Occore
fare qualche premessa e una precisazione.
Essendo
il tema in questione alquanto vasto e impegnativo, quello che ho scelto è
soltanto uno dei possibili percorsi.
Si tratta -lo posso assicurare- di un percorso molto meditato, nel corso degli
anni, intorno ad un ordine di pensieri su cui ho già fatto in tempo a tornare
molte volte. E’ dunque, a tutt’oggi, e anzi oggi
più che mai, per me, un percorso in
fieri.
In
secondo luogo, è chiaro come non si possa parlare, semplicemente, di “cultura
ebraica nella modernità”, poiché significherebbe dover parlare di decine di
cose molto diverse, percorrendo sentieri lontanissimi l’uno dall’altro. In
questa sede, piuttosto che parlare di alcune figure dell’ebraismo moderno o
del pensiero che lo rappresenta, verranno suggerite, semmai, delle figure
di quell’ebraismo, non nel senso di “persone” o “personalità”, ma in
quello di vere e proprie figure, cioè configurazioni
della condizione ebraica moderna, pur sempre rimandando, naturalmente, qualora
se ne presenti la necessità, a singoli pensatori e a quanti si siano resi
protagonisti o abbiano elaborato, sotto qualsiasi forma, quelle configurazoni
medesime.
Confido,
tra l’altro, sul fatto che già qualche anno fa è stato tenuto in questa sede
un corso intorno ai rapporti tra l’ebraismo e la cultura moderna, con
successiva pubblicazione degli atti (cfr. AA.VV., La
tradizione ebraica e la cultura dell’Occidente, “I quaderni della
Porta” n. 1, Juvenilia, Bergamo 1990). In quell’occasione erano state
appunto esaminate alcune figure di grandi pensatori ebrei contemporanei;
pensatori che, guarda caso, sono sempre tutti, ebraicamente,
molto problematici. Poiché una delle caratteristiche dell’ebraismo moderno è
proprio quella di essere difficilmente circonscrivibile nell’ambito ebraico.
Anche quanti negli ultimi due secoli, e più precisamente nell’ultimo, si sono
definiti, per esempio, “filosofi ebrei”, rivendicando con orgoglio per sé
tale identità e qualifica, non sono tuttavia, com’è evidente, “filosofi
ebrei” nello stesso senso in cui lo fu, per esempio, Maimonide. Con l’età
moderna è avvenuto un cambiamento di prospettive; è soprattutto cambiata, via
via, la condizione ebraica nel mondo, rispetto ai parametri tradizionali. E, a
ben vedere, è proprio questo a costituire problema. Ecco perché, a maggior
ragione, preferiamo esaminare “situazioni” invece che il pensiero di
qualcuno. In fondo, già nel precedente intervento si è considerato, con
Spinoza, il prototipo degli intellettuali ebrei nell’età moderna. Ed era, da
questo punto di vista, il più problematico di tutti, non solo perché era il più
antagonistico e radicale.
La
seconda questione preliminare va ben oltre l’orizzonte ebraico. Quando si
parla di modernità si intendono moltissime cose diverse: bisogna, quindi,
esemplificare caso per caso. Per gli Ebrei, poi, è tutto più complicato. Essi,
infatti, -caso unico al mondo- vivono una doppia modernità, o, perlomeno,
costituiscono il gruppo umano che più di altri mostra una certa, fatale consapevolezza
di tale particolare dialettica. Vivono, cioè, la modernità degli altri, che
ricade loro sempre addosso, nel bene come nel male. Ma vivono pur sempre il
problema della loro modernità, quella
che si sviluppa, se si sviluppa (vedremo poi meglio e più da vicino i termini
della questione) dalla loro cultura e dalla loro tradizione. In realtà, è
evidente come le due modernità non siano sempre distinguibili e districabili. E
questo è ancora il problema di cui si accennava all’inizio. C’è sempre un
intreccio, molto complesso, tra ciò che viene dall’ebraismo e ciò che invece
agli Ebrei viene da fuori. L’interazione, certo, è continua e non può essere
diversamente. Né particolarità e universalità stanno sempre, in questa
dialettica ebraica interno/esterno, dove ci si aspetterebbe di trovarle.
Prendiamo
quello che pare essere un principio o,
almeno, un momento di svolta della modernità storica e politica, e senz’altro
il principio formale -ma non per
questo meno importante- della modernità ebraica, e cioè la Rivoluzione
Francese (d’ora in poi: R.F.).
Come si sa, gli Ebrei ottengono con la R.F., per la prima volta in Europa (poiché
in America gli Ebrei erano stati “cittadini come tutti gli altri”,
all’atto stesso di fondazione della nazione americana), l’emancipazione, cioè
la piena parificazione ed uguaglianza di diritti civili e politici con tutti gli
altri cittadini.
