A Ben Damah che gli chiedeva se, una volta studiata tutta la
Torah, ci si potesse dedicare alla cultura greca, Rabbi Ishmael rispose: “il
verso dice: «questo libro della legge non si diparta mai dalla tua bocca, ma
meditalo giorno e notte».
Vai, dunque, e trova un momento che non sia né giorno né notte - allora potrai
studiare la cultura greca” (Mecahot
99b). Sono qui condensati due
atteggiamenti entrambi presenti nel mondo ebraico al momento del confronto con
la presenza greca. Da un lato le forme conciliative, le aperture, l’interesse
a trovare un modo di approfondirne la cultura, dall’altra la convinzione del
sostanziale carattere superfluo di tutto quanto non sia la Torah. Inutile,
pleonastica tale cultura, o addirittura nemica? Un altro passo del Talmud,
relativo questa volta a Roma, presenta tre aspetti: apertura, indifferenza,
ostilità: in una conversazione Rabbi Jehuda si rivolge ai suoi compagni
dicendo: “come sono belle le opere di questo popolo: hanno costruito mercati,
ponti, terme. Rabbi José taceva. Rispose Rabbi Shimon ben Johai che disse:
tutto ciò che essi hanno fatto non l’hanno fatto che per se stessi; hanno
costruito mercati per mettervi prostitute, terme per dilettarvisi, ponti per
prelevare pedaggi” (Shabbath 33b).
Questi passi, che pure sono relativamente tardi, mi sembrano
indicativi dei rapporti reciproci tra differenti culture ed etnie che si sono
poste nell’area del Mediterraneo nel periodo ellenistico-romano. Pur
sfaccettate, le risposte sono sostanzialmente di chiusura. Ma si tratta di passi
che segnano la fine di un percorso in cui le possibilità di confronto e le
ipotesi di apertura, numerose nel III sec. a.C., sono venute via via
restringendosi. Con Alessandro Magno e il costituirsi dei regni ellenistici,
prima, con l’impero romano, poi, forse per la prima volta nella storia tutta
l’area del Mediterraneo viene unificata dando luogo ad una centralizzazione
dell’autorità e del potere, dell’organizzazione sociale, della burocrazia,
dell’ordinamento militare, delle attività economiche che fioriscono intorno
alla corte, dei commerci, della cultura, della lingua. Confluiscono ad
Alessandria, prima, a Roma, poi, popolazioni diversissime. Etnie che in alcuni
casi non si sono mai precedentemente conosciute o che hanno al massimo
intrattenuto rapporti commerciali, si trovano ora a vivere fianco a fianco,
spesso a lavorare insieme.
Consideriamo ora, in particolare, Alessandria e la posizione
dei Giudei che ne costituiscono un ethnos
importante. All’interno della composita compagine sociale di Alessandria, ove
confluiscono Egiziani, Macedoni, Giudei, Persiani, Indiani, Romani, il ceto
dominante è costituito dai Macedoni che rappresentano il modello di
organizzazione sociale e culturale. Non solamente sono macedoni le principali
attività burocratiche e di governo, le attività economiche, ma tutta
l’organizzazione cittadina è impostata su modelli greci. Il teatro, le feste,
l’istituto dell’efebia, per non
parlare poi della lingua, sono greche. I Giudei, tradizionalmente ancorati ad
una tradizione e a una cultura separate, restii all’assimilazione, che vivono
anche fisicamente in un loro quartiere, mantengono comportamenti e usi specifici
che li pongono in una situazione di distanza dell’etnia macedone e,
contemporaneamente, intrattengono con i Macedoni rapporti quotidiani subendo il
fascino della loro cultura. Parallelamente, mantengono un rapporto privilegiato
con Gerusalemme, punto di riferimento e fulcro spirituale e culturale per tutta
la diaspora. L’autorità religiosa e di studio di Gerusalemme è, per gran
parte dei Giudei di Alessandria, incontrovertibile, nonostante il ruolo assunto
-dopo la vittoria dei Maccebei- dal tempio di Leontopoli in Egitto, tempio
sostenuto dal sommo sacerdote Onias IV in contrasto con il sacerdote di
Gerusalemme Alcimo. I Giudei di Alessandria vivono dunque una doppia
appartenenza, legati, da un lato, a Gerusalemme, dall’altro al contesto
alessandrino. A livello individuale, molti ebrei ricercano un inserimento nella
società macedone attraverso i canali istituzionali greci di partecipazione alla
vita cittadina: ginnasio, efebia, teatro, feste. In precario e difficile
equilibrio tra assimilazione e separatezza, i Giudei di Alessandria partecipano,
dunque, dei due ambiti.
