Raccontano
alcuni midrashim che, quando il
compilatore della Mishnà, rabbì
Jehudà il Principe, giunse a morte, il popolo, che lo considerava il maggiore
esponente dell'ebraismo della sua epoca, voleva erigere un monumento che lo
ricordasse degnamente. I suoi discepoli, però, si opposero: "Il suo
monumento esiste già: è la Mishnà!".
Ho
citato questo aneddoto per dire che non parleremo direttamente dei maestri del
Talmud, ma dei loro insegnamenti. Anche perché l'espressione "maestri del
Talmud" può dare adito a qualche dubbio: agli occhi a gli orecchi di
molti, il Talmud è totalmente sconosciuto. Basti dire che, quando il Talmud era
appena stato terminato, un frate polemista cristiano per argomentare qualcosa
contro l'ebraismo non trovò di meglio che citare un detto del Talmud, premesso
da questa frase: "...sicut rabbinus Talmud dicebat...". Questo buon frate, probabilmente,
pensava che i maestri del Talmud fossero i discepoli di un certo signore che si
chiamava Talmud, ignorando che il termine Talmud significa "studio".
Ma anche quando i cristiani si accorsero che non era un rabbino, bensì qualcosa
di ben più ampio, il Talmud continuò a suscitare sospetti e dubbi.
In
proposito, vorrei citare un episodio autobiografico. Durante l'ultima guerra,
mio nonno, con la sua famiglia, lasciata Verona (dov'era rabbino capo), si
rifugiò a Milano, in attesa di trasferirsi in Svizzera. Sotto falso nome, riuscì
a farsi assegnare un piccolo appartamento all'interno di una casa padronale di
proprietà di un gerarca fascista. Durante le serate invernali mio nonno e il
signor Brunelli (così si chiamava) si ritrovavano spesso a discutere della
situazione politica. L'argomento preferito del signor Brunelli era questo:
"Noi siamo qui a soffrire, ma sapete di chi è la colpa? Degli ebrei! Voi
credete che nelle sinagoghe si radunino a pregare? No, loro si radunano per
vedere quale cristiano possano eliminare. D'altro canto nel loro Tàlmud (sic!)
si dice che è un'opera meritoria rovinare i cristiani. Ma a me non la fanno,
perché, sapete, io li riconosco a distanza!". Beh, ne aveva cinque in
casa... Un altro episodio è capitato a mio padre: parlando con un autore di
teatro a cui la polizia aveva interrotto la rappresentazione accusata di oscenità,
si sentì dire che la colpa era degli ebrei. "Perché -diceva- io conosco
bene il loro Tàlmud!". "Ah sì? -rispose mio padre- lei conosce il
Talmud?". "Certo, lo porto sempre in tasca. L'ho rubato dalla
scrivania del rabbino Shaumann!". Questo signore, evidentemente, ignorava
che il Talmud è formato da venti volumi: portarlo in tasca mi sembra impresa
piuttosto difficile...
Il
Talmud, in effetti, è un mare magnum: è un insieme di detti, di insegnamenti, di commenti,
di regole, un insieme in parte senza ordine, scritto e composto dai rabbini nel
corso di un arco di tempo che va dal II secolo prima dell'era volgare al V
d.e.v.. Forse è stata proprio questa sua astoricità e metastoricità a
suscitare paure, sospetti e anche qualche censura. C'è una pagina, una sola su
migliaia e migliaia di pagina, che la Chiesa -giustamente dal suo punto di
vista- ha fatto togliere: si tratta di un passo del trattato di Sanhedrim (cfr. sotto) in cui si parla di un certo Gesù di Nazaret,
accusato di idolatria, per mostrare come la sua condanna sia stata sacrosanta.
In proposito dirò soltanto che, all'epoca di Gesù, il Sinedrio non comminava
più condanne a morte e che questa pagina fa parte di una letteratura di
polemica anticristiana in risposta alla polemica antiebraica.
Il
Talmud si basa, vive e si nutre della Tora orale, la Tora
she-be-al-pe (cfr. la relazione di
P. DE BENEDETTI, supra). Un
insegnamento molto antico che viene ripetuto a volte durante un certo cicli
liturgico afferma che Mosè ricevette la Tora dal Sinai, la trasmise a Giosuè e
Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti e i profeti agli uomini della
grande assemblea. Si pensa comunemente che si tratti del Pentateuco (i cinque
libri di Mosè): ma questa è la Tora scritta, che è stata data a tutto il
popolo. Quando si parla, per esempio, della costruzione del santuario mobile,
nella Torà scritta Dio dà l'ordine di predisporre vari arredi, descrivendoli
piuttosto sommariamente. A Bezaleel, incaricato di costruirlo, Dio dice:
"Guarda e fai come ti è stato mostrato sul monte", cioè sul Sinai,
nel corso dei famosi quaranta giorni e quaranta notti in cui Dio trasmette a Mosè
i suoi insegnamenti. Un altro esempio lo si può riscontrare in Dt 12,21:
"Macellerai dal tuo bestiame e dal tuo gregge che Dio ti ha dato, come ti
ho comandato". Ora, se noi analizziamo lettera per lettera tutto il testo
della Tora, non troviamo nessuna indicazione su come macellare il bestiame, il
che presuppone l'esistenza coeva della tradizione orale (checché ne dicano
molti studiosi moderni, i quali sostengono che si tratti di belle invenzioni dei
rabbini allo scopo di imporre il loro potere).