Non
va dimenticato, intanto, un piccolo particolare: con la R.F. gli Ebrei
conquistano, con qualche non essenzialissimo ritardo, ciò che anche altri
uomini conquistano veramente per la
prima volta, vale a dire quei diritti che tutti i cittadini ottengono, precisamente
in quanto cittadini, contemporaneamente. Tuttavia, anche prima della Grande Révolution, per esempio nell’Olanda del Seicento -proprio
l’Olanda di Spinoza-, gli Ebrei avevano ottenuto di fatto un’emancipazione sostanziale,
la libertà cioè di essere Ebrei e di non essere infastiditi in alcun modo per
questo, di non essere discriminati e di poter svolgere (quasi) qualunque attività
loro piacesse. Per inciso, nella stessa Francia pre-rivoluzionaria c’era un
nucleo di Ebrei concentrato nella parte sud-occidentale del paese (per
intenderci, intorno alla città di Bordeaux, proprio in quel dipartimento della
Gironda che ha dato poi il nome ai Girondini), anch’essi provenienti dalla
Diaspora marrana, che godevano di fatto degli stessi diritti dei loro omologhi
nel resto della popolazione. Naturalmente, il ricco godeva di certi diritti e il
povero non godeva di altri, ma, grosso modo, si trattava delle medesime
prerogative, proprio perché questi Ebrei, che tutti, a partire dall’autorità
pubblica, sapevano essere Ebrei, erano formalmente dei buoni cristiani. Grazie
ad una sorta di finzione giuridica, ch’era pure un segreto di Pulcinella,
vivevano in piena libertà: potevano andare in Sinagoga, praticare il commercio
e i comandamenti. Si trattava insomma di un’emancipazione sostanziale,
esattamente come quella di cui godevano, da più di un secolo, i loro
confratelli olandesi. Emancipazione sostanziale,
certo, quindi non formalmente riconosciuta. Ma tale differenza tra emancipazione
sostanziale ed emancipazione formale non è, a sua volta, solo questione di
forma, dal momento che implica una rilevante serie di “contenuti”. Già nel
precedente intervento su Spinoza dicevo che ad Amsterdam, ed in generale in
Olanda, gli Ebrei erano sì liberi, in un certo senso, e per le cose essenziali;
ma non erano liberi, per esempio, di non essere Ebrei, o semplicemente di essere un po’ troppo eterodossi,
scostandosi da ciò che ci si attendeva ragionevolmente da loro; non erano
liberi di portarsi su posizioni intellettuali e religiose troppo radicali. In un
certo senso (e neanche troppo paradossale) gli Ebrei erano liberi soltanto
di essere Ebrei “normali”.
Ora,
il problema essenziale che la R.F. pone, non soltanto agli Ebrei, è, in realtà,
quello di una libertà di fare di se stessi ciò che si vuole (e lasciamo
naturalmente da parte qualunque discussione sulle contraddizioni della
Rivoluzione, da allora ad oggi). Non è un caso, in effetti, che, anche di
recente, in ambienti intellettuali ebraici di alto livello, soprattutto in
Francia, non sia mancato chi ha sostenuto che la R.F. è stata, per i suoi
effetti a breve e a lungo termine, la più grande catastrofe della storia
ebraica: il fatto di permettere agli Ebrei di allontanarsi dal Ghetto ha portato
alla disfatta e alla distruzione del mondo tradizionale, di quella “dimora”,
come l’ha definita uno di questi intellettuali, Shmuel Trigano, che gli Ebrei
hanno troppo frettolosamente abbandonato per avventurarsi nel mondo. Gli Ebrei
sono stati liberati, sono usciti dal Ghetto, sono divenuti, da solida e coesa
comunità qual erano, “atomi individuali”, finendo così per perdersi. Il
problema, che noi stiamo osservando sotto specie ebraica, riguarda in realtà
tutti: si tratta della difficile libertà
dei moderni, per cui, caduti tutti gli “ordini” tradizionali, ogni
individuo “vale per se stesso”, è libero di fare di se stesso ciò che
vuole, anche, per ipotesi, di trasformarsi in un non-più-ebreo, o, più spesso,
in una persona che si è allontanata drasticamente dalla “casa” comune.
Diventa
allora interessante ripercorrere alcune delle posizioni, sostenute in Europa
anche prima della R.F., a favore dell’emancipazione degli Ebrei, alcune
interne al mondo ebraico e alcune esterne.
La
prima - già richiamata nel precedente incontro- è forse, dal punto di vista
teorico, la più “avanzata”; essa è incarnata da Moses Mendelssohn (nonno
di Felix Mendelssohn Bartholdi, musicista famoso per la sua Marcia Nuziale).
Esponente dell’Illuminismo tedesco, oltre che caposcuola della Haskalah,
l’Illuminismo ebraico, egli era impegnatissimo nel dibattito filosofico e
politico intorno alla condizione degli Ebrei nei vari stati tedeschi dalla metà
del Settecento in poi. Mendelssohn
aveva chiarissimo in mente quale fosse il percorso da seguire (si veda
soprattutto il suo Jerusalem, o sul potere
religioso e il giudaismo, del 1783): occorreva anzittutto sganciare
completamente la causa religiosa, tutte le cause religiose, dalla causa del
potere politico. Si trattava, quindi, da un lato di dichiarare e realizzare l’uguglianza
politica di tutti i cittadini, e dunque anche degli Ebrei; e dall’altro di
lasciare libertà di espressione alle religioni (e al dialogo, anche, fra le
religioni), ma soprattutto allo sviluppo della vita religiosa dei diversi
gruppi. Con, in più, quella peculiarità mendelssohniana per la quale il
messaggio profondo dell’ebraismo doveva, necessariamente, sganciarsi da
qualunque connesione col potere politico e da qualunque utilizzo di esso (Mendelssohn
era fieramente contrario al principio stesso della scomunica), proprio per poter
esplicare per intero la propria universalità spirituale, pur restando sempre un
messaggio di cui gli Ebrei, e soltanto gli Ebrei, sono i legittimi depositari e
“portatori”. Il discorso di Mendelssohn è chiarissimo. E forse proprio per
questo egli è stato spesso frainteso e aspramente criticato (col più classico
“senno di poi”) dagli Ebrei venuti dopo, ma soprattutto dai contemporanei.