Per i ceti colti la lingua usata comunemente è il greco.
Anche nelle pubbliche letture sinagogali si usa il greco, eventualmente l’aramaico,
quasi mai mai l’ebraico per lo più ignoto. In questa situazione, sempre più
forte si fa l’esigenza di un testo biblico in greco. Vi sono brevi testi
tradotti, commenti e traduzioni in aramaico, i targumim, manca una versione greca di tutta la Torah. Di qui,
probabilmente, l’origine della traduzione greca dei LXX, che all’inizio
riguardava solamente i cinque libri della Torah, cui venne in seguito aggiunta
la traduzione di agiografi e profeti. E’ cioè probabile che l’iniziativa
della traduzione sia opera dei Giudei di Alessandria, anche se alcune tradizioni
sostengono l’iniziativa di Tolomeo, il re macedone, che sarebbe stato mosso
dal desiderio di inserire nella Biblioteca di Alessandria, accanto a tutte le
maggiori opere del tempo, il testo biblico. Questa è, ad esempio, la tesi
sostenuta dalla Lettera di Aristea,
opera di un autore ignoto, probabilmente della seconda metà del II sec. a.C.,
autore che si finge un Gentile e narra, in un quadro favolisti co ed immaginoso,
della richiesta volta da Tolomeo al sommo sacerdote di Gerusalemme di inviargli
un testo della Torah e dei traduttori esperti, uomini sapienti, conoscitori
della Bibbia e del greco, in grado di approntare la traduzione. Il sommo
sacerdote Eleazar convoca il popolo di Israele, vengono pubblicamente designati
i sapienti, sei per ogni tribù, cui viene affidata quella che è una vera e
propria missione. Al loro arrivo ad Alessandria, i settantadue sapienti, accolti
con tutti gli onori, vengono invitati a banchetti organizzati per rispetto nei
loro confronti secondo le regole della kasheruth. In tali occasioni essi hanno colloqui con il re e la
corte, colloqui durante i quali hanno modo di esprimere la sapienza di Israele.
Solo alla fine di sette giorni vengono condotti nell’isola di Faro, dove,
separati dalla corte, in una condizione di tranquillità e concentrazione,
conducono il loro lavoro, isolati in cellette senza comunicare tra loro.
L’esito -secondo Filone che parla anch’egli della traduzione- sarà
costituito da settantadue traduzioni tutte perfettamente uguali a indicarne il
carattere ispirato. La versione verrà poi presentata al popolo riunito che la
approverà pubblicamente. Si richiamano qui il consenso del popolo riunito in
Esodo 24,4 e la pubblica lettura di Esdra davanti al popolo in Nehemia 8. Anche
il numero settanta, d’altronde, ha probabilmente un forte significato
evocativo: settanta sono gli anziani che accompagnano Mosè al Sinai (Es.
24,1-9), settanta gli anziani cooptati da Dio perché aiutino Mosè nei rapporti
con il popolo, settanta i membri del Sinedrio. Sono tutti elementi che
forniscono autorità alla traduzione, ponendola in un certo senso sullo stesso
piano del testo ebraico.
