Alcune premesse. In primo luogo, per affrontare l’argomento
in questione, sono costretto a dare per scontata una vaga conoscenza del
filosofo, visto che non posso impiegare metà dello spazio -a voler essere
ottimisti- per illustrare il sistema filosofico di Spinoza.
In secondo luogo, è bene sottolineare subito la
problematicità dell’argomento stesso: Spinoza e l’ebraismo. Non si può
dire, infatti, che Spinoza appartenga a questa tradizione come, per esempio, vi
appartengono a giusto titolo da un lato Maimonide (l’apoteosi del pensiero ebraico che si fa anche filosofia) e dall’altro lato il Chassidismo, cioè il
movimento mistico per eccellenza e quello sviluppatosi più di recente nel
tempo. Spinoza, invece, intrattiene con l’ebraismo un rapporto peculiare. A
lui, tra l’altro, non avrebbe probabilmente fatto piacere essere trattato come
un filosofo “ebreo”; proprio perché egli fu un pensatore dell’universalità
come pochi altri, certo non avrebbe potuto ritenere che quell’universalità
potesse essere rinchiusa entro il ristretto quadro culturale ed esistenziale
ebraico del suo tempo. Di fatto, Spinoza si staccò dall’ebraismo
volontariamente, oltreché per l’esserne “scacciato”. E, vista la
grandezza dei suoi intenti, dobbiamo pensare che quel distacco, almeno
soggettivamente, dovette servire, come molte altre cose, al suo pensiero e
al significato del suo pensiero.
Un’ultima cosa. Siccome so per eseprienza che, quando si
parla, in generale, di “Spinoza e l’ebraismo”, si potrebbe andare in molte
direzioni diverse, mentre in realtà se ne deve privilegiare qualcuna, può
darsi che sembrino saltare dei passaggi, i quali per chi scrive ci sono, ma che
mancano per chi ascolta o legge per la prima volta.
Per cominciare si può esporre sinteticamente quale sia il
contenzioso o almeno quali siano alcuni aspetti del problema.
Innanzitutto, com’è noto, Spinoza è stato scomunicato
dalla sua comunità ebraica d’origine, quella di Amsterdam, nel 1656, all’età
di ventiquattro anni. Egli non aveva scritto nulla ed è difficile, quindi,
immaginare che il suo pensiero avesse già varcato i confini del piccolo mondo
ebraico o anche di altri piccoli mondi che, a loro volta, confinavano e
comunicavano con quello ebraico. Insomma, Spinoza nel 1656 non è ancora Spinoza.
Tuttavia viene scomunicato. E gli studiosi ancora si interrogano e sono ancora
ben lontani dal dare una risposta univoca e definitiva sul perché
sia stato scomunicato, su quali possano essere state le ragioni, o il
“complesso molto complesso” di ragioni per le quali Spinoza è stato
scomunicato. Se ci atteniamo al testo del bando di scomunica (che peraltro era
probabilmente una sorta di testo standard,
perlomeno nella parte della condanna e delle maledizioni che venivano lanciate
sullo scomunicato), possiamo immaginarci che il comportamento pratico di Spinoza,
e anche le idee professate a parole, differivano molto dall’ortodossia o, per
meglio dire -visto che all’ebraismo il concetto di ortodossia è abbastanza
estraneo-, dall’ortoprassia, cioè il comportamento dei buoni ebrei di Amsterdam in
quel tempo. Già su questo punto si potrebbe fare una digressione grande come
una casa, che però si preferisce non iniziare neppure, salvo ricordare che già
la collocazione storica “ebraica” di Spinoza costituisce un problema. Nel
Seicento, la comunità ebraica, nata da mezzo secolo, non era una comunità
“normale”, dal momento che proveniva dalla Diaspora “marrana”. Essendo
una comunità di Ebrei “portoghesi”, essa aveva delle peculiarità molto
forti, per effetto delle quali non può certo essere assunta come una comunità
ebraica standard, neppure rispetto a
quel tempo.
D’altra parte, va assolutamente detto che la scomunica,
soprattutto quella di Spinoza, ha assunto nella storia un significato, data la
statura del personaggio, che forse per i contemporanei non aveva. E si sa, per
esempio, che in quella comunità la scomunica, o i vari gradi di scomunica,
venivano applicati con una certa larghezza e facilità, a volte per realti
davvero infimi, all’interno della vita comunitaria, e venivano poi revocati
con altrettanta facilità.
