Quando
si è completato il Nuovo Testamento e gli si è riconosciuto un'autorità
canonica, ci si è posti anche il problema di come chiamarlo. Le "scritture
di Israele" (riprendendo un'espressione paolina, 2Cor. 3) si riferiscono
all'antico patto (Antico Testamento), mentre le "scritture
apostoliche" riguardano il nuovo patto (Nuovo testamento) stipulato con
l'umanità nella croce da Gesù.
Spesso
alla definizione "Antico Testamento" è associato un tono negativo. In
italiano ciò si nota di meno, dal momento che "antico" non è
sinonimo di "vecchio", ma in altre lingue europee (olandese, inglese,
tedesco) non c'è la sfumatura aulica dell'antichità: "vecchio"
equivale spesso ad una cosa superata e rimpiazzata da una nuova. Per questo,
oggi molti chiedono che si cerchino altre espressioni, che si parli, per
esempio, di "Bibbia ebraica" (per indicare l'AT) e di "Scrittura
apostolica" (NT); o, comunque, se si usa la dizione AT e NT, si abbia
coscienza del fatto che ciò non indica una contrapposizione frontale tra
qualcosa di vecchio e superato e qualcosa di nuovo e attuale. E' più opportuno
insistere sulla successione cronologica: prima c'è il patto con Israele e poi
il nuovo patto con Cristo, esteso a tutta l'umanità, nuovo patto che non
annulla le promesse del precedente (le quali continuano a mantenere la loro
validità), ma le adempie dando loro nuova ampiezza e forza.
Ma
il problema del rapporto tra AT e NT non sta soltanto nel nome. E allora vorrei
richiamare alcuni modelli o modi di concepire questo rapporto, modelli che
pongono dei problemi i quali richiedono delle critiche e che sono o devono
essere superati.
a)
Il primo modello negativo è quello del rifiuto
dell'AT. E' noto come il primo e più importante sostenitore di questa
visione sia stato Marcione (teologo di tendenza gnostica), il quale contrappose
non solo i due Testamenti, ma anche il Dio di Gesù con il Dio dell'AT,
considerato come una sorta di demiurgo creatore, che nulla avrebbe a che fare
con il Dio di cui parla il NT. E anche dal NT egli vorrebbe togliere alcuni
scritti un po' troppo legati all'ebraicità e al Dio dell'AT. La grande chiesa
non accolse questa posizione, per cui si ribadisce con forza che l'AT fa parte
del canone, ma non si può negare che un certo marcionismo
è sempre serpeggiato nella storia della chiesa; ancora oggi, per esempio, molti
cristiani non avrebbero esitazione a sostenere che il Dio dell'AT (Dio della
giustizia e della vendetta) non è lo stesso Dio di Gesù (Dio della grazia,
della misericordia e della compassione). Anche il grande storico del
cristianesimo A. von Harnack diceva, agli inizi del secolo, che non accogliere
le posizioni di Marcione fu per la chiesa dell'epoca una necessità inevitabile,
continuare a non accoglierle al tempo della Riforma fu un destino a cui i
riformatori non seppero sottrarsi, ma oggi continuare a mantenere l'AT sarebbe
segno di una paralisi spirituale.
Questo
modello è da respingere per due sostanziali ragioni: in primo luogo, perché,
secondo il NT, le scritture a cui si riferisce l'insegnamento, l'azione, la
morte e la resurrezione di Gesù sono l'AT, di cui si riconosce l'autorità; in
secondo luogo, perché uno dei cardini dell'unità di tutta la Bibbia è il
fatto che il Dio dell'AT è lo stesso Dio di Gesù.