Ora, posto che quasi sicuramente la traduzione greca della
Bibbia fu un’iniziativa giudaica, che significato assume la tesi che sia stata
voluta da Tolomeo? Si tratta solamente della ricerca di una patente di nobiltà
per i Giudei della diaspora spesso accerchiati da popolazioni indifferenti,
quando non ostili, oppure è davvero plausibile l’interesse per l’ebraismo
da parte di un re ellenistico? E’ chiaro che a questa domanda non si può dare
una risposta univoca, anche perché il periodo che prenderò in considerazione
copre alcuni secoli e vede affiorare popolazioni e governi anche molto
differenti tra di loro. Di fatto, già a partire dal IV sec. a.C., si tramandano
aperture e interesse da parte di autori greci nei confronti della cultura
ebraica. Fino a tutto il III secolo, però, anche laddove non si parli di puri
favoleggiamenti di singoli intellettuali interessati a una generica sapienza
orientale, si tratta di vaghi richiami più o meno favolistici più che di un
effettivo incontro con i testi e la tradizione ebraica. Si tratta di interesse
per il monoteismo e di considerazione per una legislazione -quella mosaica- che
viene accostata a quelle di Licurgo o di Minosse. Già Teofrasto, Megastene,
Clearco di Soli avevano presentato sotto una luce positiva gli ebrei, popolo di
filosofi. Con Ecateo di Abdera la positività della Torah e della fedeltà degli
Ebrei alla legge era smorzata solo dalla loro xenofobia e chiusura rispetto agli
altri popoli. Pure, il monoteismo e il rifiuto dell’antropomorfismo collocava
il popolo ebraico in una posizione speciale, in una luce di sapienza cui gli
altri popoli potevano attingere. I Pitagorici, per esempio, secondo alcuni
autori quali Ermippo di Smirne (II sec. a.C.), avrebbero subìto l’influenza
ebraica. Il richiamo ad una sapienza antica, maestra rispetto alle tradizioni di
altri popoli, il richiamo a una legislazione rigorosa e nobile, il rifiuto di
antropomorfismo e idolatria, il fascino del riposo shabbatico, sono tutti
presenti in alcuni autori di lingua greca che verranno poi sviluppati
soprattutto in ambiente romano. Tale posizioni non devono, però, indurre a
credere a una situazione idilliaca di accettazione-ammirazione dell’ebraismo.
Proprio ad Alessandria si hanno fortissimi conflitti tra etnie e veri e propri progroms
antiebraici e proprio ad Alessandria nasce una letteratura fortemente
antigiudaica che diventerà un modello per tutta la successiva letteratura
ostile all’ebraismo. Qui nascono le accuse di sacrificio rituale, di
adorazione di una testa d’asino, di ostilità verso i popoli vicini, di
sacrilegio, di razzie, di essere un popolo di lebbrosi guidati da un bandito,
cacciati dall’Egitto. Autori quali Manetone, Cheremone, Mnasea, tutti fioriti
ad Alessandria tra il III e il II secolo, e, più di tutti, nel I secolo Apione,
contro cui Flavio Giuseppe indirizzerà una sua opera di difesa dell’ebraismo,
sostengono tali tesi. Di qui il nascere in ambito ebraico di una relazione
difensiva ostile che darà luogo a posizioni di arroccamento. Siamo, però,
ancora nell’ambito di posizioni di separatezza nei confronti degli altri
popoli, non della violenta ostilità che vedremo eplodere in periodo successivo
specialmente nei confronti della potenza romana. Per tutto il II-I sec. a.C., i
Giudei di lingua greca sono di fatto propensi al confronto e all’interazione.
Aristobulo, per esempio, dà una lettura allegorica di passi della Torah ricca
di riferimenti platonici, Filone utilizzerà categorie, teorie, linguaggi propri
delle principali correnti filosofiche greche. Anche laddove si afferma la
superiorità ebraica, vi è, però, un’ipotesi di rapporto con gli altri
popoli. Artapano, per esempio, autore vissuto probabilmente a cavallo tra il II
e il I sec. a.C., dà un’immagine dei patriarchi come fondatori di saperi
utili per l’umanità. Singolarmente è assente l’attività di legislatore di
Mosè, mentre Mosè e i patriarchi sono presentati in una luce certamente molto
diversa da quella biblica tradizionale: Abramo insegna il culto delle stelle,
Giuseppe si occupa di misurazione dei campi e di altre attività quotidiane, Mosè
introduce culti idolatri. Forti sono gli elementi sincretistici e, in vari auori,
per esempio in Aristobulo, Mosè è all’origine della filosofia greca da cui
differisce per singoli aspetti, non per l’impostazione generale. Diffusi sono
i tentativi di conciliazione tra le due culture, di smorzamento dei contrasti,
di eliminazione di elementi disturbanti o scandalosi agli occhi dei Gentili. Se
la legge di Israele rappresenta il punto più alto della sapienza, non esclude
per questo altre forme di giustizia e di verità. Non vi è inconciliabilità
tra valori e norme di Giudei e di Gentili, la Provvidenza, per la Lettera
di Aristea, si rivolge a tutta l’umanità e la Torah, secondo Aristobulo e
Filone, ha valore universale e ha molti punti di contatto con la filosofia
greca. Tali aperture e immagini di convergenza risulteranno ovviamente assai più
dubbie fino a sparire completamente nel periodo successivo alle repressioni di
Caligola. La cultura pagana verrà condannata come politeista e rare saranno le
voci quali quelle di uno Pseudo Focilide che vi cercherà elementi etici
accettabili anche per l’Ebraismo e vorrà tacere di questioni spinose quali
l’idolatria. Peraltro, ancora il terzo Oracolo
Sibillino, opera fortemente polemica e ostile, tenderà a presentare la
Torah in termini di legge naturale aperta a tutti, purché dominati da spirito
di giustizia. Il richiamo è a un universalismo consono a valori stoici ed
epicurei. Forme maggiori di chiusura sono presentate nei libri dei Maccabei che
contrappongono violentemente Israele e la legge di Dio ai pagani peccatori.
