale ha goduto di grande fortuna nel
periodo nazista. Ma anche Erasmo, noto campione di tolleranza, condivideva
l'idea che l'ebraismo costituisse una grandezza estranea all'interno della
società cristiana, proprio perché negatrice di ciò che per il cristianesimo
è fondamentale (egli per esempio si compiace del fatto che la Francia sia
rimasta l'unica nazione priva della presenza giudaica). E' vero che Erasmo si
presenta come un alfiere dei diritti della cultura e quindi della tolleranza, ma
è anche vero che egli rifiiuta persino la conversione forzata, dicendo che un
ebreo battezzato non è un cristiano, ma un ex-ebreo. La posizione di Erasmo
mostra chiaramente come il fattore religioso abbia ormai lasciato il posto al
fattore razziale, cosa che invece non è presente in Lutero, il quale, quando
parla di "ebrei", si riferisce a "coloro che sono di religione
ebraica" (per lui infatti un ebreo battezzato è un cristiano). E tuttavia
anche Lutero partecipa dell'ideologia antigiudaica, sia pure in modo originale,
tanto che i suoi scritti in proposito sono in apparente contraddizione. Nel 1523
scrive un testo intitolato Che Gesù sia
nato ebreo, ebreo di nascita, in cui sottolinea le radici ebraiche del
cristianesimo indicando in esse la fonte da cui non si può prescindere; in
polemica con il cristianesimo del suo tempo, egli afferma che, "se per
essere cristiani bastasse essere antiebrei, allora il nostro secolo sarebbe
pieno di cristiani" (una frase analoga era stata pronunciata da Erasmo, il
quale però non aveva tratto le stesse conseguenze). Col passare del tempo, però,
l'atteggiamento di Lutero si inasprisce, sino ad arrivare, nell'ultimo dei suoi
scritti, a richiedere alle autorità di bruciare le sinagoghe e di bandire gli
ebrei.
Di
fronte a tale contraddizione, c'è chi ha sostenuto che il vero Lutero sia
quello giovanile, poi incattivitosi di fronte allo scarso successo della sua
predicazione presso gli ebrei, e chi è del parere che il vero Lutero sia quello
intollerante (in questo caso il libro del '23 costituirebbe un'eccezione). La
verità, probabilmente, è che Lutero elabora l'antigiudaismo cristiano in
chiave apocalittica (il segno apocalittico per eccellenza, secondo lui, era la
presenza a Roma dell'Anticristo): in questo contesto, gli ebrei (e con loro i
turchi, i papisti, Munster e compagnia) sono concepiti come le forze demoniache
dell'Apocalisse che si fanno avanti per affliggere la vera Chiesa. E'
sintomatico come per lui l'ebraismo sia una (non la sola!) delle manifestazioni
del demonio stesso: è in tale misura che l'autorità secolare deve difendere la
cristianità (o quel che resta) dall'assalto delle forze maligne. Sotto questo
profilo, la questione ebraica in Lutero non esiste in se stessa, ma viene
inserita nella più generale battaglia degli ultimi tempi nei confronti di
Satana, anche se il risultato è, comunque, nei confronti dell'ebraismo, un
atteggiamento fortemente negativo, come del resto era comune nel suo tempo, sia
pure con delle eccezioni, tra cui alcuni discepoli dello stesso Lutero (i quali
passano addirittura per filoebrei). Ne consegue che il mito del
Lutero-antisemita non va combattutto con il contro-mito del Lutero-tollerante,
ma in base, da una parte, al fatto che l' atteggiamento antigiudaico era
largamente diffuso (non si trattava certo di una specialità confessionale!) e,
dall'altra, sullo sfondo di questa radicata idea apocalittica.
3. C'è
infine un terzo nodo problematico, il quale dimostra come l'eredità infelice
dei primi secoli e del XVI sec. abbia fatto sentire in modo disastroso le sue
conseguenze. Si tratta del famigerato periodo del Terzo Reich sfociato nella Shoà.