b)
Il secondo modo di concepire il rapporto tra i due Testamenti è quello che, pur
non escludendo l'AT, lo polarizza molto con il NT, intendendo l'AT come tutto o in parte
superato, o comunque trasceso su di un piano superiore dal NT. Spesso si sente
parlare di contrapposizione tra Legge e Vangelo; altrettanto spesso,
specialmente in ambienti protestanti, si tende a bollare tutto l'AT come
"economia della legge", in cui il cammino era tracciato dai severi
comandamenti di Dio: ne deriva un'idea della salvezza basata sulle opere, un
dover corrispondere alle pesanti richieste di Dio, mentre nel NT sarebbe
presente la dimensione del perdono, della grazia, della vita nuova, da non
intendersi più come sottomissione alla legge, ma come guida dello spirito (al legalismo
dell'AT si sostituirebbe la più semplice e più elevata etica
dell'amore). Secondo Lutero, per esempio, la Torah possiede semplicemente
due direzioni: la prima (più importante sul piano teologico) è quella di
esprimere la santa volontà di Dio e la seconda di mostrare l'incapacità umana
di corrispondervi; la Legge, cioè, avrebbe la funzione di convincere l'uomo del
proprio peccato (non ha quindi un compito positivo), mentre solo nel NT verrebbe
la risposta al problema del peccato, con l'avvento della grazia e del perdono.
A
questa contrapposizione polare, espressa nei termini di Legge e Vangelo, la mia
obiezione è che la grazia di Dio è presente anche nell'AT. Proprio nel
Pentateuco si vede che la legge non è una grandezza autonoma, così come non si
può negare che anche nel NT c'è la presenza della dimesione del comandamento.
Prima di dare la legge, nella Torah, Dio libera il suo popolo dalla schiavitù,
e, prima di essere liberato, quel popolo era stato eletto e caricato di promesse
straordinarie (si veda il caso di Abramo). E cos'è tutto questo se non,
appunto, la grazia, la misericordia di Dio che elegge e che libera e che, dopo
aver eletto e liberarto, vincola alla sua volontà (Es 19ss.)? Nel NT si ha una
struttura analoga (si veda Rm. 6,17-18): anche qui si parte dall'annuncio della
grazia per arrivare alla vocazione a vivere la vita nuova che Cristo ha
dischiuso, come consacrazione e obbedienza al Signore, compiendone la volontà.
Anche il Sermone del monte presenta uno schema analogo: annuncio della venuta
del regno (e questo è l'evangelo, la grazia) e, da questo, l'appello a vivere e
a reinterpretare la legge alla luce dell'annuncio del regno tramite la mitezza,
la semplicità, la povertà, ecc. Anche qui c'è un chiaro nesso tra
l'indicativo della grazia e della promessa e l'imperativo della vocazione che
Dio rivolge a coloro ai quali ha dato la sua grazia e le sue promesse.
Si
tratta, come si vede, di una struttura comune ai due Testamenti; una
polarizzazione, quindi, che tendesse a relegare tutto l'AT sul versante della
legge e che intendesse sospingere tutto il NT sul versante di un annuncio di
perdono, senza implicazioni con il comandamento divino, sarebbe una
inaccettabile semplificazione. Non è possibile contrapporre i due Testamenti
proprio su temi che presentano una struttura simile. A questo riguardo nelle Tesi
sul rinnovamento del rapporto di Cristiani ed Ebrei approvate dal Sinodo
evangelico della Renania del 1980 si dice: "Quando nella chiesa si parla di
Legge e di Evangelo, ciò non può essere inteso come se la Legge fosse identica
all'Antico Testamento e l'Evangelo al Nuovo Testamento". Il che significa
che questi sono due modi di Dio di
rapportarsi al suo popolo, con la sua promessa, ma l'unica parola di Dio è
quella che annuncia il giudizio e dona la salvezza. Questa doppia determinazione
dell'unica parola di Dio vale sia per la Bibbia ebraica sia per il NT.