L’unico atteggiamento accettabile è costituito dalla rivolta e
dall’opposizione ad Antioco profanatore e peccatore. Posizioni di ostilità
all’ellenizzazione vi sono, d’altronde, anche in ben Sira che pure è meno
polemico.
Molte delle oscillazioni nei rapporti tra ellenismo ed
ebraismo si ritrovano a Roma, ove si assiste ad un graduale trapasso da
posizioni più concilianti a stati di sempre maggiore intolleranza man mano che
la situazione politica diventa più critica, fino a sfociare nella guerra
giudaica. Prendiamo, per esempio, in considerazione gli anni 93-96 d.C., anni in
cui Giuseppe Flavio scrive la sua difesa dell’ebraismo dagli attacchi
antigiudaici. E’ imperatore Domiziano. Flavio Giuseppe, ebreo che ha
partecipato alla gierra giudaica e, fatto prigioniero, è diventato prima
interprete dell’esercito, poi amico dei Flavi, vive ormai nella capitale sotto
la protezione imperiale impegnato a scrivere la storia della sua vita e della
guerra. Intorno a lui la situazione è minacciosa. Sempre più insistenti si
fanno le accuse antigiudaiche che riprendono i temi della polemica antigiudaica
alessandrina. A tali accuse risponde Giuseppe nel Contro Apione, ne dimostra l’infondatezza e l’ostilità
richiamandosi alla positività della tradizione ebraica, al suo alto valore
morale, alla elevatezza delle leggi di Mosè. La continuità di una tradizione
immutabile, lungi dall’essere mancanza di originalità, è prova di costanza e
di rigore, di ancoramento a valori reali, alla legge divina. Di qui
l’importanza di una rappresentazione della verità non suscettibile di
modifiche, di abbellimenti, di alterazioni, una tradizione inalterabile proprio
perché deriva direttamente da Dio, registrata in annali che ne garantiscono la
verità e l’autenticità. In un mondo dove l’antichità della propria storia
e l’autoctonia sono un titolo di merito, è essenziale per Flavio Giuseppe
mostrare l’infondatezza di accuse che fanno di Israele un popolo di
raccogliticci, di miserabili privi di tradizioni e di leggi, di lebbrosi
cacciati dall’Egitto. “La difesa dell’antichità ebraica ha una diretta
relazione con l’apologia della legge”.