Dopo che Hitler, salito al potere nel 1933 per via democratica, promulga leggi
restrittive circa i diritti civili della popolazione di origine israelitica, la
Chiesa evangelica si pone il problema di come comportarsi: per esempio, un ebreo
diventato cristiano può diventare pastore? Dal momento che prevale una
posizione di apertura, si potrebbe pensare ad una significativa vittoria della
tolleranza. In realtà, la chiesa si è limitata a rifiutare una pesantissima
ingerenza dello stato nella propria autonomia; quando, infatti, si comincia a
prendere coscienza di quanto sta accadendo e si chiede alla chiesa evangelica di
prendere posizione, la chiesa risponde che gli ebrei non vengono perseguitati
per motivi religiosi, ma per motivi razziali sui quali essa non ha competenza.
Rifiutando le leggi ariane, la chiesa non ha inteso esprimere la sua solidarietà
agli ebrei, ma il suo rifiuto per l'ingerenza dello stato nella propria sfera
d'azione, senza che ciò comportasse alcunché nei confronti dell'antisemitismo.
E di fronte al genocidio la scelta prevalente sarà il silenzio. Da parte
cattolica, invece, questi sono gli anni in cui -come si diceva sopra- Karl Adam
scrive che Gesù era ariano.
La
dimostrazione di quanto poco sia stata avvertita, anche in seguito, la
responsabilità della chiesa si può vedere da un episodio avvenuto nel 1980: in
un clima di generale ripensamento del rapporto tra ebrei e cristiani, alcune
chiese evangeliche tedesche riconosceranno la propria responsabilità, dicendo
che è vero che le camere a gas non sono state istituite dalla chiesa, ma è
anche vero che tra la polemica di Cirillo di Alessandria e le camere a gas c'è
un rapporto. Di fronte a tale confessione, alcune facoltà teologiche (per
esempio quella di Bonn) risponderanno che il nazismo è stato un fenomeno tanto
antiebraico quanto anticristiano. Ora, a me pare che una posizione di questo
tipo dimostra di non aver capito nulla di ciò che è stata la shoà.
Come è possibile non vedere che il solo fatto che il genocidio sia avvenuto in
un paese di tradizione cristiana costituisca in sé un atto d'accusa, peraltro
già documentato dalla storia precedente? Come è possibile non vedere il
rapporto tra antisemitismo e antigiudaismo? Questo alibi non regge né alla
critica storica né alla critica morale. Oggi la chiesa innalza il vessillo di
Dietrich Boenhoffer, dimenticandosi che egli (famosa una sua frase: "chi
non grida per gli ebrei, non può cantare il gregoriano!") non era incluso
nella lista di coloro per i quali bisognava pregare, per il fatto che era stato
imprigionato per motivi politici (tra i quali l'aver organizzato una fuga di
ebrei in Svizzera) e non per motivi religiosi.
Tutto
ciò dimostra come l'onda lunga
dell'antigiudaismo dei primi secoli agisce fino a ieri, o forse fino ad oggi. A
questo proposito, avviandoci alla conclusione, vorrei ricordare che, secondo un
altro mito moderno, l'esplosione antisemita dell'olocausto costituisce per
l'occidente, ormai secolarizzato, una sorta di "vaccinazione": ciò
che è successo è irripetibile. Dall'altro lato, all'interno delle chiese, c'è
la diffusa consapevolezza di aver imparato la lezione: gli anticorpi sono in
circolazione. Tuttavia, prese di posizione come quella della facoltà teologica
di Bonn (prima citata) mostrano come siamo ancora lontani dall'immunità nei
confronti dell'antisemitismo. Io spero, comunque, che la riscoperta delle tre ovvietà
rimosse ponga oggi le chiese, se non altro, nella condizione di rapportarsi
ai "bacilli" dell'antisemitismo che ancora circolano nella società
non con un atteggiamemto magisteriale, ma in spirito autocritico di persone che
si sanno solidali con la colpa della civiltà europea, con una parola debole,
sommessa, ma ferma.
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