Ci
sono riprove che ci fu una rivolta all'interno dell'accademia, quando il capo
dell'accademia Rabban Gamaliel volle porre una specie di numero chiuso per
accedere all'accademia: Rabban Gamaliel venne buttato fuori e l'accademia
occupata dagli studenti. Solo dopo che Rabban Gamaliel chiese scusa al suo
antagonista e dopo che costui proclamò di aver perdonato Gamaliel, gli vennero
riaperte le porte, perché l'insegnamento della Tora
she-be-al-pè è per tutti. Quella che Mosè ha trasmesso a Giosuè, Giosuè
agli anziani, gli anziani ai profeti e i profeti agli uomini della grande
assemblea non è la Torà orale, ma i metodi interpretativi della Torà orale,
creando così, in pratica, il presupposto dell'autorità dei rabbini, di coloro
cioè che non soltanto ricevevano la tradizione orale, ma dimostravano anche di
possederla compiutamente, di averla capita e assimilata, così da attenere una
investitura ufficiale.
Senonché,
al tempo dell'imperatore Adriano, i Romani vietano lo studio della Torà. Di
fronte al rischio della chiusura delle accademie e della dispersione della
tradizione (la trasmissione orale dell'investitura), Rabbì Jehudà il Principe
(così chiamato in quando discendente, oltre che di Davide, del più famoso
maestro dell'ebraismo, Hillel, contemporaneo di Gesù) decide di mettere per
scritto non la Torà orale, ma le discussioni dei maestri per ristabilire
l'insegnamento originario della Torà orale, dal momento che, a furia di
trasmissioni orali e del proliferare di accademie, si erano create delle
divergenze di trasmissione. Ora, ristabilire l'unità era importante, dal
momento che l'insegnamento doveva essere uno solo: Dio non poteva aver dato
tanti insegnamenti che si contraddicevano tra loro. Bisognava, quindi, poter
ricondurre tutto all'unità e, dove ciò non fosse stato possibile, cercare di
caprine il motivo, visto che non si trattava di divergenze di opinioni, ma di
una casistica molto articolata.
Nasce
così la Mishnà. Il termine, di
origine aramaica, significa "ripetizione", ma anche
"insegnamento". La radice mshn
indica qualcosa di inferiore rispetto al testo biblico che viene rivelato. Nella
Mishnà per la prima volta vengono
esposti alcuni dei principi ermeneutici, fissati nella Halakhà (da non confondere con la Haggadà, cioè l'indagine narrativa, l'esame di alcuni dettagli
testuali che consentissero di ricavare, per così dire, il retrogusto del
testo). Cosa succede, per esempio, quando un insegnamento viene riferito in modo
diverso da varie fonti? Nelle accademie vigeva un principio, che noi chiameremmo
democratico, secondo il quale prevaleva il parere della maggioranza. Tuttavia,
più che dalll'amore per la democrazia, questo principio trovava il suo
fondamento su di un versetto di Esodo: "Non seguirai la maggioranza nel
dare del male; non ergerti in una lite per far piegare la decisione a favore
della maggioranza" (23,2). La frase è poco chiara e ci sono varie
interpretazioni. Una di queste dice che, laddove c'è una divergenza di
opinioni, si segue quella della maggioranza: se infatti così ricorda un maggior
numero di persone, è più probabile che sia quella giusta. La Mishnà
fa in modo che la Torà orale diventi, per così dire, la bussola per la
vita dell'ebreo.
Ci
sono anche regole su cui non c'è discussione; esse vengono definite halakà
le-Moshè mi-Sinai, "la norma data a Mosè sul Sinai". Ciò che
non significa necessariamente che sia stata a Mosè sul Sinai, ma piuttosto che
ha ottenuto una unanimità di consensi così ampia da avere lo stesso valore di
una norme data sul Sinai. In proposito, vorrei portare due esempi di halakà le-Moshè mi-Sinai. Il primo riguarda la ben nota
proibizione di svolgere di sabato qualsiasi melakà
("lavoro", Es 20,8-11), a cui fanno seguito queste parole: "Mosè
radunò tutta la congrega dei figli di Israele e disse loro: Queste sono le cose
che il Signore ha comandato di fare: per sei giorni sarà fatta la melakà,
ma il settimo giorno sarà per voi consacrato, sabato di cessazione per il
Signore; chiunque faccia in essa una melakà
sarà passibile di morte e non accendete un fuoco in tutte le vostre abitazioni
nel giorno dello shabbàt".