L’orgoglio della propria identità, l’importanza della
memoria, il ricordo che diviene osservanza della Legge, precetto divino, si
assimilano, peraltro, a temi propri della cultura greca. Con diverse
motivazioni, con diverse valorizzazioni, Giuseppe accentua così aspetti che
tanto spazio avevano anche nella storiografia greca, come molte delle categorie
interpretative e modalità di lettura sono proprie di tale storiografia. Tali
posizioni di Giuseppe si collocano in un clima di attacco antigiudaico che
presenta, però, molte sfumature ed è ancora piuttosto lieve rispetto
all’ostilità successiva.. Per il momento sono sempre vigenti una serie di
diritti e di privilegi concessi ai tempi di Claudio, di Vespasiano, ma ancora
con Tito, agli Ebrei di Roma: deroghe rispetto al culto imperiale e a riti
pagani, diritto di riunione e di osservanza delle proprie feste, rispetto del
riposo shabbatico, esonero dall’assistere ai giochi pubblici e agli
spettacoli. La contropartita, da parte ebraica, è il rispetto della lex romana, il pagamento dei contributi, una fedele sudditanza
all’imperatore che si era esplicata, ad esempio, nel non intervento durante la
guerra a favore di Gerusalemme. Come nota J. Juster,
gli Ebrei di Roma, lungi dal rappresentare una forza eversiva, si erano, anzi,
sempre posti come fonte di coesione e di fedele sudditanza all’impero. Le
rivolte, che erano talvolta scoppiate in periodi precedenti, erano sempre nate
dalla volontà di non sottostare a imposizioni contrarie alla Torah, dal rifiuto
di norme del tutto accettabili per gli altri sudditi dell’impero, quali la
divinizzazione dell’imperatore e il culto pagano, ma inaccettabili agli occhi
dei Giudei. Al di là di improvvisi scoppi di violenza, vi era, però, nel
complesso, una situazione di relativa tranquillità e un equilibrio, anche se
fragile e suscettibile di rotture, com’era avvenuto ai tempi di Nerone, di
Tiberio, di Caligola. Si era addirittura creato un clima di simpatia da parte di
molti intellettuali romani che guardavano con interesse al rifiuto
dell’idolatria, del culto delle immagini e sentivano il fascino del monoteismo
o del riposo shabbatico. Molti Romani avevano adottato norme alimentari e
comportamentali ebraiche. Diffuso era il proselitismo e, secondo alcune fonti,
addirittura Poppea aveva aderito all’ebraismo (cosa, peraltro, alquanto
improbabile). Tali simpatie dei Romani per il giudaismo sono attestate anche da
parte ebraica. Il Talmud babilonese, per esempio, parla di un membro della casa
Flavia, un nipote di Tito, Onkelos, figlio di Kolonikos o Kolonimos, convertito
all’ebraismo, e, altrove, si accenna
alla morte di un senatore chiamato Kety’ah ben Shalom che con la moglie aveva
adottato il giudaismo.
Molti poi erano i simpatizzanti, gli aré
shamaim, che, senza proprio convertirsi, avevano però adottato una serie di
comportamenti e di usi ebraici. Però la condizione di simpatizzante era
estremamente pericolosa, molto più perseguitata di quella di un ebreo di
nascita.
Da un lato le simpatie per l’ebraismo venivano viste come il desiderio di
fruire dei privilegi di cui godevano gli Ebrei, dall’altro come un attacco
agli antiqui mores, alla romanità
contrapposta a usi orientali corrotti e debosciati. Di qui una serie di
persecuzioni ed estorsioni, tramandateci, per esempio, da Valerio Massimo che
spiega l’espulsione del 139 d.C. come risposta difensiva dell’aristocrazia
romana all’ingresso di idee e di culti orientali che si stavano diffondendo a
Roma. I Giudei venivano accostati ad astrologi, maghi che introducevano credenze
superstiziose contrarie all’austerità romana. Attaccati alle loro abitudini
superstiziose,
gli Ebrei avrebbero introdotto credenze assurde che venivano poi accettate anche
dai Romani. Così Seneca attribuisce loro la diffusione di leggi insensate, di
abitudini dannose e oziose, quali l’osservanza dello shabbath, vero esempio di
perdita di tempo. Essi “sprecano il tempo, perché intercalando tutti quei
settimi giorni, perdono circa un settimo della loro vita nell’ozio e molti
interessi urgenti sono lesi dall’inattività”.
E’ bene vietare di accendere le lampade del Sabato “perché gli dei non
hanno bisogno di lumi e neppure agli uomini fa piacere il fumo”.
Si tratta di abitudini spesso adottate da Romani spinti dalla moda e
dall’attrazione per la religione ebraica.
Ciò che disturba non sono le concezioni adottate, ma i comportamenti quali la
circoncisione o il rifiuto della religione dell’impero. Sempre di più si
sviluppano atteggiamenti antigiudaici e vere e proprie persecuzioni quali quelle
dei tempi di Nerva e Traiano che culmineranno con le repressioni del 135 d.C.
dopo la rivolta di Bar Kokvà.
