Gli
agiografi (Ketuvìn), a differenza dei
profeti, sono definiti "parola ispirata", mentre quella dei profeti è
definita "parola riferita". Ciò significa che alla base c'è una
diversa intensità di ispirazione profetica. Mentre la predicazione di un
profeta è il risultato di una comunicazione di Dio al profeta stesso, nei Ketuvìn
si può e si deve parlare di una ispirazione che fa loro affermare una certa
predicazione: si tratta di persone colpite dall'ispirazione e quindi del tutto
affidabili, nonostante alcuni di essi risultino piuttosto problematici.
Data
la vastità dell'argomento, ci sofferemo su tre testi che pongono delle
problematiche esistenzial-filosofiche, da cui scaturiscono difficoltà in ordine
al rapporto fede-vita: il libro di Giobbe, quello dei Salmi e quello di Qoelet.
1. Cominciamo da Giobbe. Il testo parte da una premessa biografica al cui
centro c'è una persona, Giobbe appunto. In proposito, è nata -e continua
ancora- una lunga discussione circa la realtà di questa figura: si tratta di
stabilire se Giobbe sia una persona storicamente esistita oppure se rappresenti
una "tipologia esistenziale", un simbolo. Non è questa la sede per
approfondire il dibattito. E, in ogni caso, se anche Giobbe fosse veramente un
personaggio paradigmatico e quindi inventato, resterebbe comunque in primo piano
il problema che la sua tragedia individuale pone, cioè il problema della
teodicea, del giusto che soffre e del malvagio che, invece, sta bene ed è
felice. Si tratta, come si vede, di un problema universale, che riguarda gli
esseri umani di ogni tempo. Bisogna anche dire, però, che una problematica di
questo tipo non può che collocarsi in un ambito religioso, della creatura che
si sente sotto l'occhio di Dio: "se Dio è buono, perché, a me che sono
buono, manda delle sofferenze?". Chi si ponesse, infatti, in una
prospettiva atea, non avrebbe nessun motivo per porsi di fronte ad un problema
del genere: se Dio non esiste, significa che la realtà è inintelleggibile e
quindi è inutile porsi domande che non possono avere una risposta. L'uomo
religioso, invece, esige una risposta, risposta che solo Dio può dargli. Faccio
notare che questo problema è più tragico nella prima parte del dilemma (perché
il giusto soffre?) che non nella seconda (perché il malvagio sta bene?): se
infatti il giusto stesse bene, il fatto che ci siano malvagi che non soffrono
non provocherebbe eccesivo scandalo.
Leggiamo
il testo. "C'era nella terra di Uz un
uomo chiamato Giobbe: uomo integro e retto, temeva Dio ed era alieno dal
male. Gli erano nati sette figli e tre figlie, possedeva settemila pecore
e tremila cammelli, cinquecento paia di buoi e cinquecento asine, e molto
numerosa era la sua servitù. Quest'uomo era il più grande fra tutti i figli
d'Oriente. Ora i suoi figli solevano andare a fare banchetti in casa di uno di
loro, ciascuno nel suo giorno, e mandavano ad invitare anche le tre sorelle per
mangiare e bere insieme. Quando avevano compiuto il turno dei giorni del
banchetto, Giobbe li mandava a chiamare per purificarli; si alzava di buon
mattino e offriva olocausti secondo il numero di tutti loro. Giobbe infatti
pensava: "Forse i miei figli hanno peccato e hanno offeso Dio nel loro
cuore". Così faceva Giobbe ogni volta" (1,1-5). Si tratta della
presentazione del personaggio, della sua famiglia e della sua posizione sociale.
Giobbe, da uomo religioso, pregava Dio perché temeva che i figli nella
prosperità dimenticassero il loro Creatore (1,5).
Ecco
che, però, scoppia la tragedia. "Un
giorno, i figli di Dio andarono a presentarsi davanti al Signore e anche Satana
andò in mezzo a loro. Il Signore chiese a Satana: "Da dove vieni?".
Satana rispose al Signore: "Da un giro sulla terra che ho percorsa".
Il Signore disse a Satana: "Hai posto attenzione al mio servo Giobbe?
Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal
male". Satana rispose al
Signore e disse: "Forse che Giobbe teme Dio per nulla? Non hai forse messo
una siepe intorno a lui e alla sua casa e tutto quanto è suo? Tu hai benedetto
il lavoro delle sue mani e il suo bestiame abbonda sulla terra. Ma stendi un
poco la mano e tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà in faccia!". Il
Signore disse a Satana: "Ecco, quanto possiede è in tuo potere, ma non
stender la mano su di lui". Satana si allontanò dal Signore. Ora accadde
che un giorno, mentre i suoi figli e le sue figlie stavano mangiando e bevendo
in casa del fratello maggiore, un messaggero venne da Giobbe e gli disse:
"I buoi stavano arando e le asine pascolando vicino ad essi, quando i Sabei
sono piombati su di essi e li hanno predati e hanno passato a fil di spada i
guardiani. Sono scampato io solo che ti racconto questo". Mentre egli
ancora parlava, entrò un altro e disse: "Un fuoco divino è caduto dal
cielo: si è attaccato alle pecore e ai guardiani e li ha divorati. Sono
scampato solo io che ti racconto questo". Mentr'egli ancora parlava, entrò
un altro e disse: "I Caldei hanno formato tre bande: si sono gettati sopra
i cammelli e li hanno presi e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono
scampato solo io che ti racconto questo". Mentr'egli ancora parlava, entrò
un altro e disse: "I tuoi figli e le tue figlie stavano mangiando e bevendo
in casa del fratello maggiore, quand'ecco un vento impetuoso si è scatenato da
oltre il deserto: ha investito e quattro lati della casa, che è rovinata sopra
i giovani e sono morti. Sono scampato solo io che ti racconto questo".
Allora Giobbe si alzò e si stracciò le vesti, si rase il capo, cadde a terra,
si prostrò e disse: "Nudo uscii dal seno di mia
madre e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia
benedetto il nome del Signore!". In tutto questo Giobbe non peccò e non
attribuì a Dio nulla di ingiusto"
(1,6-22). Come si vede, l'atteggiamento di Giobbe suscita il sospetto di Satan,
il quale invita Dio a madargli delle disgrazie per verificare se la sua fede si
manterrà. La risposta di Giobbe è un riconoscere che è giusto benedire Dio
sia quando ci dà la felicità sia quando ci manda la sofferenza (1,21).
A
questo punto, la vicenda potrebbe anche concludersi, nel senso che Giobbe ha
superato la prova. Invece, le prove non sono ancora finite. "Quando
un giorno i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore, anche Satana andò
in mezzo a loro a presentarsi al Signore. Il Signore disse a Satana: "Da
dove vieni?". Satana rispose al Signore: "Da un giro sulla terra che
ho percorsa". Il Signore disse a Satana: "Hai posto attenzione al mio
servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, teme Dio ed
è alieno dal male. Egli è ancora saldo nella sua integrità; tu mi hai spinto
contro di lui, senza ragione, per rovinarlo". Satana rispose al Signore:
"Pelle per pelle; tutto quanto ha, l'uomo è pronto a darlo per la sua
vita. Ma stendi un po' la mano e toccalo nell'osso e nella carne e vedrai come
ti benedirà in faccia!". Il Signore disse a Satana: "Eccolo nelle tue
mani! Soltanto risparmia la sua vita". Satana si allontanò dal Signore e
colpì Giobbe con una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo.
Giobbe prese un coccio per grattarsi e stava seduto in mezzo alla cenere. Allora
sua moglie gli disse: "Rimani ancora fermo nella tua integrità? Benedici
Dio e muori!". Ma egli le rispose: "Come parlerebbe una stolta tu hai
parlato! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare
il male?". In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra"
(2,1-10). Da queste parole, sembra che Giobbe, nonostante la tragedia personale,
abbia vinto la scommessa.
Tuttavia
la situazione muta: "Nel frattempo
tre amici di Giobbe erano venuti a sapere di tutte le disgrazie che si erano
abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz il Temanita,
Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita, e si accordarono per andare a condolersi
con lui e a consolarlo. Alzarono gli occhi da lontano, ma non lo riconobbero e,
dando in grida, si misero a piangere. Ognuno si stracciò le vesti e si cosparse
il capo di polvere. Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e
sette notti, e nessuno gli rivolse una parola, perché vedevano che era molto
grande il suo dolore" (2,11-13). Dopo sette giorni e sette notti,
Giobbe prende a maledire il giorno della sua nascita: "Perisca
il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: E' stato concepito un uomo!