Seguono poi le istruzioni per la costruzione del santuario (Es 31,1ss.). Tutti i
maestri della Mishnà, unanimemente,
concordano nel dire che i lavori da evitare di sabato sono del tipo di quelli
svolti per la costruzione del santuario; vengono studiati ed elencati in numero
di 39. Nessuno dei maestri contesta questo elenco e quindi nel Talmud si dice:
"le 39 melakòt sono halakà
le-Moshè mi-Sinai".
Il
secondo esempio riguarda lo Shemà Israel (quello che è considerato il Credo dell'ebraismo), il
quale viene recitato mattina e sera: in esso è ben chiaro il concetto dell'unità
e unicità di Dio e quindi l'obbligo di servirlo. Tra i vari precetti relativi
allo Shemà si dice: "Queste
parole che io ti comando oggi siano sopra il tuo cuore, ecc., le legherai come
segno sulla tua mano e saranno come frontale in mezzo ai tuoi occhi". Ora,
io sfido chiunque a spiegarmi come si possano prendere delle parole comandate da
Dio e legarle alla mano o per frontale. Qui interviene la tradizione orale che
fissa il precetto dei tephillìn (l'origne
semantica di questo termine indica una specie di talismano): si tratta di due
capsule di cuoio di forma cubica, con un basamento fornito di un passante,
attraverso il quale scorre una cinghia di cuoio, il tutto tinto di nero nella
parte superiore. Le due capsule differiscono tra loro: una possiede un'unica
cavità interna, mentre l'altra è suddivisa in quattro cavità, individuabili
anche dall'esterno; nella prima si inserisce un rotolino di pergamena che
contiene i quattro brani della Torà in cui compare il precetto dei tephillìn,
nella seconda, invece, gli stessi quattro brani vengono inseriti nelle quattro
cavità. La capsula con un'unica cavità viene legata sull'avambraccio, sul dito
medio e sulla mano tramite la cinghia di cuoio, mentre l'altra viene legata alla
fronte, in modo che la linea mediana venga a cadere in mezzo agli occhi, con una
cinghia che avvolge il capo. La forma delle capsule,
il fatto stesso che ci debbano essere delle capsule, la loro forma, il
colore, la cinghia, i brani da
metter dentro (quattro), l'ordine in cui vengono inseriti: tutto ciò è stato
stabilito dalla Torà orale e nessuno, almeno fino all'epoca della riforma
canaita, ha mai contestato questi precetti, i quali, perciò, sono diventati halakà
le-Moshè mi-Sinai. Logicamente poi non sarà la Torà orale, ma le
spiegazioni dei rabbini a giustificare il valore e il senso di ognuna di queste
regole. A questo proposito è interessante notare che il braccio rappresenta
l'azione e la capsula viene legata sul braccio sinistro, il lato del cuore, ad
indicare i sentimenti, mentre la capsula fissata sulla testa rappresenta il
collegamento con il pensiero e i sentimenti. Se poi ci si chiede perché viene
fissata al braccio la capsula con una sola cavità e alla testa quella con
quattro cavità, la risposta è che l'azione deve essere unitaria, mentre la
mente funziona secondo diverse categorie logiche. Questi sono i significati più
semplici; non mi soffermo sui significati mistici, anche perché non li conosco
bene.
Con
il passar del tempo, la Mishnà, da patrimonio da conoscere a memoria e da trasmettere da
maestro a maestro, generazione dopo generazione, subì un processo di
laicizzazione per effetto del quale divenne un testo scritto che chiunque poteva
leggere e conoscere. In seguito, poi, alla diaspora, gli Ebrei si trovarono
dispersi, chi in Babilonia chi nel vasto impero romano, ma la Mishnà
continua ad essere studiata. Ci si accorge che esistevano degli insegnamenti
al di fuori della Mishnà, i quali
dovevano essere armonizzati con il testo della
Mishnà, compito che venne assunto dagli studenti delle accademie. Di fronte
al pericolo di chiusura delle accademie, si decise di raccogliere gli appunti di
questi allievi che riportavano gli insegnamenti dei vari maestri. Nascono così
le ghemaròt (ghemarà, termine aramaico, significa "studio"). Mishnà
e ghemarà insieme formano il Talmud, del quale abbiamo due redazioni:
quello di Gerusalemme (anche se con Gerusalemme non aveva niente a che fare dal
momento che le accademie non c'erano più, ma si trovavano a Yarne, a Tiberiade
e a Zippori) e quello di Babilonia, nato dalla armonizzazione degli studi delle
due maggiori accademie di Babilonia, quella di Sura e quella di Pumbedita.