Anche a Gerusalemme le posizioni di apertura, le spinte
assimilazionistiche, i tentativi di inserirsi nella cultura dominante e di
trovarvi delle forme di coesistenza si intrecciano con elementi di ostilità e
di contrasto. Già Giasone, fratello del sommo sacerdote Onias III, quando aveva
cercato di introdurre a Gerusalemme riforme di stampo ellenistico, aveva
suscitato violente reazioni e una guerra civile sedata solo con l’intervento
di Antioco IV. Accese erano le polemiche contro ogni forma di ellenizzazione: le
abitudini dei Gentili, i teatri, le feste. In questo contesto traggono spessore
le accuse mosse ad Erode per la costruzione di un teatro e di un anfiteatro,
l’introduzione di gare ginniche, spettacoli, combattimenti tra uomini e
animali. Molte le prese di posizione rabbiniche contrarie a forme di
assimilazione: “è proibito andare nei teatri dei Gentili” recita la Toseftà
Avodà Zarà (II,5.7). Sia che vi si svolgano sacrifici e riti di culto
imperiale, sia che questi non avvengano, i teatri sono comunque un veicolo di
idolatria, di impurità, di trasgressione, di immoralità. I pagani
rappresentano un pericolo sia materiale sia morale, propensi all’omicidio,
all’aggressione, a una sessualità violenta; possono essere fonte di morte o
di degenerazione per i Giudei. Un
barbiere, una levatrice potrebbero approfittare del loro ruolo per uccidere gli
Ebrei, come altri potrebbero cercare di pervertire donne e bambini. E’ bene,
dunque, porre una estrema attenzione ai rapporti con i Gentili e, possibilmente,
evitarli. Tali posizioni estreme non sono ovviamente generalizzabili e si
trovano anche molti pronunciamenti più aperti al confronto. Agiscono qui
differenze di posizione dei singoli e di scuola, oltre che variazioni rispetto
al momento storico: così diversi sono gli atteggiamenti degli allievi delle
scuole di Hillel e di Shammai, e, soprattutto, diversi sono gli atteggiamenti di
Farisei e Sadducei anche rispetto all’ellenizzazione. E’ diffuso, comunque,
un sentimento di diffidenza nei confronti della cultura degli idolatri e anche
la lingua risulta sospetta, non tanto in se stessa, quanto come veicolo-simbolo
della cultura greca (cfr. Sothà 49b).
Spesso, comunque, la necessità dei rapporti quotidiani con le autorità romane
e in genere con il mondo circostante, implica la conoscenza del greco che viene,
così, accettato. Questo sarà vero soprattutto in tempi di molto successivi
alle rivolte.
Di fatto vi è una grande diffusione del greco che, iniziata nel III sec. a.C.,
continua anche in seguito alle guerre maccabaiche e ai successivi rapporti con
Roma. Se ne trovano tracce nei nomi teoforici e in termini impiegati in libri
biblici quali Qoeleth e Daniele. Spesso il greco è usato anche da persone che
utilizzano l’aramaico e l’ebraico. Molte sono, cioè, le persone bilingui o
anche trilungui, anche in relazione all’attività che svolgono. I rabbini, per
esempio, anche se talvolta ottimi conoscitori del greco, non lo usano come
lingua di scrittura.
Un momento di rottura che segna nettamente un prima e un poi
anche rispetto all’accettazione del confronto è rappresentato dalla presa di
Gerusalemme da parte di Pompeo. “Fra tante sciagure quella che colpì
maggiormente la nazione fu che il Tempio, fino a quel momento sottratto alla
vista, fu svelato ad occhi stranieri. Infatti Pompeo con il suo seguito entrò
in quella parte del Tempio dove soltanto al sommo sacerdote era lecito di
entrare”. L’ingresso nel Santo
dei Santi è una profanazione che rende ostile a Pompeo tutta la popolazione,
anche quella parte che, schierata con Ircano e con Antipatro contro Aristobulo,
gli dovrebbe essere favorevole. Le polemiche si fanno più accese: Roma, potenza
violenta e profanatrice, recherà con sé danni e morte suscitando il terrore e
seminando distruzione. Così, nel terzo libro degli Oracoli
Sibillini, la violenza e la brutalità dei Romani si accoppiano con la loro
ingiustizia e la loro cupidigia, e nel quinto libro, violenti e prevaricatori, i
Romani compiono ogni forma di massacro, uccidendo persone innocenti, compiendo
incesti, sevizie, matricidi, zoofilia. Anche i testi di Qumran, sotto lo schermo
del riferimento ai Kittim (sempre che siano identificabili con i Romani)
portano violenti attacchi ad un popolo invincibile e duro che semina il terrore
e la devastazione: “da lontano essi vengono, dalle isole del mare, come aquile
per divorare tutti i popoli, senza saziarsi. Con furore e irritazione, con ira
bruciante e sguardo torvo, essi parlano con tutti (gli altri) popoli. Poiché
questo appunto è quanto ha detto: «La tracotanza del loro volto è un vento
dall’est, raccoglie prigionieri come sabbia»”.