Quel giorno sia tenebra, non lo ricerchi Dio dall'alto, né brilli mai su di
esso la luce. Lo rivendichi tenebra e morte, gli stenda sopra una nube e lo facciano spaventoso gli uragani del giorno!" (3,3ss.):
dall'accettazione alla ribellione. Il motivo di questa ribellione viene spiegato
a Giobbe dai suoi amici nella lunga serie di discorsi (capp. 4 e ss.) i quali
ruotano intorno ad un solo concetto: Giobbe, se tu soffri è perché hai
peccato! (dal momento che Dio è buono, la sofferenza è il sigillo del
peccato).
Questo
ragionamento degli amici fa arrabbiare ancora di più Giobbe. La domanda che ci
poniamo in proposito è: ha ragione Giobbe a ribellarsi? Tale domanda nasce dal
fatto che noi, a differenza di Giobbe, siamo a conoscenza dell'antefatto da cui
è scaturita la tragedia (l'intervento del Satan) e quindi possiamo
ragionevolmente dire che Giobbe ha tutte le ragioni per ribellarsi. Ma è
sufficiente questo per essere solidali con lui? Io credo di no, perché Giobbe
non può escludere di essere in qualche modo responsabile: chi può dire di
essere innocente?
A
questo punto, interviene un quarto amico, Eliu (cap. 32ss.), il quale introduce
una diversa tesi argomentativa. Si parte da una premessa, svolta con delle
domande: ti sei mai chiesto il motivo dei fenomeni naturali? Della nascita degli
esseri viventi. Allora, perché vuoi entrare nella mente di Dio e cercare di
capire perché Dio fa qualcosa? L'argomentare di Eliu mira ad introdurre una
prospettiva diversa rispetto a quella degli altri tre amici, e cioè che non
tutte le sofferenze si possono spiegare con una colpa precedente che le ha
generate, anche se ciò non mette in discussione la bontà di Dio. Noi non
possiamo sapere in base a quale criterio Dio dà a ciascuno il suo: ciò che a
noi sembra un male, per Dio può non esserlo. E' difficile argomentare in questo
modo con una persona distrutta, lacerata, in pieno momento di ribellione, ma
Eliu vuole affrontare il problema secondo un'ottica più elevata e non più così
semplicistica come quella dei tre amici. Questo è l'importante insegnamento del
libro di Giobbe: c'è anche la sofferenza che non deriva da una colpa. E' un
chiaro invito all'umiltà, non solo in chiave religiosa, ma anche in chiave
umana, esistenziale: è il tema della limitatezza umana. Gli argomenti di Eliu
fanno risvegliare Giobbe, il quale riconosce che ha fatto male ad accusare Dio.
La
conclusione del libro, infatti, ci presenta Dio che incolpa i tre amici (42,7-9)
e reintegra Giobbe nel suo primitivo stato (42,10-16). Tale conclusione ci
mostra chiaramente il tema della problematicità delle fede, che spesso è anche
ribellione.
Nell'ottica
biblica essere religiosi non significa stare sempre con la testa piegata e non
ribellarsi mai; la fede, al contrario, è spesso attraversata dal dubbio. Questa
problematica ha trovato nell'Ebraismo anche altre soluzioni, altre risposte. Una
di queste è rappresentata da una scuola di pensiero secondo la quale le
sofferenze che non possono essere spiegate secondo l'ottica umana sono
"sofferenze d'amore": Dio fa soffrire chi ama. Quando si parla di
sofferenza ci si riferisce sia alla dimensione terrena sia a quella
ultraterrena: c'è un premio e un castigo in questo mondo e un premio e un
castigo nel mondo a venire. Secondo questa dottrina, per concedere un premio
completo nel mondo eterno Dio introduce un po' di sofferenza in questo mondo,
perché la sofferenza costringe le persone a guardare alla propria fragilità e
quindi a non peccare.
Un'altra
dottrina è finalizzata a non far nascere questa problematica dolorosa che porta
alla ribellione, sulla base della costatazione che in questo mondo non c'è un
premio di felicità: se soffriamo, possiamo interrogarci sul perché di questa
sofferenza, ma non dobbiamo meravigliarci più di tanto, dal momento che il
premio non è di questo mondo.
2. A proposito della problematica relativa al giusto che soffre, il primo
libro dei Ketuvin, i Salmi, presenta
un'ottica diversa a cui accenneremo brevemente. L'autore dei Salmi sembra non
vedere la contraddizione presente invece in Giobbe: per lui, Dio protegge i
giusti e punisce i malvagi.