In
questa raccolta di discussioni e di insegnamenti vengono applicati nuovamente
quei criteri ermeneutici che sino a quell'epoca venivano trasmessi oralmente. Ma
è all'epoca del Talmud di Gerusalemme che si trova un appunto di un maestro
delle generazioni precedenti, rabbì Ishmael, il quale, elencando i vari criteri
ermeneutici, dice: "La Torà (e a questo punto non ci interessa più se
orale o scritta, dal momento che è un tutt'uno) si interpreta secondo tredici
regole". C'è in questa espressione un chiaro riferimento ai tredici
attributi di Dio. Le tredici regole sono:
1)
"per ragionamento a fortiori".
Per spiegarla facciamo un esempio: l'inadempienza del sacrificio quotidiano nel
santuario non comporta la massima pena divina, il kareth (per effetto della quale l'anima, dopo la morte, non godrà
mai della conoscenza divina), che ricade su chi non ha compiuto il sacrificio
pasquale; il sacrificio quotidiano, anche se contemplava azioni che normalmente
sarebbero vietate di sabato, veniva offerto anche di sabato, tanto più quando
il giorno dell'offerta del sacrifcio pasquale cade di sabato.
2)
"per espressione uguale". A
proposito di chi abbia fatto morire una donna incinta, colpendola
involontariamente, la Torà dice: "Darai vita per vita", espressione
che potrebbe indicare la condanna a morte del colpevole; ma poche righe sopra si
dice che, se la donna non muore, il colpevole deve pagare e "dare secondo
quanto stabiliscono i giudici": è evidente che qui "dare"
significa pagare. Dato che viene usata la stessa espressione anche per il caso
in cui la donna muoia, si tratta anche in quel caso del pagamento di un'ammenda
e non di una dondanna a morte.
3)
"per edificio base poggiante su di un
versetto o due versetti". A proposito della solenne festa di Pésach
si prescrive che è consentito svolgere i lavori necessari per la preparazione
dei cibi: il versetto che stabilisce ciò è un "edificio base" per
tutti i giorni di festa solenne, per i quali si applica il permesso di preparare
cibi.
Le
altre regole mi limiterò a menzionarle:
4)
"per espressione generica ed
espressione particolare".
5)
"per espressione particolare ed
espressione generica".
6)
"per espressione generica,
espressione particolare ed espressione generica: non puoi applicarla altro
che a ciò che è analogo all'espressione particolare".
7)
"per espressione generica che ha
bisogno di una particolare ed espressione particolare che ha bisognodi una
generica".
8)
"ogni cosa che era compresa in
un'espressione generica e si è staccata ad essa per insegnare, non se ne è
staccata per insegnare solo a proposito di se stessa, ma se ne è staccata per
insegnare a proposito di tutta l'espressione generica".
9)
"ogni cosa, che era compresa in
un'espressione generica e se ne è staccata per portare un altro elemento di un
altro tipo, se ne è staccata per facilitare e non per aggravare".
10)
"ogni cosa che era compresa in un
espressione generica e se ne è staccata per portarci un altro elemento di tipo
diverso, se ne è staccata per facilitare e per aggravare".
11)
"ogni cosa, che era compresa in una
regola generica e si è staccata da essa per essere sottoposta ad una norma
nuova, non puoi farla tornare alla regola generica, a meno che il testo non ve
la faccia ritornare esplicitamente".
12)
"una cosa che si impari dal suo
argomento ed una cosa che si impari dalla sua fine".
13)
"due versetti che si smentiscono fino
a che venga un terzo e decida tra di essi".
Tutti
questi esempi danno l'idea dell'enorme attenzione di voler applicare meglio
possibile e il più possibile la volontà divina. Del resto, lo scopo della Torà
orale è di insegnare come fare e, insegnando come fare, insegnare anche perché
fare. Il fatto che ancora oggi, attraverso queste tredici regole, si arrivi a
stabilire delle regole per risolvere problemi quotidiani significa non soltanto
un particolare legame del popolo ebraico con una logica, per così dire,
spacca-capello (e, una volta spaccato, lo si divide ancora), ma anche la grande
vitalità della Torà orale e, direi anche, la strenua volontà di continuare a
vivere secondo la volontà divina.
E
vediamo ora com'è strutturato il Talmud. In ebraico esso viene definito anche shash;
si tratta, in realtà, di una sigla per shishà
zedarìm, che significa "sei ordini". Il Talmud infatti è formato
da sei ordini, ognuno dei quali tratta un certo gruppo di argomenti.