Dopo la distruzione del Tempio, Roma, incarnazione del male, emblema della
negatività, è rappresentata come una grande potenza invincibile i cui eserciti
sottomettono ogni luogo della terra.
Già precedentemente, prima del conflitto, ai tempi di Filone, Roma ricca e
potente era vista come l’Impero che estendeva il suo dominio su tutti i
popoli, rappresentava un incombente pericolo anche per le popolazioni con cui al
momento era in pace dacché in ogni istante la sua benevolenza poteva
trasformarsi in ostilità, l’indifferenza in astio.
Tanto più dopo il conflitto e la sconfitta, Roma è il nemico malvagio,
pienamente responsabile della distruzione, della profanazione, delle uccisioni
avvenute a Gerusalemme. Anche laddove si sostiene che era volontà di Dio che
Israele venisse punito per i suoi peccati, la città venisse distrutta, il
Tempio incendiato e il potere lasciato nelle mani di Roma (Avodà Zarà 18a), questa non è meno colpevole per le iniquità
commesse. Viene ribadito da più parti, comunque, che senza un intervento divino
la distruzione del Tempio non avrebbe potuto avvenire; se la presenza divina non
avesse abbandonato il Santuario, questo non avrebbe potuto essere devastato (II
Baruch 77,8-10;8.2), né degli uomini avrebbero potuto toccare degli oggetti
sacri. Nel momento in cui gli eserciti nemici entrarono in città, angeli
inviati da Dio nascosero i vasi e gli arredi sacri perché non venissero
profanati, distrussero fortificazioni altrimenti indistruttibili e e attaccarono
il fuoco al Tempio.
Tale immagine del Tempio incendiato dagli angeli evoca racconti midrashici e
talmudici relativi alla distruzione del primo Tempio. Sia nel primo che nel
secondo caso appare inconcepibile che Dio abbia permesso la distruzione del suo
Santuario da parte di mani sacrileghe. Se la comprensione dell’accaduto appare
di difficile accettazione, difficili sono anche le prospettive per il futuro. A
formulazioni che propugnano la rassegnazione e la sottomissione al dominio
straniero, si affiancano tesi che considerano Roma inserita nella successione
degli imperi, il quarto regno cui Dio assegna un fine nella storia, regno
destinato comunque a perire. Di qui l’attesa del momento in cui anche Roma
soccomberà e verrà il mondo messianico, in cui dopo le lotte tra Gog e Magog e
le doglie dell’avvento del messia, si entrerà nella fine dei tempi. Ma, se
tale è la prospettiva, è opportuno cercare di affrettarli? E nel frattempo,
l’attesa sarà di studio o di lotta? di rassegnazione o di ribellione? Già al
momento della distruzione del Tempio, Johanan ben Zakai, in polemica con il
patriarca Rabban Simeon ben Gamliel, ottenuto il permesso imperiale, aveva
aperto una scuola a Javneh ove ritirarsi a “insegnare ai discepoli, istituirvi
le preghiere e osservare i precetti” (Avot de Rabbi Nathan A4). Accusato più
volte di acquiescenza se non di tradimento, di fatto Johanan ben Zakai
rappresenta la continuità dell’ebraismo, il tramite per cui la tradizione,
anziché soccombere, ha potuto trasferirsi dal Tempio nelle case e nello studio
e ha potuto, così, continuare ad esistere. La sopravvivenza sta nel popolo e
nella sua vita collettiva, in un culto trasferito dai sacrifici alla preghiera
attraverso il tramite dell’osservanza e dello studio. Con Javneh, dice Neusner,
si compongono “l’osservanza universale della legge così che ogni ebreo è
tenuto a fare ciò che normalmente ci si aspetta solo l’élites -i sacerdoti-
compiano, il ruolo centrale degli scribi, il cui ideale professionale dava
enfasi allo studio della Torah e la centralità degli uomini colti nel sistema
religioso”.