Sebbene non gli siano mai state negate le migliori intenzioni (si trattava pur
sempre di un uomo pio dal punto di
vista religioso, che non voleva assolutamente l’abrogazione o l’emenadazione
della Legge, anche se aveva proposto delle piccolissime riforme pratiche) e
sebbene sia poi diventato uno degli ispiratori del movimento ottocentesco di
Riforma dell’ebraismo in Germania, tuttavia egli era molto restio a promuovere
qualunque cambiamento nell’ambito della Halakah
e della Tradizione. Ciononostante, gli si è di fatto rimproverata, per le
conseguenze “dissolventi” che avrebbe avuto, la chiarissima distinzione tra
religione e politica, una distinzione, per di più, che, nella consapevole
prospettiva di Mendelssohn, non poteva che arrecare giovamento alla religione e
alla spiritualità ebraica, oltre che agli Ebrei intesi come collettività con
una “missione universale” da compiere.
Tra
i non Ebrei (oltre al tedesco Christian Wilhelm Dohm, un vero e proprio
“funzionario di Stato”, che era amico di Mendelssohn e che scrisse un famoso
testo sulla Riforma politica degli Ebrei e
della loro condizione, pubblicato nel 1782), risulta significativa la
posizione dell’Abbé Grégoire, il più accanito sostenitore
dell’emancipazione ebraica già nell’Assemblea Nazionale del 1789. L’Abbé
Grégoire perorava la concessione di uguali diritti agli Ebrei, argomentando
che, per quella via, essi si sarebbero pure emancipati dagli aspetti più
antipatici, più “separatisti”, più arcaici che ancora
caratterizzavano la loro condizione nel mezzo della società
“gentile”. Eppure egli si spingeva oltre, dicendo (cosa, a dir poco,
straordinaria, anche dal punto di vista dell’apparente
contraddizione): “Emancipiamo gli Ebrei, perché vedrete che, una volta
emancipati, si convertiranno in massa al cristianesimo”. In un certo senso:
una volta rimossa la loro costrizione ad essere quelle che sono, gli Ebrei
arriveranno a comprendere che la verità e la vera bellezza dello spirito stanno
da un’altra parte.
Si
comprende come proprio gli intellettuali ebrei “revisionisti” e
“contro-rivoluzionari”, di cui parlavo prima, abbiano visto nell’Abbé Grégoire
quasi la personificazione di quell’intenzione malevola da parte del mondo
esterno verso gli Ebrei che, in modo quasi fatale, avrebbe portato a fare
dell’emancipazione il grimaldello definitivo, quello cioè più efficace, per
l’eliminazione “finale” dell’ebraismo e del popolo ebraico. E invece, in
un certo senso, Grégoire aveva capito, sia pure in modo un po’ troppo
interessato, l’essenziale, vale a dire non il fatto che gli Ebrei dovessero
convertirsi al cristianesimo, ma che l’emancipazione significava permettere
loro di essere quello che volevano, fino a riportarsi o rapportarsi anche
all’ebraismo in modi completamente diversi da quelli del passato, proprio in
quanto liberi da costrizioni e da un senso dell’identità imposto
dall’esterno (e introiettato dall’interno). Non a caso, già ai tempi della
R.F. una buona parte dell’establishment delle comunità ebraiche, soprattutto
l’establishment rabbinico, ma non solo, capì subito che l’emancipazione
costituiva una messa in discussione radicale dei rapporti precedenti. Ci furono,
per esempio, alcuni rabbini i quali chiesero alle autorità pubbliche di non dare agli Ebrei l’emancipazione, cioè la libertà, poiché
sapevano che si trattava, né più né meno, della fine del mondo ebraico
tradizionale com’era stato conosciuto sino ad allora, e sentivano
distintamente il grande e “perturbante” pericolo ch’era nell’aria.
E’
importante comprendere questo nesso tra uscita
dal Ghetto -evento simbolico e, spesso, molto concreto, perché fisicamente
gli Ebrei uscirono dai Ghetti- e la difficile
libertà dei moderni. Ma qui, a rendere peculiare il rapporto tra
l’identità ebraica e la modernità, interviene un altro aspetto, cioè il
fatto che quell’identità era sempre stata, per molti aspetti e facendo
astrazione dai momenti meramente istituzionali, un’identità molto speciale,
di tipo spirituale, che, sostanzialmente, nulla aveva a che fare né con
un’appartenenza di tipo nazionale
-comunque la si voglia intendere- né con il legame tra il popolo e il suo
“buon Re” o “buon Signore”. Quella ebraica era, piuttosto, un’identità
che esprimeva, come già aveva espresso in passato, un senso possibile della libertà dei moderni, cioè l’idea che si parta sempre da qualcosa
(nel caso degli Ebrei la propria Tradizione e la propria Legge) per farne,
attraverso di sé, qualcosa di nuovo e diverso, qualcosa di sempre individuale,
nello spirito -per intenderci- di un “Dio vivente” che garantisca
significato e “apertura dell’Essere” attraverso il popolo ebraico. Tutto
ciò , naturalmente, non nel senso che il popolo ebraico sia
il Dio vivente o anche solo privilegiato (eletto?) rispetto all’esperienza di
Quello, ma, piuttosto, con l’idea forte di uno “Spirito” richiedente che
ciascuno lo interpreti e lo arricchisca a modo suo, una volta chiaro che tutti
devono osservare la Legge o comuque riconoscersi nella tradizione comune.