Un'altra
polarizzazione è quella che tende a leggere l'AT come promessa, preparazione,
prefigurazione. Nella lettura cristiana tutto ciò che è nell'AT viene visto
come preliminare, in attesa
dell'adempimento e della realizzazione dell'evento, privo quindi di valenza
autonoma. Il cristianesimo, per esempio, tende spesso ad enfatizzare nella
profezia l'attesa messianica, per cui dell'AT si prediligono più i Profeti (e,
fra questi, coloro che annunciano la venuta del Messia) rispetto alla Torah (e
già questo è uno spostamento di baricentro abbastanza arbitrario, perché non
corrisponde alla strutturazione della Bibbia). Ne deriva una lettura che fa
dell'AT il documento di come Israele aspettasse la venuta del Messia, anticipata
e preparata dalla profezia. Per non parlare poi di tutte le prescrizioni che
riguardano il culto di Israele, il sacerdozio e il santuario: i cristiani delle
origini non assumevano le forme di vita proprie di Israele, per cui non si
circoncidevano, non c'era più il sacerdozio e il culto sacrificale. Già con la
Lettera agli Ebrei ciò viene letto come prefigurazione dell'unico sacrificio di
Cristo; ma anche nel periodo che va da Paolo ad Agostino sono molti coloro che
vedono nei sacerdoti di Israele la prefigurazione del ministero cristiano, nel
culto la prefigurazione del nuovo culto cristiano, nella circoncisione un rito
di ingresso che anticipa il battesimo. In questo modo è come se si dicesse che
l'AT in realtà non ha mai avuto, su questi temi, valore di parola di Dio, di
rivelazione autonoma, ma solo anticipazione e prefigurazione di ciò che sarebbe
successo.
Anche
in questo caso è facile individuare la critica, nel senso che poi non si sa
come affrontare il fatto che ci sono nell'AT molte promesse già adempiute
nell'arco stesso dell'AT. La dimensione della promessa non è tutta messianica;
ci sono molte promesse fatte al popolo di Israele le quali si sono già
realizzate nella storia di Israele. E allora la domanda che ci poniamo noi oggi
è questa: ha un significato, anche per me cristiano, il fatto che Dio abbia già
realizzato per Israele, prima di Cristo, molte delle promesse che gli aveva
fatto? La risposta può essere affermativa. E il discorso è quello della storia
della salvezza per cui Dio si sceglie un popolo, ha con esso un rapporto che
poi, in Cristo, ha esteso anche a noi che eravamo non membri di quel popolo. La
prospettiva, quindi, cambia: proprio le cose che sono già state significative
per Israele diventano, in questo loro già essersi compiute per Israele,
teologicamente significative anche per noi.
c)
Spesso anche le chiese che non hanno accolto l'ipotesi del rifiuto dell'AT lo
hanno tuttavia sottoposto ad un pesante processo di cristianizzazione.
Alla domanda sul perché l'AT è legittimamente e significaticamente parte del
canone cristiano, si è risposto dicendo che esso, essendo in vista di Cristo,
contiene già tutte le cose di cui testimonia poi il NT. Il grave pericolo di
questa interpretazione è l'allegoria, per effetto della quale ogni verso
dell'AT viene riferito al NT. L'obiezione a questo modo di intendere è che, così
facendo, si elimina del tutto il senso proprio: il senso letterale ha avuto
nell'interpretazione allegorica un valore, al più, storico, ma il significato
teologico-spirituale non stava in ciò che veniva raccontato, bensì nella
trasposizione che se ne faceva con l'allegoria. Per esempio il passo di Gen.
3,15 ("porrò ostilità tra te e la donna, fra il tuo seme e il seme di
lei: Esso ti schiaccerà la testa e tu insidierai il suo tallone") è
chiamato protoevangelo perché in esso
si è vista una prefigurazione di Gesù che schiaccerà il capo a Satana. In
realtà, questo verso ha un carattere puramente proverbiale e intende spiegare
perché ci sia tanta ostilità tra il genere umano e i rettili.. Ancora: Gen.
22,18 ("nella tua discendenza saranno benedette tutte le nazioni della
terra, in premio per aver obbedito alla mia voce") viene allegoricamente
riferito a Cristo; se invece dovessimo interpretarlo oggi, diremmo che Israele
ha avuto una missione di benedizione per le genti anche prima di Cristo e
indipendentemente da lui: Israele è una comunità che, in modo diverso da
quella cristiana, testimonia in mezzo alle nazioni dell'unico Dio, vivente e
vero. Per non parlare poi dei Canti del servo sofferente di Isaia, i quali sono
stati subito interpretati messianicamente; ora, è vero che già il NT presenta
Gesù come il servo sofferente, ma un conto è dire che si riconosce in Gesù
colui che Dio ha mandato perché svolga la funzione di Messia, un altro conto è,
in sede di lettura dell'AT, attribuire già ad Isaia un'allusione messianica che
invece non aveva (in realtà Gesù ha assommato in sé la figura del servo
sofferente e del re, due figure che nell'AT erano distinte).