E’ proprio questo a farci pensare che la scomunica rimasta
valida su Spinoza stia ad indicare una precisa volontà, da parte del filosofo,
di staccarsi dalla comunità e di non cercare e trovare una qualche forma di
conciliazione e di compromesso. Anche un evento come quello della scomunica di
Spinoza, che ha assunto, nella storia ebraica e non, dei significati
straordinari e quasi “epocali”, in realtà dovrebbe essere letto e indagato
nel contesto del tempo. Per dare soltanto un esempio, si sostiene, da parte di
alcuni studiosi, che gli Ebrei di Amsterdam, e in particolare il Consiglio della
Comunità, decisero questa scomunica perché c’erano, a consigliare di
comminarla, delle precise ragioni politiche: il fatto cioè che le autorità di
Amsterdam, autorità protestanti e anti-spagnole che avevano accolto gli Ebrei
con una certa benevolenza (anche i Paesi Bassi, le cosiddette Provincie Unite,
erano nati da poco, dalla rivoluzione nazionale contro la Spagna), avrebbero
potuto trovare particolarmente disdicevole che tra gli Ebrei ci fosse chi
professasse idee che potevano essere scambiate per ateismo o comunque critica
radicale alla religione. Si tratta dunque di ragioni di politica comunitaria
“quotidiana”. Altri dicono che Spinoza sia stato scomunicato perché in quel
momento il rabbino che lo proteggeva maggiormente e che era stato suo maestro,
Menasseh ben Israel, non era ad Amsterdam, perché a Londra a tentare di
convincere Oliver Cromwell a riammettere gli Ebrei in Inghilterra (dalla
riammissione degli Ebrei in Inghilterra, dopo che da alcune secoli ne erano
stati, ufficialmente, espulsi, sarebbe dipesa, probabilmente, secondo concezioni
tanto ebraiche quanto protestanti del tempo, l’accelerazione dell’età
messianica). In realtà, dunque, anche già solo su un episodio che sembra quasi
aureolarsi di leggenda e di assolutezza, si potrebbe discutere e lavorare di
interpretazione, senza arrivare a nessuna certezza definitiva.
Andando oltre l’episodio della scomunica, e per trovare
sostanziosi contenuti dello scontro tra Spinoza e l’ebraismo, è alle
espressioni del pensiero spinoziano, com’è naturale, che ci si deve
rivolgere.
Spinoza, sia perché morto ancora piuttosto giovane sia per
ragioni più sostanziali, non è stato un autore molto prolifico, pur avendo
lasciato due opere fondamentali, il Trattato
teologico-politico del 1670, che tra l’altro uscì anonimo, e l’Etica,
cioè, per così dire, il suo “sistema”, (anche se, probabilmente, è
sbagliatissimo parlare di sistema
filosofico nel caso di Spinoza). L’Etica
è davvero la filosofia spinoziana nella sua forma più matura e compiuta: venne
pubblicata nel 1677, qualche mese dopo la morte del filosofo, in un volume di Opere postume curato dagli amici di Spinoza. Queste due opere ci
indicano due direzioni fondamentali lungo le quali possiamo già ravvisare
importanti punti di contrasto, o comunque di confronto, tra Spinoza e
l’ebraismo.
Nel Teologico-politico
il discorso di Spinoza è rivolto a temi molto più universali, anche se risulta
molto presente la polemica contro aspetti piuttosto consistenti della tradizione
ebraica. Il Trattato teologico-politico
aveva diversi obiettivi dichiarati, sin dal sottotitolo e poi anche lungo tutto
il corso dell’opera, dalla prefazione all’intestazione e al contenuto
dell’ultimo capitolo. Si tratta, insomma, di un’opera largamente
programmatica in cui è difficile fraintendere ciò che Spinoza vi vuole
sostenere. Sostanzialmente, si vogliono separare nettamente le sorti del teologico
-in senso stretto- da quelle del politico.
In altre parole, l’autorità politica dev’essere altra cosa da quella
religiosa; qualora debba esserci un rapporto di dipendenza e di utilità, quel
rapporto deve essere invertito rispetto a ciò che si argomenta abitualmente, in
quanto è lo spirito religioso che deve servire la concordia politica, la
concordia della civitas, e non
viceversa. In più, Spinoza vuole che ai filosofi, o a chi sia in grado
veramente di ragionare sulle cose, sia assicurata la piena libertà di pensiero,
senza che i teologi di ogni ordine e grado, o altri in nome dei teologi, pensino
di poter reprime o, addirittura, sopprimere quella libertà.
Tutte le tematiche del testo ruotano attorno a quella
tematica centrale, dichiarata già fra titolo e sottotitolo: Trattato
teologico-politico, comprendente alcune dissertazioni nelle quali si dimostra
che non solo la libertà del filosofare può essere ammessa senza pregiudizio
per il sentimento religioso e per la pace civile, ma che anzi essa non può
essere soppressa se non con la rovina della pace civile e dello stesso
sentimento religioso.
Spinoza, nel Trattato
teologico-politico, polemizza in modo molto acceso contro tutte le pretese
teocratiche di ogni tempo, e in particolare contro quelle della tradizione
ebraica (che egli conosceva bene per esserci stato educato). E dedica infatti
parecchi capitoli a una critica molto corrosiva delle arroganze autoritarie, ai
suoi occhi, di “Sacerdoti”
ebrei, in senso lato, rabbini e Farisei
-come spesso lui li chiama, riprendendo un classico termine negativo
dall’ambiente e dalla tradizione cristiani che lo circondavano-, sebbene, in
realtà, questa polemica antifarisaica non sia lineare e ci siano anche dei
momenti di segno e di senso contrario.