Credo
che uno dei sensi più profondi attribuibili all’esperienza ebraica “di
sempre” sia proprio questo: il fatto di avere una Legge comune, ma, a partire
da quella Legge e da quella tradizione, prendere
il volo -l’interpretazione, per
intenderci- sul piano della vera (e niente affatto “spiritualistica”)
spiritualità.
Ebbene,
proprio su questo sfondo, gli Ebrei -come i contemporanei, da due secoli in qua,
hanno capito molto bene- erano forse meglio attrezzati per affrontare la
modernità, mentre ciò che accadde ben presto fu che la difficile libertà si
rovesciasse nella ricerca di nuovi ancoraggi. Non è un caso, per esempio, se
sia stato dopo la R.F., e non prima,
che si è sviluppata la mostruosità del nazionalismo moderno, i miti del
sangue, i miti del rapporto tra la terra e il popolo, di un popolo che
appartiene ad una terra, laddove, nel mondo di “prima della Rivoluzione”,
altri erano stati gli ideali e gli “ordini” della società e del mondo.
Insomma, tutti sappiamo -questo è l’ABC del discorso sulla modernità- che il
moderno è la libertà politica e la (possibile) democrazia e che, nello stesso
tempo, il moderno è anche -forse non soprattutto, come taluni sostengono- Auschwitz. La modernità è la
tensione tra, da un lato, un discorso di libertà universale in cui ognuno deve
sperimentare fino in fondo la propria libertà di individuo o anche di gruppo
(quando ci si identifica e ci si riconosce in idee condivise con altri); e,
dall’altro, il bisogno di opporre a questa inquietante libertà, difficile,
spesso inaffrontabile, qualcosa di molto solido che ci appartenga per sempre e
che nessuno ci possa sottrarre (per esempio, appunto, il rapporto con una terra,
il sangue, l’appartenenza a una razza superiore, l’appartenenza ad una
Nazione).
E’
ragionevole sostenere (al di là di tante, famosissime, “teorie
dell’antisemitismo”, come ad esempio quella di Hannah Arendt) che la molla
comune a tutte le forme di antisemitismo della modernità, fino al culmine
“razziale”, dal punto di vista teorico ancor prima che pratico, del nazismo,
sia proprio questa: il riconoscere nell’Ebreo non il “completamente
diverso”, ma semmai un altro, molto
simile a te, che però possiede delle risorse, qualcosa con cui riesce ad
affrontare gli stessi tuoi problemi in un modo diverso e più “vincente” del
tuo, restando ben ancorato all’ebraismo o anche più o meno allontanandosene.
E quando pure si allontana dall’ebraismo, almeno ai livelli più alti e
significativi -poiché anche gli Ebrei hanno il diritto di essere talvolta
persone con uno spirito piccolo piccolo e volto soltanto a vivere in pace la
propria esistenza-, lo fa per volgersi verso direzioni e posizioni di rottura
nella cultura, nella politica e in altri campi.
Si
può e si deve molto dubitare del “pregiudizio positivo” che vuole gli Ebrei
popolo “coltissimo”, in modo quasi connaturato, popolo che, com’è chiaro,
appena glielo si lascia fare, offre il meglio di sé. In altre parole, anche il
sottolineare troppo la partecipazione ebraica alla cultura alta e di
“rottura” può essere pericoloso, oltre che semplicemente errato, per alcuni
aspetti non marginali. Ma è indubbio che gli Ebrei hanno mostrato, nella storia
degli ultimi secoli, una capacità di affrontare la modernità -la “buona” e
liberatoria modernità- con uno spirito particolarmente “leggero”, molto
aperto e disponibile, anche, volendoci avventurare su un terreno un po’
scabroso, dal punto di vista economico. In effetti, il fatto che -e si tratta di
un caposaldo dell’immaginario antisemita!- l’Ebreo sia identificato nello
stesso momento con il proletario rivoluzionario (o il borghese rivoluzionario:
qui fa lo stesso), ma anche con il capitalista, può essere riportato al terrore
di molti per la modernità e le sue modalità, anche quelle più discutibili; e
potremmo discutere a lungo sull’accumulazione capitalistica, sui meccanismi
del denaro o sulla “perversione” insita nel denaro. Certo, proprio il denaro
è un bene “mobile” per eccellenza e qualcosa con cui gli Ebrei sembrano
talvolta -e sottolineo il “sembrano”- avere lo stesso rapporto di libertà
che intrattengono con la cultura, con lo “spirito”. E ciò,
nell’immaginario antisemita, non può che risaltare.