d)
L'ultimo modello è quello di una lettura eclettica
e selettiva: a partire da ciò che nel NT è diventato centrale, si
stabilisce cosa è valido e cosa non lo è
all'interno dell'AT, con criteri successivi ed esterni all'AT stesso. E
allora si dice che è più importante la profezia rispetto alla legge; oppure
che è più importante la legge morale di quella cultuale. Ma c'è un uso
selettivo derivante anche dalla recente esegesi storico-critica, la quale,
all'inizio del secolo, aveva cercato di stabilire cosa fosse originario nell'AT:
sulla base di tutta una serie di indizi (i due racconti della creazione, le due
rivelazioni del nome di Dio, le due vocazioni di Mosè, ecc.), si è sviluppata
la coscienza che l'AT era il punto di approdo di un lungo lavoro di tradizione e
di elaborazione (da qui la necessità di individuare le tradizioni più
antiche). Senonché, così facendo, si è arrivati, per esempio, ad attribuire
le tradizioni legali all'epoca post-babilonese (con conseguente svalutazione
della legge stessa). Anche all'interno dei testi narrativi si è individuato una
parte più antica, per cui dell'ebraismo post-esilico, responsabile dei testi
sacerdotali e della composizione
della Torah come legge, si è dato un giudizio negativo:
tornato dall'esilio, Israele non ha più le sue istituzioni carismatiche,
non ha più la federazione delle 12 tribù e la profezia. Ne consegue una
mitizzazione dell'epoca pre-esilica, nel corso della quale Israele avrebbe
vissuto un rapporto più immediato con Dio, mentre dopo l'esilio non rimane che
un'angusta teocrazia centrata intorno al tempio in via di ricostruzione. Il NT e
la teologia cristiana sarebbero la ripresa di queste antiche tradizioni
profetico-carismatiche dell'epoca in cui il rapporto tra Dio e il suo popolo era
libero e spontaneo, mentre l'ebraismo sarebbe la prosecuzione e lo sviluppo del
legalismo post-esilico.
Se
le cose stessero così, tutto sarebbe risolto, essendoci una continuità tra il
nucleo più antico dell'AT (la parte pre-esilica) e il cristianesimo, a cui fa
seguito l'ebraismo farisaico, caratterizzato dalla scolasticizzazione e dalla
legalizzazione dell'AT. Il fatto è che le cose sono andate diversamente: le
tradizioni sono certamente antiche, ma gran parte della Bibbia ebraica, comprese
quelle parti che sembravano meno giudaiche e più ebraiche, è stata scritta in
epoca persiana, per cui la tanto demonizzata epoca post-esilica si rivela invece
come molto creativa. L'esigenza di scrivere la Bibbia in questa forma è venuta
da parte di gente che in esilio o tornando dall'esilio ha riconosciuto che
avevano ragione i Profeti e il Deuteronomio a dire che l'esistenza di Israele e
la sua risposta alla vocazione divina erano sbagliate e che era necessario
ricostruire e ritrasmettere la parola di Dio. E' quindi da tale esigenza di
ricezione, di riformulazione e di fissazione della parola di Dio, esigenza
tipicamente post-esilica e di altissima caratura spirituale, che nasce questa
forma della Bibbia. Altro che espressione, quindi, di un ebraismo asfittico ed
epigonale, ormai soltanto proteso ad un lavoro di fissazione; si tratta, invece,
di un periodo teologico di notevole tensione spirituale e di dibattito sul modo
di ricostruire la propria esistenza di popolo di Dio, valorizzando la sua
parola.
Vediamo
ora alcune brevi riflessioni in positivo.