Cominciamo
dal Salmo 1: "Beato l'uomo che non
segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede
in compagnia degli stolti, ma si compiace della legge del Signore, la sua legge
medita giorno e notte. Sarà come un albero piantato lungo corsi d'acqua, che
darà frutto a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai, riusciranno tutte le
sue opere. Non così, non così gli empi, ma come pula che il vento disperde;
perciò non reggeranno gli empi nel giudizio, né i peccatori nell'assemblea dei
giusti. Il Signore veglia sul cammino dei
giusti, ma la via degli empi andrà in rovina". Qui si vede chiaramente
l'assoluta certezza del salmista circa il destino felice dei giusti e la
condanna per i malvagi. C'è una fede cieca e senza dubbi nella presenza e nella
bontà di Dio, una fede che mette al riparo dalla contraddizione tra ciò che si
crede e ciò che la realtà presenta. La fede del salmista è rara da vedere e
da sperimentare. Per dirla con una battuta, il libro dei Salmi è la lettura
giusta per chi non ha problemi in ordine alla propria fede. E' da notare che
nella letteratura ebraica, biblica e post-biblica, l'uomo di fede non
necessariamente è pio e santo: la santità si realizza nel superamento delle
condizione concrete dell'esistenza e, quindi, si tratta di un percorso molto
conflittuale e contraddittorio, anche a prezzo di cali di tensione spirituale.
Si pensi, per fare un solo esempio, a Mosè, il più grande di tutti i profeti:
non si può certo dire che il suo itinerario di fede sia stato lineare e privo
di incertezze. La religiosità espressa dai Salmi, invece, è talmente forte che
non riesce a vedere il conflitto: secondo questa prospettiva, infatti, non è
vero che il malvagio sta bene (1,4) e il giusto soffre, come invece di afferma
in Giobbe.
Vediamo
un altro esempio, il Salmo 92: "Come
sono grandi le tue opere, Signore, quanto profondi i tuoi pensieri! L'uomo
insensato non intende e lo stolto non capisce: se i peccatori germogliano come
l'erba e fioriscono tutti i malfattori, li attende una rovina eterna: ma tu sei
l'eccelso per sempre, Signore. Ecco, i tuoi nemici, o Signore, ecco, i tuoi
nemici periranno, saranno dispersi tutti i malfattori. Tu mi doni la forza di un
bufalo, mi cospargi di olio splendente. I miei occhi disprezzeranno i miei
nemici, e contro gli iniqui che mi assalgono i miei orecchi udranno cosa
infauste. Il giusto fiorirà come palma, crescerà come cedro del Libano; piantàti
nella casa del Signore, fioriranno negli altri del nostro Dio. Nella vecchiaia
daranno ancora frutti, saranno vegeti e rigogliosi, per annunziare quanto è
retto il Signore: mia roccia, in lui non c'è ingiustizia" (92,6-16).
Come si vede, questa è una vera e propria risposta a Giobbe! Con gli occhi
della fede, tutto ciò che appare è una realtà destinata a sparire. La
problematica di Giobbe qui non si pone; non perché non esiste, ma perché viene
relativizzata.
3. Passiamo ora al libro di Qoelet. Si tratta di un testo molto difficile
che ha causato molti problemi agli ordinatori del canone, perché si diceva che
era un libro contraddittorio e che conteneva anche espressioni eretiche. Qoelet
è lo pseudonimo di Salomone, autore anche del Cantico dei Cantici (scritto in
giovinezza) e dei Proverbi (scritto nella maturità): mentre nei primi due testi
compare il nome di Salomone, in Qoelet compare il suo pseudonimo (questo nome
deriva da qahal, assemblea, quindi qoelet
significa "predicatore").
Leggiamo
qualche verso iniziale: "Vanità
delle vanità, dice Qoelet, , vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale
utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno per cui fatica sotto il sole? Una
generazione va, una generazione viene, ma la terra rimane sempre la stessa. Il
sole sorge e il sole tramonta, si affretta verso il luogo da dove sorgerà. Il
vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana; gira e rigira e sopra i suoi
giri il vento ritorna. Tutti i fiumi vanno al mare, eppure il mare non è mai
pieno: raggiunta la loro meta, i fiumi riprendono la loro marcia. Tutte le cose
sono in travaglio e nessuno potrebbe spiegarne il motivo. Non si sazia l'occhio
di guardare né mai l'orecchio è sazio di udire. Ciò che è stato sarà e ciò
che si è fatto si rifarà; non c'è niente di nuovo sotto il sole. C'è forse
qualcosa di cui si possa dire: "Guarda, questa è una novità?".