In
buona sostanza, quindi -e non è certo un discorso che si faccia qui per la
prima volta- l’antisemitismo moderno non è affatto paura del diverso, come può
essere il razzismo, in senso lato, ma è paura dell’eguale, di un eguale che,
però, fa cose diverse da noi e che porta con sé probabilmente un passato, un
presente e un futuro che ci inquietano, profondamente e in tutti i sensi,
qualunque cosa faccia effettivamente l’Ebreo in “carne ed ossa”. E così
arriviamo alle risposte, innumerevoli, che l’ebraismo ha cercato di dare a
questi snodi dell’identità, propria e altrui, nell’epoca moderna.
Ne
ho selezionate tre, quasi per caso, ma non del tutto, dal momento che, sia pure
per motivi diversi, mi stanno a cuore tutte e tre.
1. Anzitutto, c’è la Riforma
ebraica, di cui non starò a raccontare i contenuti. Si trattò, comunque,
di cosa soprattutto tedesca, nella prima metà dell’Ottocento e nelle diverse
realtà che caratterizzavano la Germania di allora. In seguito, il movimento si
trasferì in America, per gettarvi le più solide e sostanziose radici. Ed
infatti, a tutt’oggi, l’ebraismo statunitense è, per una buona metà,
riformato, secondo direzioni plurime, dal momento che non c’è una sola
Riforma. Forse in uno spirito analogo a quello del Protestantesimo, sono sorti
quasi subito indirizzi anche molto diversi l’uno dall’altro. Tuttavia, se si
va a vedere da vicino, si scopre, per esempio, che nell’Ottocento, accanto
alla Riforma, si sviluppò subito una Neo-ortodossia,
il cui padre riconosciuto fu un rabbino tedesco, Samson Raphael Hirsch; egli è
anche, di fatto, il padre di tutto l’ebraismo “occidentale” -compreso,
quindi, quello italiano- che sia rimasto, nell’ultimo secolo e mezzo,
“ortodosso”, cioè non abbia accettato in nessun senso sostanziale le
direttive della Riforma.
La
massima aspirazione di Samson Raphael Hirsch -che si concretizzò anche in
un’azione educativa sviluppatasi in Germania dalla metà del secolo scorso,
per poi espandersi in tutto il mondo, seguendo appunto le vie del moderno
“ebraismo occidentale”- fu quella di creare un Ebreo che, come egli lo
definiva, fosse un Mensch-Israel, cioè
un Uomo con la U maiuscola, che doveva essere anche
Israele e che anzi, nel suo essere Israele, trovasse gli spunti fondamentali
per il suo essere Uomo. E ancora, nell’idea di Hirsch, l’Ebreo doveva
assommare dentro di sé le migliori qualità della tradizione ebraica (per
Hirsch tutta la tradizione), insieme
con i prodotti migliori, compresi quelli “moderni”, dell’umanità senza
aggettivi. E non a caso, anche Hirsch e la Neo-ortodossia tedesca ebbero come
precursore riconosciuto Moses Mendelssohn, allo stesso modo dei Riformati. Il
problema quindi cui, da subito, tutti, indistintamente, cercano di far fronte,
è quello di coniugare ebraismo e universalità, appartenenza e identità
ebraica e, al tempo stesso, apertura al mondo, disponibilità, per esempio, ad
attingere dalla cultura mondana, senza preclusioni. Non a caso, come già
accennato -e si tratta di un particolare storico di grandissima rilevanza-,
quelle scuole, di cui Hirsch diede il primo esempio, sono poi sostanzialmente le
scuole ebraiche, sia pure non “riformate”, che si sono create un po’
dappertutto nel secolo successivo e che hanno dovuto affrontare sempre più il
problema di mettere insieme, da un lato, l’ebraismo pienamente vissuto e,
dall’altro, l’appartenenza al mondo, l’universalità.
Per esempio, e senza voler abbassare in nulla il livello del discorso con
questioni, all’apparenza molto terra-terra, di politica scolastica o poco più:
come si fa a far studiare a dei ragazzini tutta la tradizione ebraica, o almeno
qualcuna delle sue basi fondamentali, come fa normalmente una scuola ebraica, e
nello stesso tempo tutta la cultura, per così dire, “profana”? Si tratta di
una questione rilevante, che all’inizio sembrava non doversi porre, ma che
oggi emerge sempre di più in primo piano.
Già
la Riforma aveva mostrato quante ambiguità e difficoltà implicasse il rapporto
degli Ebrei con la modernità. Essa, infatti, fu anche, per una sua parte
essenziale, un tentativo di adeguarsi a ciò che facevano gli altri e che
sembrava, appunto, “moderno” o, comumque, auspicabile e “normalizzante”.
Un esempio tra tutti. Gli Ebrei potevano vedere i loro concittadini cristiani
-spesso, non bisogna scordarlo, protestanti- recarsi nelle chiese tedesche,
trovarvi una forte concentrazione spirituale e vivere molto dignitosamente un
certo tipo di religiosità. Gli Ebrei, invece, nella sinagoga, tradizionalmente,
vivevano e basta. Ne deriva che
l’esperienza più comune (e lo è ancora, per fortuna) era di entrare in una
sinagoga e sentire la gente chiaccherare e i bambini vociare rumorosamente. La
sinagoga è vista come una “casa di Dio”, non solo nel senso di un luogo di
eccelsa spiritualità, ma come luogo in cui, più che altrove, nella
prospettiva umana, aleggia una certa presenza; poi però si è nella
sinagoga come si è fuori. E allora ci fu nella Riforma questa volontà di
adeguare il rito ebraico, almeno un poco, a quelle forme esteriori, che erano
viste pure come un segno di modernità,
qualcosa di così auspicabile ed apprezzabile da riprodurne senz’altro
l’eguale.