Non
possiamo fare a meno dell'AT, non foss'altro perché, senza di esso, non
potremmo né comprendere né interpretare Gesù e il NT. Senza AT il NT potrebbe
solo essere frainteso. "I cristiani attestano con il NT che il Dio che ha
resuscitato Gesù dai morti è lo stesso Dio attestato nella Scrittura. La
Scrittura rende ebrei e cristiani attenti al fatto che il Dio di Abramo, Isacco
e Giacobbe non può essere scambiato con il Dio dei filosofi (Pascal), perché
Dio si rivela nella storia di elezione e di promessa di Israele" (Sinodo
della Renania, cit.). Se non avesimo l'AT, quando Gesù parla di Dio, noi
sostituiremmo al Dio che ha creato il mondo, che ha eletto Abramo, al Dio geloso
che ama il suo popolo come una donna e che ne è tradito, il Dio dei filosofi, o
comunque un'idea personale di Dio. Il NT ha il suo valore proprio nella misura
in cui dice che si è fatto carne non un'arbitraria idea di Dio, ma il Dio
dell'AT.
In
questo senso, è indispensabile leggere l'AT non solo chiedendosi cosa esso
significhi ancora, ma anche leggere il NT alla luce dell'AT. Tutti i concetti,
le strutture e le relazioni fondamentali di cui parla il NT per riferirle
all'opera di Cristo non potrebbero essere capite senza l'AT: peccato, giustizia,
legge, regno di Dio, tutte affermazioni teologiche centrali del NT, provengono e
vanno lette alla luce della Bibbia ebraica.
Da
queste comuni scritture possedute da ebrei e cristiani si dipartono due linee
interpretative, quella cristiana e quella ebraica. I cristiani non affermano più
che la loro è l'unica interpretazione dell'AT, anche se possiamo e dobbiamo
confessare l'adempimento delle scritture in Cristo. In questo senso, è
possibile leggere l'AT insieme al NT: l'unità dei due Testamenti è data dal
fatto che entrambi testimoniano dell'unico Dio che elegge, promette, libera e
vincola a sé.
Il
fatto che gli ebrei continuino a leggere la Bibbia dandone un'altra
interpretazione è per noi uno stimolo continuo a ricordarci che l'AT era prima
del NT e che fa un discorso non sovrapponibile al NT, cioè ha una sua
fisionomia e autonomia, una sua testimonianza specifica. Alla luce di questa
sottolineatura, possiamo vedere quattro elementi molto significativi dal punto
di vista teologico (si tratta di cose che il NT non ha detto perché le
presupponeva).
1)
L'AT (in particolare i profeti anteriori) contiene in gran parte discorsi di
giudizio, cioè una lettura severa del comportamento di Israele (si veda da
Giudici al secondo Libro dei Re), mostrando come Israele non abbia vissuto
coerentemente il patto a cui si era liberamente vincolato, tanto che si giunge
all'esilio. A me pare che la presenza di un tale elemento nella Bibbia voglia
indicare come ogni futura generazione abbia questo nel suo canone come parola di
Dio. Ne consegue che i libri storici e la profezia sono, per il cristiano, un
modello di come scrivere la storia della Chiesa: noi cristiani non siamo più la
raccolta escatologica in vista della fine, ma siamo come Israele e abbiamo la
parola di Dio che ci serve a guardarci dentro e a rileggere il nostro passato,
ad evitare il giudizio se accogliamo l'appello dei profeti e a subirlo se ce ne
allontaniamo.
2)