Comunque, il discorso di Spinoza contro la tradizione ebraica
è, a tratti, davvero molto duro, volto soprattutto a dimostrare, sia nei
confronti dell’ebraimo e della tradizione cattolica, ma anche di corposi
settori, non troppo apertamente nominati, delle nuove ortodossie protestanti,
come il problema di fondo sia che l’interpretazione della Scrittura non possa
essere abbandonata all’autorità dei preti e dei sacerdoti. Laddove la
Scrittura (e per lui la Scrittura è tanto quella ebraica quanto quella
cristiana, cioè Antico e Nuovo Testamento, Tanakh
e “buona novella”) non è un testo di metafisica da cui si possano trarre
nozioni vere e definitive sulla natura di Dio o sui rapporti tra Dio e il mondo
o conoscenze sulla e della Natura, ma è soprattutto un grande codice morale che
insegna verità semplicissime, e perciò alla portata di tutti, e che appunto in
queste verità semplicissime ha il suo contenuto fondamentale che la attraversa
da un capo all’altro. Da qui la concezione della “interpretazione della
Scrittura attraverso la Scrittura”. Spinoza, cioè, attraverso un procedimento
molto ben argomentato nel corso dei capitoli -e che bisognerebbe vedere da
vicino “in azione”- sostiene, che, se se ne vuole davvero intendere gli
insegnamenti, non si deve “uscire” dalla Scrittura, attribuendole magari
intenzioni che non sono le sue, ma bisogna invece restare nella Scrittura e
interpretarla secondo le sue proprie intenzioni costantemente ribadite. E così,
incidentalmente, Spinoza, col Trattato
teologico-politico, è da considerarsi anche come uno dei fondatori della
moderna critica biblica, nella misura in cui fornisce direttive precise,
storico-filologico-scientifiche, come le intendiamo noi oggi, su come si debba
fare interpretazione della Scrittura attraverso la Scrittura.
La polemica contro alcuni aspetti, non secondari, della
tradizione ebraica raggiunge forse il suo acme nel terzo capitolo, molto famoso,
del Trattato, dedicato al tema
dell’elezione degli Ebrei, in cui Spinoza sostiene che, se elezione c’è
stata, è stata un’elezione “naturale”, un’elezione umanamente
“politica”: per un certo tempo gli Ebrei hanno goduto, in una determinata
terra, di una certa fortuna politica, come la definisce lui, la quale ha fatto sì
che il popolo ebraico potesse vivere stabilmente in una terra, stabilire delle
buone (per la collettività e il benessere pubblico) istituzioni, ecc. In
particolare, Spinoza mostra, in alcuni dei “penultimi” capitoli del Trattato, come la teocrazia “mosaica” non fosse affatto, in sé,
disprezzabile, e che anzi Mosè era stato un ottimo “capo di Stato”, un
ottimo politico e legislatore, che aveva trovato il modo di dare una legge
giusta, capace di tenere uniti e solidali tra di loro i cittadini, a un popolo
dell’antichità rozzo e appena uscito dallo stato di schiavitù, un popolo
che, dal punto di vista politico, veniva veramente “dal nulla”. In parole
povere: di elezione divina non si può e non si deve parlare, né per gli Ebrei
né per nessun altro popolo. Anche se nel Teologico-politico
si parla di azione divina, è sin troppo trasparente come si tratti già del
“Dio di Spinoza”, e quindi non di un Dio personale e trascendente, ma di un
Dio che è, piuttosto, la forza produttiva intrinseca dell’Essere, per come si
manifesta nel mondo degli uomini -e qui si aprirebbero altri problemi perché
certo il Trattato teologico-politico,
come sostenuto, tra gli altri, da Leo Strauss, è certo un testo, almeno
parzialmente, “in codice”, nient’affatto esplicito, in tal senso, come sarà
invece l’Etica.
Gli Ebrei, insomma, non svolgono un ruolo peculiare nella
storia del mondo. La loro storia particolare può certo insegnare qualcosa -e
Spinoza per primo si ispira alla narrazione biblica per attingerne esempi, anche
positivi, di come dovrebbero andare le cose dei popoli; o anche, in negativo,
quando dice che l’antica teocrazia mosaica è andata in pezzi, con effetti
storici devastanti per il popolo ebraico, nel momento in cui i Sacerdoti hanno
cominciato a pretendere un’assoluta autorità dogmatica (in materia, magari,
di come doveva essere intesa la natura di Dio, o simili), e un assoluto potere
anche politico, cercando di far prevalere le proprie intenzioni su quelle
altrui; nel momento in cui, dunque, c’è stato scontro tra i vari gruppi
sacerdotali per ottenere un pieno potere che, da teologico, si faceva naturaliter,
appunto, teologico-politico.
Spinoza, quindi, fa chiaramente una lettura di tipo
naturalistico-storico della storia ebraica. E certamente la fa con uno sguardo
che, almeno nelle intenzioni, vuole essere esterno a quella storia, anche se,
com’è probabile, da un punto di vista emotivo, quello sguardo non era esterno
per niente. Si tramanda anzi che, già al momento della scomunica, Spinoza
avrebbe scritto un’opera in spagnolo, di cui però non abbiamo alcuna traccia
all’infuori di qualche cenno in altri autori, ch’era un’Apologia para justificarse de su abdicacion de la Synagoga. E si
dice che nel Trattato teologico-politico,
quattordici anni dopo, si ritrovino, rifusi, pezzi di quest’opera giovanile
molto acre contro i “Farisei” del suo tempo, insomma contro i teocrati
ebrei.
Spinoza si “chiama fuori” dal popolo ebraico e non
accetta la “tradizione”, soprattutto il significato che alla tradizione era
stato dato, così come non accetta l’autorevolezza, anche oltre la legge
pratica, che alla tradizione è stata attribuita, nello studio della Bibbia
prima di tutto. E infatti diversi critici ebrei “moderni” di Spinoza (ne
cito uno solo, molto famoso: E. Lévinas) parlano del “tradimento di Spinoza”,
un tradimento pratico, prima ancora che teorico. Non si parla di concezioni e di
idee (tipo l’immanenza di Dio nelle
cose, che riprenderemo tra poco), bensì del fatto che Spinoza sia arrivato
addirittura a civettare, in modo aperto, con una certa immagine di Cristo -poiché
c’è anche il “Cristo di Spinoza”, che in realtà non è un Cristo
“cristiano”, bensì un modello sia del “saggio”, come lo concepisce
Spinoza stesso, sia di colui che viene a portare un messaggio per gli ignoranti,
un buon messaggio religioso e conciliatorio che può essere utile alla polis
per indurre e mantenere la pietas, nel
senso lato del termine, tra i cittadini e all’interno dello Stato.