Tuttavia,
in rapporto a questa tendenza imitativa dell’esterno, i problemi, da subito,
non mancarono. E, non a caso, le spaccature all’interno del movimento
riformato avvennero su questioni come l’uso della lingua ebraica. Quando si
cominciò a tradurre le preghiere e, in genere, il rituale liturgico nella
“lingua del popolo”, si giustificò la cosa dicendo che, in realtà -ed era
vero-, sin dai tempi antichi si era letta nel Tempio la Bibbia in aramaico e
che, in fondo, il Talmud aveva detto con chiarezza che si può e anzi si deve
usare la lingua del posto se serve a farsi capire dal popolo (ebraico,
beninteso). Ebraicamente e tradizionalmente, quindi, non si trattava di una
frattura irreparabile; e tuttavia, com’è chiaro, ciò che era sempre apparso
come un elemento fortissimo di unione, anche quando non si capivano più le
preghiere che si pronunciavano, non poteva essere eliminato da un giorno
all’altro. E molti avvertivano il pericolo che era implicito nel mettersi a
pregare in tedesco, in inglese, in francese o in italiano, con ormai più
soltanto un vaghissimo sentore della “lingua santa”.
Esisteva
dunque nella Riforma una forte tendenza ad “adeguarsi al mondo”, che
suscitava però fiere opposizioni. Ma le questioni sollevate dai riformisti
erano quelle stesse che l’ebraismo doveva
porsi, prima o poi, a partire da stesso e dall’interno.
Una di queste, forse la più rilevante, era quella relativa al ruolo della
donna, questione tra le più discusse e anche, almeno dal punto di vista di chi
scrive, più dolenti, nell’ambito dell’ebraismo: non subito, infatti, e
quasi più nel nostro secolo che in quello precedente, prima in alcuni indirizzi
riformati, poi via via negli altri gruppi e
infine adesso in quella grande realtà, tipicamente americana (ma non solo), a
mezza via tra Riforma e Ortodossia, dei Conservative, la Riforma ha portato alla figura della donna-rabbino.
Il problema tuttavia rimane aperto. E si tratta di uno di quei tipici problemi
che potevano e dovevano essere posti senza bisogno di vedere ciò che succedeva
nel mondo esterno, pur restando ben saldi all’interno
della tradizione. E infatti ci sono già oggi degli ortodossi (molto pochi,
per la verità) per i quali si arriverà, un giorno, probabilmente e com’è
nelle cose e anche nella giustizia divina, al rabbino-donna, anche se, per
arrivarci, bisognerà fare un certo percorso all’interno dell’ebraismo,
richiamandosi alla tradizione e lavorando finemente di interpretazione.
Esiste
quindi, senza dubbio, una dialettica del dentro
e del fuori, anche a livello
religioso, o meglio a livello più eminentemente
religioso; si tratta di una dialettica aperta, in cui le due modernità, quella ebraica e quella “esterna”, vengono a
continuo e diretto confronto.
2. Una seconda tipica risposta moderna, forse la più tipica, è il sionismo,
da cui non è lontanissimo, per ciò che ci interessa qui, il bundismo.
Nel 1897 viene fondato a Vilna il Bund, in pratica il partito operaio e
socialista degli Ebrei. E’ importante sottolineare che il Bund, in sostanza,
predicava un’identità e una vita nazionale degli Ebrei (che, per esempio,
potevano e dovevano utilizzare la loro lingua, per i bundisti più l’yiddish
che l’ebraico) nei luoghi in cui già vivevano, mentre dovevano nel contempo
solidarizzare e lottare con gli altri operai e “dannati della terra”.
Tant’è che qualcuno (forse persino Lenin) definì i bundisti dei “sionisti
con il mal di mare”, nel senso che non volevano andarsene da qualche altra
parte, attraversando il mare, ma rimanere lì a “fare” l’identità ebraica
“separata”. I bundisti, in realtà, non aspiravano affatto ad una identità
ebraica separata, ma volevano che l’identità ebraica restasse abbastanza
separata da sopravvivere in quanto tale, in quanto, appunto, “identità degli
Ebrei” (un’identità “laica”, tra l’altro, e quasi in nulla più
“religiosa”).