Gesù non ha abolito la legge, ma l'ha compiuta e riassunta. Anche e proprio
nella rilettura operata da Gesù, la Torah mantiene un grande valore di
orientamento per la riflessione etica. Si veda, per esempio, l'interesse per la
tutela dei deboli: la presenza del diritto e dell'uguaglianza all'interno della
comunità è un dato dell'AT che Gesù non ha mai rinnegato (cfr.la relazione di
E. KOPCIOWSKI, supra).
3)
Ad alcuni l'AT è sembrato troppo mondano, troppo terreno: si parla poco, per
esempio, della resurrezione dei morti. In una lettera dal carcere, Bonhoeffer
dice: "Mi accorgo di pensare sempre più
in termini di AT; solo chi ama a tal punto la vita da pensare che con la
perdita di essa sia tutto perduto, può pensare cos'è la resurrezione dei
morti". Ciò è fondamentale perché il cristianesimo, nella sua pesante
inculturazione ellenistica, ha assunto schemi che non sono propri della Bibbia,
ma derivano dalla gnosi e dall'ellenismo (si veda, per esempio, la
contrapposizione corpo-anima). Ora, l'AT è come un antidoto a questa
introduzione di scheni dualistici, dal momento che vede nella vita, nella
terrestrità non qualcosa di negativo da cui bisogna sfuggire al più presto, ma
propone una visione unitaria dell'uomo; si tratta di una visione dialettica per
effetto della quale l'umanità è, al tempo stesso, sublime e tragica. E allora
il problema della redenzione non è posto in termini di fuga, ma in quelli di
una trasfigurazione. Proprio la terrestrità e l'apparente materialità dell'AT
è uno degli elementi che il NT riprende.
4)
Ci sono nell'AT dei salmi di protesta e c'è soprattutto Giobbe. Anche qui ci si
può chiedere quale sia l'attualità di ciò. Io riassumerei queste parti del
canone con lo slogan, un po' moderno, di "la
pietà della protesta", nel senso che uno dei regali che ci fa l'AT è
questo dar voce ad una pietà, cioè un atteggiamento di dialogo e di fede in
Dio, che non ha paura neppure della rivolta, e all'assunzione del dramma dei
perché senza risposta dell'esistenza umana, la quale non è consegnata solo al
nichilismo, ma diventa anche preghiera. Spesso, nell'esperienza successiva, si
è pensato che essere "pii" significasse essere rassegnati e umili; ma
il paradigma del "pio", così come ci viene consegnato da alcuni salmi
(per es. il Sal. 22) e da Giobbe, è di tutt'altro genere: la pietà della
protesta è la punta estrema e più drammatica del rapporto con Dio di cui ci
parla la Bibbia, un rapporto dialogico e personale (cfr. supra,
G. LARAS). Non è un caso che nella Bibbia ebraica si parli di Dio attraverso
metafore matrimoniali: egli non è una forza, un destino, una logica, ma un
interlocutore a cui si può anche dire che non lo si capisce. Tale idea ci è
offerta dall'AT e il NT lo presuppone, senza rinnegarlo.
Affrontiamo
ora il tema, molto ampio e difficile, della ebraicità
di Gesù. Affermare l'ebraicità di Gesù può sembrare una cosa prima di tutto
ovvia e in secondo luogo banale. Ovvia,
perché essa emerge con ogni evidenza da svariati testi del NT: Gesù è nato
ebreo, ha vissuto da ebreo, si è riferito alla Bibbia ebraica, parla ed agisce
all'interno del variegato ebraismo del suo tempo, è riconosciuto dai suoi
discepoli anzitutto come Messia di Israele.
Banale, perché si può pensare che questa appartenenza, per quanto
oggettiva e significativa ai fini della comprensione della sua persona e dei
riferimenti del suo messaggio, non sia particolarmente rilevante e determinante
ai fini della confessione della fede in lui.
Lutero
ha intitolato un suo scritto del 1523 Daß
Jesus Christus ein geborener Jude sei ("Che
Gesù Cristo sia nato ebreo, ebreo di nascita"). In questo testo egli però
argomenta in un'unica direzione: dalla prima all'ultima riga evidenzia quello
che l'"ebraicità" di Gesù può significare per il popolo ebraico.