L’altra via di contrasto, com’è intuibile, deriva dalla
concezione filosofica stessa di Spinoza, dalla sua, ci si passi il termine, onto-teologia
profonda; sostanzialmente dall’idea base dell’identificazione tra
l’Essere, tutto l’Essere infinito (poiché di questo si tratta), insomma la
Sostanza di Spinoza, con Dio e la Natura, secondo la celeberrima espressione Deus
sive Natura. Per Spinoza, cioè, l’essere infinito delle cose coincide con
la Sostanza -e qui c’è un motivo che partiva anche dalla discussione
secentesca intorno alle due sostanze,
pensiero ed estensione, di Cartesio. Com’è noto, Spinoza, con una serie di
argomenti che non si possono nemmeno sfiorare qui, risolve in chiave
radicalmente monistica la difficile eredità cartesiana e parla di un’unica
Sostanza, che per lui è Dio e anche la Natura, per lui sono le cose, o, meglio
ancora, il principio unitario che nelle
cose si esprime. Dopodiché, come giustamente si è osservato, Spinoza non è
veramente un panteista, a voler essere rigorosi, perché in realtà fa mille
distinguo. E la distinzione più celebre, che giustamente viene sempre citata,
poiché non è affatto un puro gioco di parole, è quella tra Natura naturans e Natura
naturata, cioè tra il principio attivo (non creativo, perché con Spinoza
la parola creazione è proibita) ed espansivo,
espressione dell’infinita e necessaria potenza dell’Essere, da un lato, e,
dall’altro, il prodotto, via via depositato, di quell’infinitamente possente
e continua attività. D’altra parte, Dio è davvero immanente al mondo e alle
cose. Il concetto, poi, di questo Dio/Sostanza è quanto mai proiettato
sull’infinito -un infinito all’ennesima potenza. Non è infatti soltanto
infinito, ma possiede infiniti attributi
(tra i quali i cartesiani pensiero ed estensione sono solo i più rilevanti, ed esperibili, da noi
uomini), ed è cioè un “infinito di infinità”, un infinito che si
manifesta in infinite direzioni ontologiche che, a loro volta, si esprimono in
infinite manifestazioni e “cose particolari” (i modi,
appunto manifestazioni “finite” dell’infinito). Qui c’è tutta la
dottrina spinoziana che siamo costretti a dare in gran parte per scontata.
Quel che si deve trattenere qui è l’argomento di fondo,
cioè l’identificazione di Dio e Natura. Usiamo la parola “Natura” perché
è più semplice e quella che usava lo stesso Spinoza, ma si tratta delle cose,
del mondo, di tutto. E quindi (come da concetto spinoziano, anche se Spinoza lo
esplicita una volta sola in tutta l’Etica)
c’è un rapporto di immanenza, non
di transitività o di trascendenza, tra la Sostanza e le cose. E questo discorso, non a
caso, procurò subito a Spinoza la fama di ateo, o comunque di uomo che non
credeva assolutamente (ed è sicuro che non ci credesse) in un Dio personale,
cioè in quel Dio personale in cui credevano tutte le religioni monoteistiche e,
appunto, teistiche, tradizionali, a cominciare dall’ebraismo. Eppure, questo
tema, che è certo di per sé il più scabroso, si scopre poi non essere stato
il più scandaloso per gli Ebrei, e neppure per alcuni cristiani, ma questo è
tutt’altro discorso. E proprio Lévinas, prima citato, dice -e con lui molti
altri- che l’ebraismo permette molte interpretazioni. L’identificazione tra
Dio e Natura certamente non è ebraismo ortodosso, anzi -va ribadito il
concetto- non è neppure ebraismo “ortopratico”; non è ebraismo, tourt court. Ma, al contempo, non è tesi di per sé assolutamente
scandalosa. In fondo si sa che nella Qabbalah
(ma non solo in essa, per la verità) il discorso del rapporto tra immanenza
divina nel creato e, invece, trascendenza divina rispetto al creato, è un
discorso molto aperto e molto delicato che trova molte sorprendenti vie di fuga.
Non è questo, dunque, che può suscitare un particolare scandalo. Piuttosto, la
parte che fa veramente scandalo è quella che abbiamo visto prima, con Spinoza
che sembra letteralmente sputare sulla tradizione ebraica.
Tutto è eminentemente complicato dal fatto che, come fu
chiaro a molti dei contemporanei -e come è stato sempre più chiaro dalla metà
circa dell’Ottocento, quando molti studiosi ebrei hanno cominciato a studiare
in modo critico Spinoza e le sue fonti-, Spinoza è pieno di influssi ebraici.