Per
molti aspetti, il sionismo (e si parla qui del sionismo politico, moderno, laddove esiste anche un sionismo religioso,
con tutta una serie di questioni che non si possono analizzare in questa sede)
significa, nella sua essenza, una volontà di “normalizzare” la condizione
ebraica, attraverso la vita nazionale in uno Stato proprio, con proprie leggi,
con piena disponibilità e responsabilità di sé, e poco altro di più. Tant’è
vero che un personaggio molto importante della vita israeliana ed ebraica di
questo secolo, morto nell’estate 1994, Yeshajahu Leibowitz, un grande
filosofo, uomo di fede e di scienza, nonché “semplicemente” studioso di
cose ebraiche, ha dichirato una volta -e si tratta a mio parere di una
definizione molto condivisibile, dal punto di vista del vissuto ebraico, oltreché
massimamente calzante con la realtà- che il sionismo è riassumibile in questa
formula: eravamo stufi di essere governati e diretti dai goìm
(i non-Ebrei). Dopodiché questa etero-dipendenza poteva addirittura volgersi in
ciò in cui si è volta, soprattutto nel nostro secolo, e cioè l’essere alla
mercé di chi voglia sterminare gli Ebrei. Ma, più in generale, si trattava
semplicemente di porre una condizione
iniziale, nulla più che un “nuovo inizio” imperiosamente richiesto dalla
storia e dall’esperienza ebraica. Lo stesso Leibowitz, una volta nato lo
Stato, si battè tutta la vita, in modo peraltro molto originale, per gli
obiettivi della sinistra israeliana; egli è anche colui che nel 1967 disse, per
primo, dopo la conquista dei territori: molliamo subito questi territori,
ridiamoli indietro, perché ci faranno perdere la nostra anima! Per Leibowitz,
infatti, lo Stato di Israele era solo una condizione e non un fine in sé; anzi,
per lui lo Stato come fine in sé, con gli annessi e i connessi della sua
“eticizzazione” e militarizzazione, non può essere altro che manifestazione
di fascismo. L’Ebraismo era
un’altra cosa e doveva riacquistare i suoi diritti nella vita degli Ebrei
all’interno dello Stato -al di là o al di qua della cornice “nazionale”-,
una volta superata l’eccezionalità originaria, quella appunto che aveva
spinto a “conquistarsi” lo Stato e destinata poi a venire meno. In altre
parole: o Israele sarebbe stato democratico o non sarebbe nato.
Nel
sionismo, d’altro canto, non si esprime solo una rinuncia all’identità
ebraica tradizionale o almeno una sorta di sua sterilizzazione, bensì anche la
consapevolezza, da parte ebraica, che la politica è una cosa importante, che ci
si possono dare le condizioni per esercitare una vita politica collettiva da
posizioni, almeno inizialmente e una volta tanto, “vantaggiose per noi”. Ma
soprattutto il sionismo e Israele significano nuove dimensioni culturali e
spirituali dell’identità. Un solo esempio: quanto può essere sconvolgente e
gravido di conseguenze tornare ad utilizzare la lingua ebraica, scriverci dei
libri che non siano più quelli “santi” della tradizione ed elaborare tutta
una cultura in una lingua ebraica “moderna”? E’ per questo e in tale senso
-ma il discorso è ovviamente più complesso- che un certo tipo di antisionismo
radicale, affermatosi in Europa e anche in Italia nei decenni scorsi, si
presenta, per un aspetto essenziale, come una forma, appena aggiornata e
mascherata, di antisemitismo. E infatti quell’antisionismo, ricondotto alle sue motivazioni ultime, è il rifiuto
opposto agli Ebrei, e soltanto -chissà perché?- agli Ebrei, di vivere in una
certa condizione, la condizione politica, appunto, ma anche una nuova condizione
“spirituale” da cui far derivare sviluppi vitali, e necessari, della loro
plurimillenaria identità.
Beninteso,
l’identità israeliana ha aspetti che riguardano tutta l’identità ebraica.
Quando, per esempio, David Grossman scrive libri in ebraico, la cosa riguarda
anche me, dal momento che l’utilizzo della lingua ebraica, avendo a che fare
con lo sviluppo dell’ebraismo, mi interessa e mi coinvolge. A riguardarmi,
naturalmente, sono anche i rapporti di Grossman con i palestinesi o i rapporti
politici all’interno dello Stato, pur essendo chiaro che si tratta di
problematiche riguardanti più specificamente i cittadini israeliani. Ci sono
anche, quindi, delle cose, attinenti alla politica, che riguardano Israele e la
sua vita di nazione più o meno “come le altre”. Qui si vuole soltanto
suggerire come il sionismo rappresenti, insieme, e qualche volta non senza
contraddizioni, normalizzazione e sviluppo
vitale nella e della identità ebraica.
3. C’è infine la risposta, o le
risposte, della modernità. Ho detto all’inizio che non mi sarei occupato di
singoli pensatori. Ma posso limitarmi a ricordare come uno dei temi portanti del
pensiero ebraico nell’ultimo secolo sia stato quello che si potrebbe definire
la missione ebraica nel mondo. Se si
prendono autori anche diversi fra loro (per limitarci a quattro: Elia Benamozegh;
Hermann Cohen; Leo Baeck, un grande rabbino tedesco della prima metà del
secolo; Franz Rosenzweig), troviamo sempre un elemento comune (soprattutto a
Benamozegh, Baeck e Rosenzweig): il cercare di definire i rapporti tra ebraismo
e cristianesimo, ma anche tra ebraismo e Islam, o tra ebraismo e sistemi ideali
e di pensiero di ogni natura, genere e provenienza, ponendosi sempre, sullo
sfondo, il problema del rapporto tra gli Ebrei e gli altri, e dunque del ruolo
degli Ebrei nella vita del mondo, nella storia del mondo e dell’umanità.