a)
Il primo ordine, quello di Zeraìm (sementi), riguarda soprattutto questioni agricole, relative
ai prodotti di Israele. Incidentalmente esso contiene anche un trattato (il
primo) di berakhòt (le benedizioni ),
che riguarda le preghiere. Il secondo trattato è quello di pe'ah (l'angolo del campo): nella Bibbia è indicato un precetto,
secondo il quale, quando si miete un campo, bisogna lasciarne un angolo non
mietuto cosicché i poveri possano usufruirne senza sentirtsi umiliati
dall'andare a chiedere la carità; in questo secondo trattato ci sono regole
relative al léqet (la spigolatura) e
alla tzedakà (l'elemosina, anche se
il concetto è più ampio: dare la possibilità a qualcuno di ritornare un
possesso di ciò che ha perso, quindi si tratta più di una giusta
redistribuzione che non di un'elemosina). Il terzo trattato (Dammài,
letteralmente "questo cos'è?") si sofferma a definire le regole a
proposito di quei prodotti che non si sa se sono stati sottoposti alle
prelevazioni destinate come contribuzione per i leviti oppure no. Il quarto
trattato (Kilàyim, mescolanze)
riguarda le regole relative al divieto di mescolare sementi e radici troppe
vicine l'una all'altra. Il quinto (Shevi'it)
sull'anno sabbatico, cioè il fatto che i terreni dovevano tornare agli antichi
proprietari, non potevano essere lavorati oppure entro che limiti potevano
essere lavorati. Terumòt (il quinto
trattato), tratta delle offerte dei prodotti dei campi per i sacerdoti, cioè i
discendenti di Aronne che si occupavano del culto nel santuario. Ma'aserot
(sesto trattato) riguarda le decime; la Tora prescrive diversi tipi di decima:
c'è la prima decima che va al levita, la seconda che doveva essere goduta dal
proprietario, ma solo a Gerusalemme. Nel ciclo settennale della vita agricola,
per quattro volte esisteva la seconda decima, mentre per tre volte essa deve
essere lasciata ai poveri. Il settimo trattato (Challah)
riguarda la preparazione dell'impasto, in base alla quale una parte di esso
doveva essere lasciato per i sacerdoti. L'ottavo si chiama Orlah, che significa "prepuzio": non ci si riferisce al
precetto della circoncisione, bensì al precetto di non consumare i frutti dei
primi tre anni di produzione dell'albero. Bikkurim
(nono trattato) riguarda le primizie da portare al santuario. I trattati di
questo primo ordine sono molto approfonditi nel Talmud di Gerusalemme e per
nulla in quello Babilonese (tranne quello relativo alle benedizioni): si tratta
infatti di regole che sono applicabile solo a Gerusalemme.
b)
Il secondo ordine è quello di Moèd (ricorrenza) e comprende trattati legati alle varie ricorrenze
annuali, tra le quali la più importante è quella di shabbàt (il sabato), a cui è dedicato il primo trattato. Il
secondo trattato (Eruvìn,
collegamenti) riguarda un aspetto del sabato, cioè il divieto di trasportare da
una proprietà pubblica ad una privata e viceversa. Il terzo trattato (Pessachìm)
è sulla Pasqua e in particolare sul sacrificio pasquale. Il quarto, quello di Sheqalìm (sicli), si sofferma sul precetto della Tora secondo il
quale ogni anno gli uomini sopra i vent'anni dovevano pagare mezzo siclo al
santuario (soldi con cui venivano acquistati gli animali per i sacrifici
annuali): si trattano quindi tutti gli aspetti amministrativi della vita del
santuario. Il quinto parla di Yomà,
cioè del giorno per eccellenza, quello di Qippur,
soffermandosi non solo sul giorno in sé, ma anche sul concetto stesso di
"espiazione" e il periodo penitenziale. Sukkah (la capanna) è il sesto trattato: tratta dei precetti
relativi alla festa delle capanne. Il sesto trattato si chiama Betzah
(l'uovo), ma viene anche denominato Yom
Tov (il giorno solenne) : si sofferma sulle regole circa le azioni
vietate o permesse nei giorni festivi. Si chiama Betzah perché la prima parola della prima Mishnà con cui si apre
il trattato è "betzah shenoldà
be yom tov", cioé "se un uovo viene deposto in un giorno di festa
solenne lo si può mangiare oppure no?", e da questo interrogativo comincia
la discussione. Il settimo trattato si riferisce al Rosh
Hashanah, il Capodanno, ma in esso si parla anche delle regole per la
fissazione del capo-mese (ai tempi del Talmud infatti il calendario non era
ancora definito e quindi le varie ricorrenze venivano fissate in base alle fasi
lunari). L'ottavo trattato (Ta'anit, i
digiuni), più che dei digiuni pubblici fissati già dai profeti, parla delle
regole relative a digiuni eccezionali che i maestri possono fissare in caso di
calamità o pericoli. Meghillah (il
rotolo) approfondisce le regole del libro di Ester e quindi della festa di Purim
che ad esso è collegata; incidentalmente si parla anche delle regole di lettura
del rotolo della Tora. Il decimo trattato (Moèd
Katàn, ricorrenze piccole) si sofferma sulle regole dei giorni intermedi
alle feste (le mezze feste) in cui vengono consentite più azioni che non nei
giorni di festa solenne. Si tratta anche di alcune regole dell'anno sabbatico,
con particolare riferimento alla remissione dei debiti, alla liberazione dei
servitori, ecc. Nell'undicesimo trattato, quello di Chagigah (offerte festive), si parla delle regole per il
pellegrinaggio a Gerusalemme in occasione delle feste maggiori (Pasqua,
Pentecoste, Capanne).Oltre a ciò ci sono anche ampie trattazioni di argomento
mistico, in particolare la visione del carro della gloria divina da parte di
Ezechiele. Questo secondo ordine (come del resto la maggior parte degli altri
ordini) è più approfondito nel Talmud babilonese.