Ora, probabilmente non è vero, come vuole una certa leggenda, che fosse stato
avviato, da giovane, sulla via del rabbinato e che improvvisamente fosse stato
colto da questa sconvolgente passione per Descartes, la scienza moderna, ecc.,
che lo traviò trascinandolo lontano. Non è vera, o almeno non accertabile,
sopratutto la prima parte, cioè che fosse un giovane dotatissimo per
l’ebraismo. Si tratta di affabulazione leggendaria, comprendibile visto il
personaggio e i suoi percorsi di vita e di pensiero. E c’è da dubitare anche
del fatto che Spinoza fosse dotato di una cultura ebraica sterminata e che, come
voleva uno dei suoi primi biografi, Lucas, avesse già letto, a diciotto anni,
più e più volte il Talmud (uno studioso moderno, Meinsma, alla fine
dell’800, commenta che, se si va a vedere cosa sia il Talmud, non si può che
rimanere perplessi di fronte a quell’affermazione). Forse Spinoza non aveva
neppure un’eccessiva conoscenza delle basi della tradizione ebraica. Certo,
aveva frequentato per diversi anni la scuola ebraica di Amsterdam, una scuola
nata di recente, come tutta la comunità peraltro, ma molto ebraicamente
agguerrita e bene organizzata. Il discorso della cultura ebraica di Spinoza va
comunque ridimensionato, rispetto alle molte esagerazioni del passato.
Non c’è dubbio però che certe “cose ebraiche” Spinoza
le aveva studiate. Aveva certamente studiato la filosofia ebraica. Conosceva
piuttosto bene Maimonide, e lo conosceva in ebraico. E’ stato sicuramente in
grado, verso la fine della sua vita, di scrivere un Compendio di grammatica della lingua ebraica, che è rimasto
incompiuto e che è stato pubblicato insieme all’Etica e ad altre opere nel volume delle Opere inedite che ho citato prima. Questa grammatica denota, se non
un’eccelsa e “aggiornata”, anche per i tempi, conoscenza della lingua
santa e di tutti i suoi segreti, almeno una buona dimestichezza con l’ebraico
biblico. Dall’ Epistolario invece
(almeno secondo l’interpretazione di Geneviève Brykman, una studiosa francese
dei nostri giorni) si potrebbe intendere che Spinoza considerasse l’ebraico la
propria “lingua colta” originaria, quella cioè in cui forse avrebbe dovuto
esprimersi, essendo la lingua in cui era stato educato a pensare, anche se le
sue “lingue madri” furono, com’è molto probabile, lo spagnolo e/o il
portoghese, cioè le lingue di tutti i giorni utilizzate dagli Ebrei
“portoghesi” che si erano rifugiati ad Amsterdam e che non disdegnarono di
scriverci anche trattati teologici e cabalistici. Un certo rapporto con questa
sua educazione Spinoza lo aveva e lo conservò sempre, sino alla fine; e non
poteva essere diversamente. Ma si trattava, appunto, di Spinoza, cioè di una
personalità che, in modo magari superficiale, sapeva trarre da tutto il
massimo, anche ciò che solo più tardi avrebbe potuto utilizzare al meglio.
A questo punto: quale può essere una strada per rimescolare
le carte e per vedere come, nei fatti, questo rapporto con la tradizione -e in
particolare, visto lo spunto promesso dal titolo della presente comunicazione,
con la Qabbalah- possa essere
rintracciato, con risultati non troppo prevedibili, in Spinoza? Dapprima,
occorre fare ancora una brevissima osservazione sul contenuto del pensiero
spinoziano.
Ho detto prima che l’Etica
di Spinoza parte con il discorso relativo alla Sostanza, definendolo in
successione attraverso varie tappe. Utilizzando, qui come altrove, concetti che
provenivano dalla tradizione filosofica, dai recenti aggiornamenti cartesiani e
dalle discussione nell’ambito del cartesianesimo, egli parla, anzitutto, della
causa sui per arrivare a definire la
Sostanza, poi Dio, poi la Natura e tutto il resto (con identificazioni
successive, secondo la linea causa sui /
Sostanza / Dio / Natura).
Peccato che quest’opera si chiami Etica e che, dopo un primo libro dedicato a Dio, nei restanti
quattro libri si passi ad occuparsi dell’uomo. E si chiama Etica non a caso. Spinoza infatti, certo non ingiustamente, è
passato alla storia come il filosofo “al di là della morale”, dal momento
che non fa un discorso di morale “positiva”, ma piuttosto un discorso in
chiave di conoscenza, di come vadano le cose, e quindi di necessità
dell’Essere, quanto di più contrario alla morale tradizionalmente intesa si
potesse immaginare. E tuttavia egli propone un preciso modello di rapporto tra
l’uomo e il mondo (oltreché, implicitamente ed esplicitamente, tra l’uomo e
gli altri uomini; e anche nell’Etica
ci sono considerazioni di tipo squisitamente politico, molto vicine, nella loro
radicalità, a quanto già detto nel Teologico-politico,
e anche in un altro scritto, anch’esso lasciato incompiuto, ch’era il Trattato
politico).
Per quanto si vogliano e si possano cambiare le carte in
tavola, l’indagine filosofica di Spinoza culmina, nella quinta e ultima parte
dell’Etica, in un’interrogazione
sul rapporto tra l’uomo e Dio, cioè, per usare senza ambiguità il linguaggio
spinoziano, tra l’uomo e quella Sostanza di cui l’uomo è parte e
manifestazione. E il rapporto tra uomo e Dio va ben oltre le coordinate
puramente conoscitive, o conoscitive in senso stretto, entro le quali pare
saldamente incanalato.