Questo è il tema che accomuna, sia pur con accenti diversi, questi pensatori. E
se andiamo a scavare, troveremo che spesso il pensatore ebreo -come quello che,
in generale e comunque, si vuole tenere collegato in qualche modo alla
tradizione- cerca di “pensare” quel rapporto e quel ruolo. A questo punto,
nel momento in cui la condizione, diciamo così, politica e quotidiana
dell’Ebreo viene a coincidere, per una sua parte essenziale, con la condizione
di tutti gli altri, la domanda che ci si può porre è: ma allora che ne è più
dell’ebraismo? che senso ha avuto mantenere sino ad ora tutto questo? E ciò
soprattutto se si considera che noi, sostanzialmente -ed è giusto che sia così,
come tutti questi autori riconoscevano-, dobbiamo vivere la stessa vita degli
altri, a livello politico, a livello di diritti e doveri, a livello di vita
associata; e, potremmo aggiungere, la dovremmo vivere ipoteticamente anche in uno Stato
ebraico, uno Stato come tutti gli altri e naturalmente
democratico, anche se magari non più
democratico degli altri Stati, come spesso, da parte dei non -Ebrei, si è
preteso.
Insomma,
per ripetere la domanda fondamentale: che ne deve essere, oggi, dell’ebraismo?
Se gli Ebrei “in carne ed ossa” condividono con tutti gli altri tanta parte
della vita “di tutti i giorni”, e anche di quella “ideale” (basti
pensare al “cielo della politica”), ci dobbiamo chiedere quale sia il senso
dell’ebraismo nel mondo moderno; o quello che ha sempre avuto, nella storia
dell’umanità. Tale domanda, già posta con forza dai personaggi sopra
nominati (e da molti altri ancora) i quali vi hanno dato risposte certo non
timide o reticenti, acquista, dopo Auschwitz, un nuovo spessore e una risonanza,
almeno per noi, a dir poco esplosiva. (E il nostro sostanziale silenzio sulla Shoah, in questa occasione, significa molte cose diverse, la cui
interpretazione lasciamo volentieri al lettore).
Avviandomi
alla conclusione, vorrei tornare su un tema già sfiorato a proposito di Spinoza,
un tema che mi è molto caro e che è stato riproposto anche da tutte le
considerazioni svolte sopra, come da altre che avrei potuto svolgere (restando
sempre, peraltro, nell’ambito di una scandalosa parzialità!): il problema
fondamentale dell’identità ebraica, nella modernità, è quello della secolarizzazione.
Come avviene e in cosa consiste, nel mondo ebraico, la secolarizzazione? e
proprio per ciò che il mondo ebraico presenta di specifico?
Già
via Spinoza ho suggerito scientemente
l’idea che il rapporto tra tradizione e modernità non possa essere
rappresentato, nell’ebraismo, sotto la specie di una netta frattura. Ma il
punto è che, come pure accennavo a proposito di Mendelsshon, non è solo la
politica a doversi emancipare dalla religione, bensì anche la religione dalla
politica. La modernità, per l’ebraismo, potrebbe anche avere il significato
radicale di porre in modo nuovo, e singolarmente trasparente -che però si deve
ricollegare, per avere tutto il suo
senso, con tutta la discussione
tradizionale-, il problema della destinazione spirituale degli Ebrei, o di chi,
per una ragione o per l’altra, abbia a cuore l’ebraismo. Chiaramente poi
ognuno è libero di allontanarsi e di non occuparsi più di questo, pensando
soltanto alla propria vita e mettendoci una pietra sopra. C’è gente, però,
ed è sempre più numerosa, che se ne preoccupa. Una cosa straordinaria
dell’ebraismo, infatti, e lo si vede in questi anni, è che, da un lato,
sempre più persone tornano alla religione, o, meglio, all’osservanza dei precetti. E
c’è proprio una parola ad esprimere questo, teshuvà,
“ritorno”, ma anche “pentimento” (nel senso ebraico, che poco a che fare
con quello cristiano). Ma, d’altro lato,
c’è sempre più gente che si interroga comunque sull’ebraismo, sul senso di tale condizione, su quella
che è l’eredità che la storia ci ha lasciato, l’eredità spirituale, si
intende, e non quella politica, che in un certo senso non abbiamo e che è
comunque poco diversa da quella di tutti gli altri. E, probabilmente,
secolarizzazione significa anche che, idealmente e “di fatto”, come la
tradizione appunto insegna, noi torniamo sotto il Monte Sinai e non riformuliamo il patto, ma forse per la prima volta lo viviamo
senza costrizioni e con una piena libertà, che lo rivivifica dall’interno. Il
risultato non lo so. Oso pensare che, per ottenere questo risultato, qualunque
esso sia, siano stato necessari proprio quegli sviamenti e quelle perdite -e non
alludo in nessun modo allo sterminio- che hanno caratterizzato l’ebraismo
moderno, e che tutto sia in qualche modo connesso al fatto che molti abbiano
scelto di non essere più integralmente ebrei o di allontanarsi di molto
dall’ebraismo.
Ricollegandoci
all’oggi, si ha spesso l’impressione che i nuovi/vecchi potenti, in Italia e
altrove, offrano agli Ebrei, come a tutti gli altri, proprio ciò che gli Ebrei,
o almeno la parte più cosciente di loro, non vogliono più, e cioè soltanto la
libertà di essere “corporativamente” Ebrei, gruppo tra i gruppi, con
un’identità tutta giocata al ribasso e ripiegata su se stessa. E’ invece la
libertà di “perturbare” se stessi e gli altri, così tipica dell’ebraismo
di oggi e di sempre, che va difesa, ogni giorno di più, con le unghie e con i
denti.
(testo
redatto dall’Autore)
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