c)
Il terzo ordine, chiamato Nashim (donne), tratta questioni matrimoniali e argomenti affini. Il
primo trattato è Yevamòt (le
cognate): si sofferma sulle regole relative alla ben nota legge del levirato e
per analogia tutti i casi di unioni matrimoniali vietati. Ketubbòt è il trattato sui contratti nuziali: il matromonio
comporta un trattato nuziale in cui lo sposo si assume diversi impegni, che
vengono qui discussi. Il terzo trattato (Nedarìm,
i voti) di per sé non ha niente a che vedere con questioni matrimoniali;
tuttavia, siccome nei matrimoni ci sono dei voti che il marito può far
annullare, esso rientra in questo ambito. Anche il quarto trattato (Nazir,
il Nazireo) sembra non aver niente a che fare con il matrimonio: il nazireo è
colui che si assume degli impegni di carattere ascetico, non previsti dalla
normativa (per esempio, l'astensione dal vino oppure dal contatto con i morti,
che sono considerati la massima forma di impurità rituale) e che, una volta
terminato questo periodo di ascesi, deve portare un sacrificio di espiazione
perché astenersi da cose permesse è considerato una cosa negativa. Il trattato
di Sotàh (letteralmente "sospettata") riguarda una regola
molto discussa e molto contestata (a torto): nella Tora si dice che se una donna
viene sospettata di adulterio dal marito, viene poratata al santuario, il
sacerdote riceve un'offerta dalla donna, la spettina, le strappa il vestito su
una spalla e le dice: "Se non hai fatto niente di male, non ti succede
nulla; se invece hai commesso qualcosa di male, diventerai uno sgorbio. Scrive
poi i versetti della Tora relativi a questo precetto su una pergamena, lascia
che l'inchiostro si asciughi, raschia l'inchiostro in modo che ne esca una
polverina, la mescola ad acqua con un po' di terra del santuario e poi gliela fa
bere. Non si tratta di una forma di magia: la Torà ne parla per invitare il
marito a risolvere pacificamente le controversie matrimoniali. Il trattato di Ghittin
(documenti di divorzio) tratta di tutti i casi di divorzio e le varie procedure
per la redazione degli altri documenti legali. Ad esso segue il trattato di Kiddushin, relativo ai matrimoni. Ci si chiede perché sia stato
messo per ultimo. Un battuta che circola spesso nelle accademie di studio, a
proposito del fatto che il trattato dei divorzi precede quello dei matrimoni, è:
perché Dio prevede prima la medicina e poi la malattia!
d)
Il quarto ordine (Nezikìm, danni) si occupa di questioni legali. I primi tre trattati
sono Bavà Kammà (prima porta),
Bavà Metzià (porta di mezzo) e Bavà
Batrà (porta ultima): si occupano di leggi civili, economiche, danni alle
proprietà, passaggi di proprietà, ecc. Fa seguito il trattato di Senhedrìn
(sinedrio) sulla composizione delle corti nei tribunali e sulle punizioni
decretate dai tribunali circa le varie colpe. Un capitolo ampio di questo
trattato discute di argomenti di carattere morale, cioè i principi di fede e le
questioni relative al mondo a venire; esso comincia con le parole: "tutti
gli Ebrei hanno una parte nel mondo a venire....questi invece sono quelli che
non hanno parte al mondo a venire", e la prima categoria comprende coloro
che dicono di non credere nell'al di là. Il trattato di Makkòt (percosse) è la continuazione logica di quello precedente
perché tratta della fustigazione e delle sue modalità. La Tora dice che il
numero massimo di frustate è 40 e che non bisogna aumentare,
a discrezione del medico che assiste alla fustigazione. Si parla anche dei
precetti relativi alle città di rifugio nei casi di omicidio involontario o
preterintenzionale. Il sesto trattato, Shevuòt,
si riferisce ai giuramenti: nella concezione ebraica chi giura lo fa chiamando
sempre Dio come testimone, e quindi è meglio non giurare oppure farlo solo nei
casi previsti. Il settimo trattato, Eduiòth,
si sofferma sulle testimonianze: come vanno ascoltate, quando sono da ritenersi
valide, e via dicendo. Segue il trattato di Avodàh
Zaràh, relativo al culto straniero o idolatrico: vengono analizzati tutti i
tipi conosciuti di idolatria allo scopo di saper conoscere qualunque deviazione
ed eventualmente correre ai ripari; si parla anche di alcune regole relative ai
cibi permessi, perché qualunque cibo che possa essere considerato idolatrico
non può essere consumato. A questo punto si inserisce un trattato (Avot,
i Padri), molto noto perché letto nel periodo di
Pésach e nei sabati che precedono la festa di Pentecoste, che non ha nulla
a che vedere con questioni legali: sono cinque capitoli che trattano
l'atteggiamento da assumere nello studio della Torah e dei rapporti tra maestri
e allievi. E' inserito nell'ordine di Nezikìm
perché è un'introduzione al trattato successivo, Horayòt
(decisioni), relativo alle decisioni prese autonomamente dai rabbini in base
all'autorità che deriva loro dalla Torah, ma non su materia già trattata dalla
Torah stessa. Nel trattato di Avot si dice che uno dei modi migliori per
conoscere la Torah è di frequentare i maestri: è una chiara introduzione
all'idea che i rabbini hanno un'autorità particolare nell'interpetazione della
Torah.