Ciò, tra l’altro, ha fatto dire ad alcuni interpreti, che
il discorso spinoziano è alquanto schizofrenico, poiché, da un lato, abbiamo
uno Spinoza che, pur parlando di Dio e di altre cose del genere, praticamente ci
offre una visione “scientifica” e straordinariamente “fredda” del mondo
e della vita umana nel mondo (si tratta, più o meno, dello Spinoza dei primi
quattro libri dell’Etica), mentre,
dall’altro lato, abbiamo l’ultimo libro che, come ha detto un critico
contemporaneo, Bennett, è pura mistica, da prendere e buttare, dal momento che
non serve a nulla. Lo Spinoza che conta, lo Spinoza moderno e rivoluzionario dal
punto di vista filosofico ed epistemologico, è quello dei primi quattro libri.
Poi, ad un certo punto, comincia a vaneggiare di una qualche specie di eternità per la mente dell’uomo (e per l’uomo
tutto, visto il parallelismo di pensiero, estensione, ecc,), comincia a parlare
di amore intellettuale di Dio, di fase
suprema del conoscere, di conoscenza
delle cose particolari in Dio e di Dio attraverso le cose particolari; e si
tratta pur sempre del Dio-Sostanza, quello di cui si parla... Ad un certo punto,
insomma, Spinoza “salta” nella mistica, una mistica certo molto
“teoretica”, più disciplina intellettuale che deliquio e abbandono, volta
ad un ideale di conoscenza, e purtuttavia qualcosa di incomprensibile e
immotivato, date le premesse. Ma quest’ultimo salto non è per niente
immotivato, com’è ovvio. Altri interpreti hanno argomentato la profonda, e
“circolare”, coerenza interna dell’ Etica,
ben oltre quella esibita da Spinoza, che, com’è noto, ha redatto la sua opera
maggiore secondo un ordine geometrico, facendone cioè, nella forma, una specie
di trattato di geometria, con assiomi, definizioni, proposizioni, dimostrazioni,
ecc. (ma anche con possenti introduzioni, appendici e scolii,
che costituiscono spesso piccoli e liberissimi trattati rispetto alla “linea
deduttiva” principale).
Il discorso di Spinoza, dunque, sbocca in una peculiare
visione del rapporto che intercorre tra l’uomo e Dio. Che cosa, in tutto
questo, ci sia di razionalistico e che cosa, invece, di mistico è un problema
aperto, difficile da discutere qui. Ciò che si può suggerire è che, quando si
parla del confronto di Spinoza con la tradizione ebraica, si dovrebbe tentare di
andare oltre quelle problematiche più appariscenti, e pur importanti, che
Spinoza mette a nudo forse per primo e che tutti gli Ebrei hanno, da allora,
dovuto affrontare. E non soltanto gli Ebrei, ma tutti gli uomini “moderni”,
indistintamente, perché si tratta appunto dei grandi temi della modernità,
della secolarizzazione politica, ecc. Né si tratta soltanto di cercare
elementi, più o meno connessi l’uno con l’altro, di influenza ebraica sul
filosofo, nella linea dello Spinoza “dalle mille fonti”, tra le quali si è
pensato di poter trovare di tutto, dai presocratici all’ontologia scolastica,
a dosi massicce di Giordano Bruno e di naturalismo rinascimentale; e in questo
tutto trovano un loro posto naturale anche le cose ebraiche.
In realtà, il discorso interessante da svolgere sarebbe
proprio quello, globale e “senza rete”, del confronto tra Spinoza e la
tradizione intorno al “discorso su Dio” degli uomini. E si fa qui
riferimento alla tradizione ebraica, la tradizione interpretativa che comprende
tanto filosofi medievali “razionalisti”, alla Maimonide, quanto la Qabbalah
e, ancor prima, il grande tronco originario della tradizione ebraica, cioè il Talmud, la sapienza rabbinica, la pratica del commento dei testi,
che non è solo il commento alla Bibbia, ma anche il commento alla Mishnah,
al Talmud, e poi il commento ai commenti... La tradizione ebraica,
insomma, a partire dal primo testo, che non è neppure la Bibbia nella sua
interezza, ma piuttosto la Torah, il Pentateuco, come luogo archetipico della
narrazione, della Legge e dell’Essere.
Io credo -e in questa direzione, peraltro ancora aperta, ho
svolto pure le mie ricerche più “accademiche”, di cui certo non pretendo di
esporre qui i risultati- che la chiave fondamentale per comprendere dal didentro
la questione “Spinoza e l’ebraismo” sia proprio quello della
“tradizione” e dei suoi diversi, possibili significati, un nodo affrontato
da Spinoza, non sempre nel modo più esplicito, soprattutto, e ancora, nel Trattato
teologico-politico. Ciò che si evince con una certa facilità è che per
Spinoza la tradizione ebraica è tanto più inaccettabile quanto più essa sia
stata messa al servizio di interessi, diciamo così, “umani, troppo umani”.
Quando, per esempio, come si è esemplificato più sopra, la tradizione è
utilizzata dai sacerdoti e dai “Farisei” che vogliono per sé il potere
teologico-politico, rifacendosi magari a un possesso “autoritativo” del
testo biblico e a una letteralità del medesimo testo che va preso secondo quella che,
appunto, è la tradizione, l’unica, vincolante tradizione nelle salde mani dei
suoi “professionisti” e padroni. Così, per fare un esempio ancora più
ravvicinato, tipico obiettivo polemico di Spinoza è la tradizione massoretica,
cioè la tradizione di quanti, nei primi secoli dopo Cristo, e soprattutto dal V
sec. in poi, avevano fissato il testo della Bibbia, con tutte le varianti, a
lato, delle lectiones marginales, come
le chiama Spinoza, e avevano sostenuto che quello, e non altri, era il testo
dato da Dio a Mosè sul Monte Sinai, a suggello del patto tra la divinità e il
popolo ebraico.