Per Lutero l'ebraicità di Gesù consiste nel fatto che egli è
inequivocabilmente il Messia promesso dalle scritture. Sottolineare questa
ebraicità, lasciando da parte gli sviluppi dogmatici della tradizione
cristiana, avrebbe dovuto per Lutero rendere possibile l'adesione degli ebrei
del suo tempo alla confessione di fede in Gesù. Non è questa la sede per
approfondire il rapporto di Lutero con gli ebrei. Basti qui rilevare che egli
non argomenta nella direzione opposta: cosa significa per i cristiani il fatto
che Gesù abbia per tutta la vita parlato ed agito da ebreo? Che cosa significa
per il cristianesimo avere fede nel Gesù ebreo? E' questa infatti l'ottica che
viene oggi messa in primo piano da più parti. Cosa significa rilevare che il vere
homo ha la connotazione precisa di vere
judaeus? Alla luce del NT, il vere
homo non implica una vera umanità "in generale", esemplare o
onnicomprensiva, ma un'umanità "ebraica". Vere homo significa, nel NT, homo
judaeus!
Prima
di rispondere a questo interrogativo, vorrei offrire dei modelli negativi di
ebraicità di Gesù negata o trascurata.
Cominciamo
dall'esempio più negativo e più improbabile: c'è chi ha detto che Gesù non
era ebreo, ma ariano (non occorre spendere molte parole su questa amenità).
Più
interessante è l'altra posizione, presente dall'Illuminismo in poi, secondo la
quale Gesù non era ebreo, ma un uomo "in generale" e che la sua
"ebraicità biografica" non è teologicamente rilevante: la parola si
fa carne (non necessariamente ebrea), questo è -in tale ottica- il dato
importante.
C'è
poi chi ha sostenuto che Gesù non era né "specificamente" ebreo, né
"generalmente" umano, ma "cristiano"; giustamente si obietta
che è soltanto a partire dalla confessione di altri
rispetto a Gesù (vedi, per es., Pietro: "tu sei il Cristo") che si ha
il "cristianesimo".
Ma
il modello secondo me più insidioso è quello che semplicemente non si pone la
questione dell'ebraicità di Gesù. Bultmann, per esempio, dice che la
predicazione di Gesù si radica pienamente nell'ebraismo, ma poi rubrica il
messaggio di Gesù tra i presupposti del cristianesimo, il quale comincia con il
messaggio pasquale e postpasquale.
A
proposito di questa tendenza e sottovalutare o a negare l'ebraicità di Gesù,
cito una frase di K. Barth, il quale, commentando Gv 1,14 (et
verbum caro factum est), dice: "La Parola non divenne uomo in qualche
senso generico, ma divenne carne ebraica".
A sua volta, Helmut Gollwitzer puntualizza: "Il carattere storico di Gesù
non è soltanto un dato storico accidentale (...) Inizialmente Gesù non appartiene a tutta l'umanità, ma a questo suo popolo (Rm 1,16).
Il suo apparire è, anzitutto, un fatto interno ebraico, collegato in modo non
accidentale ma essenziale con la storia ebraica e con gli elementi più
importanti che la caratterizzano: patto, elezione, legge, profezia, terra,
unicità del Dio d'Israele, attesa messianica" (Befreiung zur Solidaritaet, 1978, tr. it Liberazione e sodilarietà, Claudiana, Torino 1986, pg. 47s.). Da
Barth in poi, molti autori sottolineano che, quando si dice, per usare il
linguaggio tradizionale, vere homo,
bisogna anche dire vere homo judaeus,
altrimenti si corre il rischio del docetismo. D. Bonhoeffer nel 1940
sottolineava che un'espulsione degli Ebrei dall'Occidente avrebbe comportato
necessariamente l'espulsione di Cristo, perché Cristo era ebreo. Il documento
della Commissione per i rapporti con l'ebraismo intitolato Ebrei ed ebraismo nella predicazione e nella catechesi della chiesa
cattolica. Sussidi per una corretta interpretazione, del 1984, si apre con
un'affermazione molto importante: "Gesù è ebreo e lo è per sempre"
(peccato che tale formulazione non sia stata ripresa dal recente catechesimo
cattolico). Dire quindi che Gesù fu uomo implica riconoscere che fu un uomo
molto particolare, all'interno di Israele. Ciò è molto rilevante, perché,
proprio in quanto Messia di Israele, Gesù è il salvatore delle genti: la
particolarità di Gesù non impedisce, ma anzi realizza la sua universalità.