e)
Il quinto ordine (Kodashìm, "cose sacre") di per sé tratta di sacrifici e
di regole relative al santuario, tranne uno dei trattati, quello di Chullìn,
"cose profane", che riguarda le regole alimentari, la macellazione, le
mescolanze di cibi, come preparare la carne, ecc.: le modalità di macellazione
sono infatti analoghe a quelle dei sacrifici. Tralascio l'analisi dei singoli
trattati di quest'ordine perché si tratta di questioni molto tecniche relative
al santuario.
f)
Più interessante è il sesto ordine (Teharòt,
cose pure) che riguarda tutte le regole di purità e impurità rituale. Di
quest'ordine c'è solo un trattato che viene approfondito nel Talmud babilonese,
quello di Niddàh, relativo alle regole relative al ciclo mestruale e alla
purità familiare.
Oltre
a questi sei ordini, fanno spesso parte delle edizioni del Talmud i Masseròth
Qetannòt, i piccoli trattati: sono brevissimi trattati di epoca tardiva
(che non fanno parte della Mishna) ma
comunque precedenti alla redazione del Talmud (seguono infatti lo stile della
Mishna, ma non quello del Talmud). Fra essi c'è, per esempio, un
ampliamento del trattato di Avot. C'è un trattato sulle regole per scrivere il rotolo della
Torah. Uno, chiamato Semakòt
("avvenimenti lieti"), che tratta delle regole per i lutti (sic!). Può
sembrare strana questa contraddizione di termini, ma è tipico dei maestri non
usare parole troppo spiacevoli: il cieco è chiamato "il troppo
illuminato", le punizioni che hanno colpito il popolo ebraico hanno punito
"i nemici di Israele", il lutto si chiama "avvenimento
lieto". C'è poi il Trattato della sposa relativo al comportamento di
riservatezza e di modestia tipico delle donne sposate. Il Trattato di dérek
eretz (la via della terra) sui comportamenti corretti in società.
Ora,
per avere un'idea più precisa, vediamo com'è strutturata una pagina tipo del
Talmud: si tratta del foglio n.2 del trattato di berakhòt,
appartenente all'ordine di Zeraìm.
In
alto c'è un'intestazione divisa in tre parti: titolo del capitolo (di solito
preso dalle prime parole del capitolo stesso: nel nostro caso Me'ematài),
numero del capitolo (I capitolo), titolo del trattato (nel nostro caso, berakhòt).
A sinistra, una lettera indica la numerazione dei fogli: il Talmud viene
numerato non a colonne, ma a fogli (faccio notare che il foglio n.1 non c'è
mai, perché tutto ciò che precede la Torà
she-be-al-pe, cioè un corretto comportamento sociale, è il vero foglio n.1),
per cui si dirà: foglio n.2, lato A o lato B. Al centro del foglio c'è un
testo scritto in carattere quadrato: esso comprende la
Mishnà e la Ghemarà. Sul lato
destro, in caratteri più piccoli, c'è il commento di Rashì, sigla per rabbì
Shelomòh Itzaqì, un rabbino francese vissuto a cavallo tra il XI e il XII
secolo: senza di lui, il 90% del Talmud sarebbe incomprensibile. Sul lato
opposto ci sono le Tossafòt, le
glosse, composte dagli allievi e, in particolare, dai nipoti di Rashì: sono
glosse sia al testo del Talmud sia al commento di Rashì, con il quale a volte
sono in disaccordo. Sulla destra del commento di Rashì, in alto, c'è scritto
in piccolo masoret ashas, cioè
"la tradizione del Talmud": vengono riportate le citazioni di passi
che, presenti nel Talmud, si trovano però anche in altri testi. Al di sotto, ci
sono le glosse del Bah (sigla per
bai addash, "casa nuova"): si tratta del
commento di un rabbino polacco del Seicento. Sul lato opposto, in alto,
ci sono indicazioni su dove ritrovare nei codici normativi successivi le regole
qui riportate. Poco sotto, c'è il testo di rav Nissis Gaòn, uno studioso di
Aleppo del XV sec.: spiega più diffusamente i concetti trattati nelle Tossafòt.