La polemica spinoziana, insomma, è indirizzata soprattutto
contro gli usi, per così dire, in senso lato, antropocentrici della tradizione, quando essa viene asservita al
potere e, più in generale, agli interessi degli uomini. E tanto più qualora si
tratti di un gruppo di uomini, o anche di un popolo intero, che pretenda,
attraverso la tradizione, di poter accampare una propria superiortà spirituale
e/o politica rispetto agli altri popoli.
Il disorso di Spinoza, però, cambia sensibilmente, per tono
e contenuto, allorché si tratta di concepire la tradizione come
un’ininterrotta e non pregiudicata ricerca intorno al rapporto tra l’uomo e
Dio. E’ innegabile che la tradizione ebraica avesse al suo centro una
concezione di Dio trascendente e creazionista. Ma non erano mai neppure mancati
spunti che avevano sfondato quella cornice e che, nella loro rigorosa e
disinteressata “tensione verso Dio”, potevano bene fornire stimoli anche ad
un pensatore dell’immanentismo radicale
come Spinoza.
In effetti, Spinoza, in un passo dell’Etica (II, prop. 7, scolio) accenna a tradizioni ebraiche
-rintraccabili, per noi, in più direzioni; e anche questo è significativo- per
le quali in Dio conoscenza, conoscente e conosciuto coincidono.Si tratta di una
dottrina presente in Maimonide e in molta parte della Qabbalah, e che aveva originariamente un significato molto diverso
da quello che Spinoza gli vuole attribuire lì, e che è poi, praticamente, la
coincidenza di tutto in Dio. E’ significativo però che Spinoza vi si richiami
e parli di un’autentica tradizione ebraica come “discorso su Dio” che lui
ricorda e che può essere recuperata. In una delle sue ultime lettere poi (la
LXXIII, destinatario Henry Oldenburg) egli parla di una sua concezione
fondamentale, cioè che tutte le cose sono in Dio, accreditandola come
l’antica opinione che possiamo trovare in quasi tutti i filosofi greci, in
Paolo di Tarso (che Spinoza amava moltissimo, anche se è un Paolo interpretato
molto sub specie spinoziana) e
soprattutto in tutti gli antichi Ebrei, “per quello che possiamo comprendere
dalle loro tradizioni che ci sono giunte molto adulterate”. Già in un’opera
giovanile, i Pensieri metafisici,
appendice di un’operetta che aveva scritto e pubblicato nel 1663 intorno ai Principi
della filosofia di Cartesio, la prima opera di Spinoza ad essere pubblicata,
egli rinvia (2,VI) ad un’antica sapienza ebraica per la quale la vita e Dio
coincidono. Per il Dio vivente degli Ebrei la parola “vita” non viene
utilizzata come se si trattasse di una cosa separata dal soggetto, come avviene,
per esempio, quando si parla della vita del faraone, ma si parla -e in ebraico
il tutto è soltanto un cambio di punteggiatura, quindi di vocalizzazione-
appunto di un Dio vivente, poichè la vita è tutt’uno con Dio.
Tutti questi non sono affatto segnali da poco. Per quanto qui
non si possa argomentare e saltabeccare dal testo di Spinoza (soprattutto il Trattato
teologico-politico) al Talmud, emerge tuttavia, con una certa chiarezza, che
la tradizione, per Spinoza, da un lato non deve essere intesa come un sapere
dogmatico, antichissimo, o presunto tale, e definito una volta per sempre,
mentre, dall’altro, a Spinoza interessa moltissimo un discorso su Dio, anche
qualora venga svolto nei termini trascendentistici, in senso lato,
dell’ebraismo, che tenda con tutte le proprie forze al cuore del “Dio
vivente”; in particolare, poi, se si consideri, come Spinoza, l’uomo e tutte
le cose come manifestazione di quel medesimo Dio.
Su questo sfondo, l’interpretazione, cui ho accennato
prima, per la quale Spinoza sarebbe un feroce anti-fariseo, andrebbe attenuata.
Ci sono infatti dei passi, nel Teologico-politico,
in cui la sua polemica si fa ancora più acre -o meglio, più che acre,
definitiva- nel rifiuto dell’atteggiamento mentale dei nemici storici dei
Farisei, cioè i Sadducei. Spinoza esprime un reciso rifiuto di chi creda che la
verità, come credettero i Sadducei, stia nel testo biblico senza bisogno di
ulteriore interpretazione e senza sviluppo, in una concezione della verità come
fisso e rigido ancoraggio, veneranda antichità, autorità assoluta. Un discorso
del genere convince Spinoza ancor meno, infinitamente meno, di quanto lo possa
interessare un discorso come quello della tradizione ebraica “vincente” dei
Farisei e dei rabbini, in cui l’interpretazione del testo si fa
interpretazione virtualmente infinita del mondo, delle cose, della realtà, di
Dio.