Proprio questa è già stata nei secoli che ci hanno preceduto. Non resta più
il ricordo degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà
memoria presso coloro che verrano in seguito" (1,1-11). Che significa
vanità? Che è assurdo e inspiegabile tutto ciò che vediamo intorno a noi. Ed
è assurdo perché la realtà osservata da Qoelet ha una dimensione circolare e
quindi di essa non si riesce a trovare il bandolo. Ciò vale anche sul piano
individuale, esistenziale. E' una specie di macchina che gira, in mezzo alla
quale c'è l'uomo che rischia di essere stritolato se non si lascia trasportare
da questo movimento: l'occhio non si sazia, l'orecchio non si soddisfa, tutto si
consuma, tutto è vecchio e l'uomo non riesce ad arrivare al cuore dei problemi
dal momento che la sua esistenza è breve.
Procediamo
con la lettura: "Io, Qoelet, sono
stato re d' Israele in Gerusalemme. Mi sono proposto di ricercare e investigare
con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo. E' questa un'occupazione
penosa che Dio ha imposto agli uomini, perché in essa fatichino. Ho visto tutte
le cose che si fanno sotto il sole ed ecco tutto è vanità e un inseguire il
vento. Ciò che è storto non si può raddrizzare e quel che manca non si può
contare. Pensavo e dicevo tra me: "Ecco, io ho avuto una sapienza superiore
e più vasta di quella che ebbero quanti regnarono prima di me in Gerusalemme.
La mia mente ha curato molto la scienza e la sapienza". Ho deciso allora di
conoscere la sapienza e la scienza, come anche la stoltezza e la follia, e ho
compreso che anche questo è un inseguire il vento, perché molta sapienza,
molto danno; chi accresce il sapere, aumenta il dolore" (1,12-18).
Qoelet, che è un intellettuale, nel tentativo di capirci qualcosa, decide di
sperimentare le vie della sapienza e quelle della follia. Ma si accorge che
anche questo è uno sforzo inutile. "Io
ho detto in cuor mio: Vieni, dunque, ti voglio mettere alla prova con la gioia:
Gusta il piacere! Ma ecco, anche questo è vanità. Del riso ho detto: Follia!,
e della gioia: A che giova?. Ho voluto soddisfare il mio corpo con il vino, con
la pretesa di dedicarmi con la mente alla sapienza e di darmi alla follia, finché
non scoprissi che cosa convenga agli uomini compiere sotto il cielo, nei giorni
contati della loro vita" (2,1-3). Qui Qoelet fa un'operazione più
arrischiata perché apparentemente si dà alla follia più sfrenata, ma con la
mente lucida.
"Ho intrapreso grandi opere, mi
sono fabbricato case, mi sono piantato vigneti. Mi sono fatto parchi e giardini
e vi ho piantato alberi da frutto di ogni specie; mi sono fatto vasche, per
irrigare con l'acqua le piantagioni. Ho acquistato schiavi e schiave e altri ne
ho avuti nati in casa e ho posseduto anche armenti e greggi in gran numero più
di tutti i miei predessori in Gerusalemme. Ho accumulato anche argento e oro,
ricchezze di re e di provincie; mi sono procurato cantori e cantatatrici,
insieme con le delizie dei figli dell'uomo. Sono diventato grande, più potente
di tutti i miei predecessori in Gerusalemme, pur conservando la mia sapienza.
Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna
soddisfazione al mio cuore, che godeva d'ogni mia fatica; questa è stata la
ricompensa di tutte le mie fatiche. Ho considerato tutte le opere fatte dalle
mie mani e tutta la fatica che avevo durato a farle: ecco, tutto mi è apparso
vanità e un inseguire il vento: non c'è alcun vantaggio sotto il
sole" (2,4-11). Qoelet vuole
sperimentare i vantaggi di una vita vissuta nella spensieratezza. Ma tutta la
sua fatica non serve a nulla. "Ho
considerato poi la sapienza, la follia e la stoltezza. Che farà il successore
del re? Ciò che è già stato fatto. Mi sono accorto che il vantaggio della
sapienza sulla stoltezza è il vantaggio della luce sulle tenebre: Il saggio ha
gli occhi in fronte , ma lo stolto cammina nel buio. Ma so anche che un'unica
sorte è riservata a tutti e due. Allora ho pensato: Anche a me toccherà la
sorte dello stolto! Allora perché ho cercato di essere saggio? Dov'è il
vantaggio? E ho concluso: Anche questo è vanità. Infatti né del saggio né
dello stolto resterà un ricordo duraturo e nei giorni futuri tutto sarà
dimenticato. Allo stesso modo muoiono il sagggio e lo stolto"
(2,12-16). Qui si vede chiaramente la contradditorietà delle affermazioni di
Qoelet e questo spiega le incertezze circa l'inserimento del libro nel canone,
tanto che fu avanzata un'ipotesi interpretativa secondo la quale il testo
sarebbe il risultato della fusione di due punti di vista contrapposti: da una
parte il ragionamento del sapiente e dall'altra il ragionamento del pio, del
filosofo e del religioso. Se infatti si procede nella lettura, si trovano altre
contraddizioni. L'esegesi moderna, tuttavia, pensa ad una unitarietà del testo.
Un'altra ipotesi tende a vedere il testo come una raccolta di annotazioni della
vicenda personale di Salomone, una specie di percorso spirituale che si sviluppa
nel tempo. Qoelet è un uomo di fede che pensa e quindi si trova in difficoltà,
perché la sua fede viene messa in crisi, crisi dalla quale la sua fede viene
rafforzata, non annullata. Qoelet, alla ricerca di chiarezza, si accorge, per
così dire, che non sempre 2+2 fa 4.
Vediamo
il cap. 3. "Per ogni cosa c'è il suo
momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C'è un tempo per
nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le
piante. Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e in
tempo per costruire. Un tempo per piangere e un tempo per ridere; un tempo per
gemere e un tempo per ballare. Un tempo per gettare sassi e un tempo per
raccoglierli; un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere; un tempo per serbare e un tempo per
buttare via. Un tempo per stracciare e un tempo per cucire; un tempo per tacere
e un tempo per parlare. Un tempo per amare e un tempo per odiare; un tempo per
la guerra e un tempo per la pace" (3,1-8). Nel contesto di Qoelet
queste affermazioni vogliono rafforzare la sua costatazione di fondo, cioè che
le cose vanno indipendentemente da noi e che quindi non è possibile cambiare la
realtà. Se ciò avviene sul piano cosmologico, avviene anche sul piano etico:
se l'uomo, per così dire, prende la marea ascendente, va tutto bene, altrimenti
è spacciato, indipendentemente dai suoi sforzi.
Se
si prosegue la lettura, soprattutto la parte conclusiva, ci si accorge che lo
spettacolo desolante che Qoelet descrive è il risultato di una vita vissuta
senza una fede forte in Dio: se non si ha la certezza di essere in questo mondo
per volontà di Dio, si arriva alla conclusione che tutto è assurdo. Qoelet è
convinto che Dio sia giusto; sebbene egli non veda la giustizia in questo mondo,
è tuttavia convinto che Dio sia giusto nell'altro mondo. Ecco perché ripete
spesso "sotto il sole e sotto il
cielo", perché si rende conto che l'ingiustizia è propria del mondo
materiale, non di quello ultraterreno. La sua analisi della realtà cosmica ed
etica risulta spietata: chi è privo di fede può sentirsi stritolato da questo
meccanismo. Non bisogna però pensare che Qoelet disprezzi la vita, anzi la ama;
e infatti alla fine ci riserva un consiglio: "Conclusione del discorso, dopo che si è ascoltato ogni cosa: temi Dio e
osserva i suoi comandamenti, perché questo per l'uomo è tutto. Infatti, Dio
citerà in giudizio ogni azione, tutto ciò che è occulto, bene o male"
(12,13-14). Con queste parole Qoelet dice che l'uomo non deve e non può
scandagliare il mistero della vita, ma temere Dio ed essere certo che Dio porterà
in giudizio, nel bene e nel male, le azioni dell'uomo, anche quelle nascoste. Ed
è proprio questa conclusione che giocò favorevolmente per l'accoglimento del
libro nel canone biblico.
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