Nella parte più bassa c'è il ghilaiòn
ashas, il "margine del Talmud": è simile al masoret ashas, cioè un repertorio su dove trovare i passi analoghi,
con la differenza che qui vi è la citazione completa. Infine, tra il testo del
Talmud e i vari commenti, c'è qualche lettera, che serve ad indicare le
citazioni bibliche presenti nel testo (libro e capitolo).
Questa
è, come si diceva una pagina-tipo, ma dopo il testo del Talmud ci sono altri
commenti e glosse. Nella maggior parte delle edizioni si trova una raccolta che
si chiama Pisqé Tossafòt, riassunto
delle decisioni normative messe in luce dalle tossafòt.
Poi ci sono le hilkòt harosh, il
commento del rabbino Hasher, un tedesco del XIII-XIV secolo, trasferitosi in
Spagna, che ha commentato tutto il materiale talmudico per ricavare normative
circa problemi nuovi (è un primo esempio di "letteratura dei
responsi"). In alcune edizioni compare anche un riassunto di queste
decisioni del Rosh, scritto dal figlio di Hasher. Nei trattati in cui c'è solo
la Mishna compare il commento alla Mishna
del Maimonide, commento molto ampio. Nella maggior parte delle edizioni c'è il Maharashal,
sigla per rabbì Mohrenu Harav Shelomoh Luria, un rabbino polacco del XVI sec
che si occcupa di emendamenti testuali del Talmud, ma anche di commenti di tipo
midrashico al testo, in particolare sulle parti haggadiche. C'è poi il Maharshah, sigla per rabbì Shemuel Eliezer Eidels, rabbino
anch'egli polacco (XVI-XVII), un testo che si divide in due parti:
"innovazioni normative" e "innovazioni haggadiche". In molte
edizioni c'è il Maharàm di Lublino:
si punta molto sul metodo di studio del Talmud. Tra i testi più importanti ci
sono: il Rif, rabbì Itzak Fassi (XI
sec.: Fassi significa di Fez), il quale ha riassunto tutto il Talmud, eliminando
tutte le discussioni che non miravano a stabilire una norma; il Ran,
rabbì Missin ben Ereuven di Gerona (Spagna), è il commentatore principale del
Rif; il Mordekài, rabbì Mordekài ben Hillel Ashkenatzì (XIII sec) che
amplia le regole del Rif cercando di armonizzarle con le regole del Talmud. La
maggior parte di questi testi è scritta in aramaico.
Leggiamo
ora un po' di testo di Me'ematài, così a titolo puramente indicativo. La prima domanda
che ci si pone è: "Da quando si legge lo Shemà alla sera?". La
risposta è: "Dall'ora in cui i sacerdoti entrano a mangiare la loro
prelevazione e fino alla fine della prima veglia secondo rabbì Eliezer; i
sapienti dicono fino a mezzanotte e rabban Gamaliel sostiene fino a che sorge
l'alba". Segue poi un episodio in cui si racconta che i figli di rabban
Gamaliel sono tornati tardi, gli hanno chiesto com'era la regola, e via dicendo.
Vediamo adesso la ghemarà: "Su
cosa si basa il maestro della Mishna
per spiegare il Me'ematài? Inoltre,
perché tratta per primo lo Shemà della sera e non quello della mattina?".
La riposta è: "Il maestro della Mishna
si basa su un testo biblico dov'è scritto (Dt 6) nel
tuo coricarti e nel tuo alzarti". Se ne ricava che: 1) c'è un testo
della Tora che prescrive lo Shemà; 2) è scritto nel coricarti prima di
nell'alzarti, quindi lo Shemà della sera viene prima di quello dellla mattina.
"E così ci insegna: l'ora della lettura dello Shemà del coricarsi quand'è?
Dall'ora in cui i sacerdoti entrano a mangiare le loro prelevazioni. O, se vuoi,
lo ricava dalla creazione del mondo: è scritto: e fu sera e fu mattina: primo giorno (quando nelTalmud si dice
"se vuoi, ti posso anche dire...", la seconda argomentazione è quella
che taglia la testa al toro). Ma chi ha fatto la domanda non è ancora
soddisfatto. "Se è così, più avanti si dice: alla mattina si dicono due
benedizioni prima dello Shemà e una dopo e così alla sera". La risposta
è: "L'autore dlla Mishna ha cominciato dalle regole della sera, poi da
quelle del mattino". Questo esempio è il più semplice che sia nel Talmud.
Per
concludere, direi soltanto che il Talmud è l'insieme del tutto, tutto quello
che si può sapere del mondo ebraico. E, prima o poi, dal tutto qualcosa si
riesce a capire.
|
|