Resta un’indagine tutta da svolgere, quella di un confronto
puntuale tra l’onotologia spinoziana, il modo in cui Spinoza parla
dell’Essere e dell’articolazione dell’Essere, e l’emeneutica talmudica,
dalla circolarità virtualmente inifinita. Certo, si tratta di un discorso molto
difficile e pieno di insidie, anche perché, e non lo si può sottovalutare,
l’ontologia spinoziana è molto lontana dalle prospettive ermeneutiche
moderne, perché Spinoza pretende di occuparsi dell’Essere e non di parole o
interpretazioni. Comunque, nella misura in cui, per l’asse portante della
tradizione ebraica, l’ermeneutica “tocca” l’Essere, anzi è il solo modo
possibile di parlare dell’Essere, facendolo passare attraverso il filtro
dell’interpretazione, quel confronto ravvicinato è più che fattibile, anche
se ancora tutto da fare, e con la massima serietà.
Per ricondurci, infine, agli spunti riguardanti la Qabbalah,
occorre osservare, innanzitutto, che Spinoza, a modo suo, non fa che riflettere
uno degli aspetti più profondi dell’ebraismo, cioè la difficoltà a
distinguere, anche nelle diverse tradizioni di pensiero, tra razionalismo e
mistica. Nell’ebraismo c’è la Qabbalah
e c’è Maimonide, ma in quest’ultimo c’è tutto un versante messianico,
cabalistico, pre-cabalistico o post-cabalistico, o comunque di mediazione tra
temi che sono comuni con la Qabbalah e
con la sua tradizione. In realtà, è proprio nell’ebraismo, da sempre, che è
impossibile distinguere tra scienza disincantata di Dio e del mondo e
“passione calda” relativa ai rapporti tra Dio, il mondo e gli uomini. E
Spinoza, certamente in un ‘atmosfera diversa, con davanti Cartesio, il
natuiralismo rinascimentale, la scienza moderna, sembra riproporre questo
problema di fondo, questa circolarità di atteggiamenti, questo coincidere di
problemi.
Per ciò che riguarda in particolare la Qabbalah, c’è una sola citazione, un unicum in tutte le sue opere, in cui Spinoza parla dei cabalisti, e
ne parla molto male. Nel nono capitolo del Trattato
teologico-politico, il filosofo scrive di aver letto e per di più
conosciuto personalmente alcuni cabalisti fanfaroni e impostori, “la cui
insania di mente non smette di meravigliarmi”. E’ vero che anche con
Maimonide Spinoza fa una cosa simile, parlandone male -quando ne parla- e
attingendone a piene mani, in modo evidente e in più di una occasione. L’anti-cabalismo
espresso da Spinoza non sarebbe dunque molto significativo, tanto più quando si
pensi che gli studiosi si sono sbizzarriti nel trovare assonanze, più o meno
letterali, tra il pensiero spinoziano e quello cabalistico -una tradizione molto
vasta, con correnti e direzioni molto divergenti e differenziate tra di loro. Ma
la caccia alle assonanze e ai contenuti, soprattutto in campo cabalistico, è
quanto mai scivolosa e ingannevole, dal momento che si può dire tutto e il
contrario di tutto, interpretando opportunamente. Non bisogna scordare poi che,
ai tempi di Spinoza, la Qabbalah era,
almeno da due secoli, al centro dell’interesse di tutto, o di buona parte, del
pensiero occidentale, perlomeno dall’Umanesimo e dal platonismo rinascimentale
in poi. Certo, a Cartesio non interessava più di tanto, ma a molti altri
tantissimo. E dunque le tematiche cabalistiche Spinoza non aveva neppure bisogno
di attingerle dalla Qabbalah autentica
e originaria. Oppure poteva, come qualche interprete ha dimostrato -dimostrato
come si possono dimostrare queste cose, cioè in modo non definitivo- attingerle
anche da un cabalista molto recente, Abraham Cohen Herrera, che aveva vissuto ad
Amsterdam e che nella sua opera Puerta del
cielo faceva un discorso su Dio le cui assonanze con il primo libro dell’Etica sono profonde e quasi conturbanti, anche dal punto di vista
dell’immanenza (naturalmente, con
tutti i distinguo del caso, visto che uno era il testo di un Ebreo pio
dell’epoca, mentre l’altro quello di Spinoza).
Queste tematiche (che sono poi quelle del rapporto tra
l’uomo e Dio e delle possibili modalità di tale rapporto, a partire dal
rapporto ancora più originario tra Dio e il mondo, che i pii ebrei e cristiani
potevano vedere come rapporto tra il Creatore e il creato, ma che poteva anche
essere letto con altre chiavi) circolavano largamente. E, inoltre, davvero non
si può escludere che Spinoza si sia ispirato anche allo Zohar o a qualche altro testo della tradizione cabalistica.
Tutto
questo, però, non pare essenziale né decisivo, se si tenga presente quel
discorso, abbozzato sopra, del confronto “globale” di Spinoza con la
tradizione ebraica. A Spinoza, se interessa “positivamente” la tradizione,
interessa anche quella espressa nel Talmud
e nella letteratura rabbinica in genere (che peraltro è piena, da sempre, di
spunti cabalistici). Il discorso della tradizione diventa allora soprattutto il
discorso su Dio, un discorso su Dio che non sia sservito a interessi umani, non
sia abbassato alla misura più vasta della vita dell’uomo. Da questo punto di
vista, l’ideale conoscitivo di Spinoza si contrappone fatalmente a qualunque
utilizzo politico, antropocentrico, “umano, troppo umano”
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