A seguito della rivolta di Bar Kokvà, che era stato da più parti visto come il
messia, molti maestri, continuando l’opera di studio di Johanan ben Zakai,
respingeranno l’ipotesi di un avvento messianico in tempi brevi e
condanneranno anzi il calcolo dei tempi. Già Johanan ben Zakai aveva affermato:
“che giunga il messia e che io non lo veda” (Sanhedrin
98b) e Rabbi Nehunia ben Hakkanah aveva sostenuto: “chi accetta su di sé il
giogo della Torah sarà liberato dal giogo del regno e dal giogo delle cose
terrene, e chi distoglie da sé il giogo della Torah verrà sottoposto al giogo
del regno e delle cose terrene” (Mishnah
Avot 3,5). Ora, Rabbi Jonathan maledice “coloro che calcolano la fine dei
tempi” (Sahnedrin 97b) e Rabbi Zerà
sostiene che il computo dei tempi pospone la venuta del messia (Sanhedrin
97b). Di qui il ripiegarsi nello studio, l’accettazione del dominio straniero,
la totale chiusura nei confronti di una cultura subita come odiata espressione
del dominatore. Con ciò sembra sia, cioè, chiuso il rapporto tra le due
culture e quella che resta sembra che sia una separatezza tra due mondi che, pur
a contatto e dominati l’uno dall’altro, sembra però siano del tutto sordi
reciprocamente. Di fatto, attraverso le correnti culturali e politiche romane e
la patristica, concezioni e modi di pensare del giudaismo ellenistico passeranno
trionfalmente nella cultura occidentale e la permeeranno.
Vorrei richiamare, in questo senso, una frase di E. R.
Goodenough a proposito della teoria
politica di Filone, applicabile -io credo- anche ad altri ambiti teorici e
generalizzabile al giudaismo alessandrino nel suo complesso: “l’accettazione
da parte di Filone della teoria del diritto e delle prerogative divine del re
insieme al suo rifiuto della divinità personale del re è la stessa distinzione
posta dai primi apologeti cristiani. E’ la filosofia politica che, lungi dal
rivestire poco importanza pratica, ebbe la capacità di rivedere le tendenze
manifeste in Aureliano e Diocleziano, divenire la filosofia ufficiale
dell’Impero cristiano, inscriversi nelle leggi di Giustiniano e porre, così,
il modello di regalità fino al ventesimo secolo”.
(Testo
redatto dall’Autrice
A. MOMIGLIANO, Una
apologia del giudaismo: il “Contro Apione” di Falvio Giuseppe, in Pagine ebraiche, a c. di S. Berti, Milano 1987, p. 65.
Les
Juifs dans l’Empire Romain. Leur condition juridique, économique et
sociale, Paris 1914.
Gittin
56b; Avodà Zarà 11a.
Cfr. Tacito, Annales
II,85.4; Svetonio, Tiberius 36.
Cfr. Apuleio, Florida
6; Plutarco, De Stoicorum Repugnantiis
38; Tacito, Annales II,85.4.
Seneca, De
Superstitione apud Augustinus, De
Civitate Dei, VI.11, trad. D. Nizza.
Seneca, Epistulae
Morales XCV 47, trad. D. Nizza.
Cfr. Giovenale, Saturae
XIV,96-106.
Cfr. Sothà
49b; Babà Qammà 52b; 82b.
Flavio Giuseppe, La
guerra giudaica I,152; trad. G. Vitucci.
Se in precedenza i Kittim
sono probabilmente identificabili con i Greci, a partire dal II sec. il
riferimento è spesso ai Romani. Cfr. M. HADAS-LEBEL, Jérusalem
contre Rome, Paris 1990, pp. 33-36 e L. MORALDI, I
manoscritti di Qumran, Torino 1986, pp. 289-290 n.2.
Commento
ad Abacuc II,14.15; III,1; III,11-14; trad. L. Moraldi.
Cfr. IV
Esdra XI,41-43; II Baruch 39,5-6; Genesi Rabbà
2,4.
Cfr. Filone, Legatio
ad Caium XLVI,371.
Cfr.
II Baruch 80,1-5; 10-19.
The
Formation of Rabbinic Judaism: Yavneh (Jamnia) from A.D. 70 to 100,
in Aufstieg und Neidergang der Römischen
Welt, Berlin-New York 1979, p.22.
The Politics of Philo Judaeus. Practice and Theory,
Hildesheim 1967, p. 119.
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