Non c'è spazio per citare tutti i passi del NT a questo proposito; per il loro
elenco, si vedano i già citati Sussidi,
oltre che il documento del Sinodo della Renania (cfr. supra).
Vediamo,
infine, alcune riflessioni sul significato della riscoperta dell'ebraicità di
Gesù. Anzitutto, essa impedisce una cristologia della separazione e dell'opposzione
tra ebraismo e cristianesimo, per effetto della quale si dice che i cristiani
sono il nuovo Israele. Gesù, rimasto ebreo, è per i cristiani il primo ponte
che li collega all'ebraismo.
Secondariamente,
la riscoperta dell'ebraicità di Gesù rappresenta un potente antidoto contro il
docetismo; il paradosso dell'incarnazione viene posto al centro: Dio, che i
cieli non possono contenere, si fa uomo, non in generale, ma uomo che porta in sé
i segni caratteristici dell'identità ebraica.
Terza
sottolineatura: dire che Gesù era ebreo è affermazione troppo generica. Quale
fu la specifica ebraicità di Gesù? Che ebreo è stato Gesù? Come si colloca Gesù
sullo sfondo dell'ebraismo dell'epoca così variegato? Cosa ha significato la
sua presenza in questo mondo?. Secondo alcuni autori, infatti, Gesù era un
maestro molto vicino all'ebraismo farisaico prossimo alle correnti più liberali
in polemica con quelle più rigoriste; secondo altri l'ebraismo di Gesù è di
stampo essenico oppure vicino alle
correnti apocalittiche (su tutto questo si veda la relazione di G. Boccaccini, infra).
In
quarto luogo, la ricostruzione della ebraicità di Gesù è complicata anche dal
carattere del NT, che contiene scritti posteriori di alcuni o svariati decenni,
i quali non fotografano Gesù, ma lo reinterpretano a partire dalla propria fede
e in vista della testimonianza. E allora, chi vuole sottolineare l'ebraicità di
Gesù cita molto l'evangelo di Matteo, il quale però più che di quella di Gesù
è portatore della propria ebraicità. Il carattere complesso delle fonti,
quindi, rende difficile cogliere i tratti della vera umanità ebraica di Gesù.
Gli elementi non propriamente ebraici presenti nei vangeli, per esempio, sono il
proprium di Gesù oppure rappresentano una successiva
interpretazione ecclesiastica? Ciò che in Gesù non coincide con nessuna delle
varietà dell'ebraismo di quel tempo rappresenta il suo specifico oppure è il
frutto di una rilettura posteriore? Ne consegue che coloro i quali sottolineano
molto l'ebraicità di Gesù sono accusati di riduzionismo (ne esce un Gesù
troppo simile ad un qualunque altro rabbino), mentre chi sottolinea gli aspetti
più dirompenti rispetto all'ebraismo dell'epoca viene accusato di basarsi sulla
rilettura posteriore. Montefiore, un ebreo del secolo scorso, autore di un
commentario agli evangelli, aveva risolto la questione in modo drastico dicendo:
"l'insegnemento di Gesù, quand'era buono, non era originale e, quando era
originale, non era né ebraico né buono". C'è quindi la tendenza o a
"normalizzare" Gesù sull'ebraismo del tempo oppure a porre l'accento
sul Gesù della confessione di fede. Si tratta, come si vede, di un problema
tuttora aperto.
Infine,
se è necessario, per capire chi è Gesù, cogliere il suo radicamento ebraico,
neppure la riscoperta della sua ebraicità risolve il problema della separazione
tra cristiani ed ebrei: per questi egli rimane un maestro di Israele, per quelli
Gesù è colui che compie la legge e porta su di sé i peccati del mondo. Anzi,
accentuare, come fa il Sinodo della Renania, il fatto che Gesù è il salvatore
del mondo proprio in quanto Messia di Israele acuisce il problema del non
riconoscimento ebraico di Gesù come Messia. Il riconoscimento dell'ebraicità
di Gesù non è affatto, come pensa qualcuno, una sorta di captatio benevolentiae o di irenismo semplificante: la fede di
Gesù unisce ebrei e cristiani, ma la fede in
Gesù li divide.
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