Mosè
Maimonide è importante perché ha avuto notevole influenza anche sulla
Scolastica cristiana, in particolare su Tommaso d'Aquino. In ambito ebraico è
conosciuto, oltre che come maestro di pensiero, anche come decisore: se infatti
in ambito filosofico la sua opera più importante è La
Guida dei perplessi, non meno nota è un'opera di carattere, per così dire,
dogmatico, il Mishnè Torah, che
contiene la codificazione della normativa dell'ebraismo, testo che ancora oggi
è fondamentale. Prima, però, di occuparci del pensiero filosofico,
soffermiamoci a considerare qualche dato biografico e ambientale.
Mosè
Maimonide nasce a Cordova nel 1135, in
uno dei periodi più tranquilli e fecondi per gli studi, dal momento che la
Spagna di quel periodo già da diverso tempo si trovava sotto il dominio
musulmano. Convenzionalmente infatti, l'ingresso in Spagna dei Musulmani è il
715, dopo un periodo di dominazione visigota caratterizzato da un marcato
oscurantismo culturale e religioso. Si registra, oltre ad una serena convivenza
religiosa tra Islam, ebraismo e cristianesimo, anche una sinergia culturale,
specialmente in campo scientifico e filosofico. Maimonide stesso fu, molto
probabilmente, allievo di maestri arabi, per ciò che riguarda la sua formazione
medica; suo padre, insigne astronomo, aveva insegnato a studenti arabi; si ha
anche motivo di ritenere che molti cristiani fossero coinvolti in questa
collaborazione culturale. Ad un certo punto, però, l'atmosfera muta, in
coincidenza con l'ascesa al potere della dinastia degli Almohadi, provenienti
dal Marocco (i cosiddetti unitariani),
i quali impongono con la forza ai sudditi la fede dell'Islam. Già si vedono,
tragicamente accennate, le condizioni successive in Spagna, prima
dell'espulsione in ambito cristiano. Questo cambio della guardia (1148-1149)
determinerà la fuga del giovane Maimonide e della sua famiglia, prima in altre
città della Spagna musulmana e poi, paradossalmente, proprio in Marocco
(spesso, infatti, nel fulcro del potere è più facile sfuggire alla
persecuzione che non in periferia). Tale permanenza risultò traumatica dal
momento che sembra (pur non essendoci una certezza documentale) che il giovane
Maimonide e la famiglia dovettero accettare formalmente l'Islam (si tratta di
un'esperienza ante litteram di quel cripto-giudaismo, il marranesimo, che sarà tipico dell'ebraismo spagnolo all'epoca
dell'espulsione). A distanza di qualche anno, interrogato da alcuni fratelli
perché esprimesse qualche pensiero conforme alla tradizione autentica ebraica,
scriverà un piccolo trattato in cui sviscera la materia dando delle indicazioni
che serviranno a rasserenare le persone costrette, per sfuggire alla morte, a
pronunciare una professione di fede che non sentivano come propria.
Dopo
alcuni anni di permanenza in Marocco, la famiglia decide di trasferirsi in
Israele. Allora non era semplice andare in Israele: si trattava di una terra in
buona parte distrutta e quindi poco ricettiva, oltre che pericolosa, ma questo
viaggio rappresentava il sogno della famiglia di Maimonide. La permanenza si
protrae per poco tempo, fin quando si trasferiscono in Egitto, nella parte
vecchia de Il Cairo, che vedeva la presenza di una folta comunità ebraica. Il
sovrano, Sal' ha Din, prende a ben volere questo giovane medico e lo inviterà a
corte facendolo poi diventare suo medico personale. L'intera vita di Maimonide
(dai 32 ai 70 anni) si svolgerà quindi in Egitto: la sua fama di medico
aumentava di giorno in giorno (si dice che Riccardo Cuor di Leone lo volesse con
sé in Inghilterra). In una lettera lascerà una descrizione molto vivida della
sua giornata senza un momento di sosta: alzatosi all'alba, si recava a palazzo
dove iniziava la sua attività, a cominciare dal Saladino che voleva essere
visitato tutti i giorni; una volta tornato a casa, trovava una fila di persone
che lo attendevano per essere visitate. Ad un suo allievo che dalla Provenza
intendeva andare a trovarlo per stare un po' con lui, egli rispose che la sua
giornata non gli avrebbe permesso di dedicargli l'attenzione necessaria. Ciò
nonostante, la produzione filosofica di Maimonide è imponente.
La
sua opera principale è, come si diceva, La
Guida dei perplessi. Il testo è rivolto ad un suo allievo, Joseph Ibn-aknin,
che si trovava in una situazione di perplessità: ebreo molto pio e religioso,
egli amava anche la filosofia (Aristotele) e ciò lo spingeva a soffermarsi sul
contrasto esistente tra la Torah e le conclusioni aristoteliche. In sostanza,
Maimonide vuole dimostrare, in quest'opera, che non c'è contraddizione tra il
dato della fede e il dato della filosofia, perché si tratta di due piani
diversi che vertono sullo stesso oggetto: un piano più diretto, che è quello
della rivelazione, e un piano indiretto, che è quello della filosofia. In buona
parte (pur con qualche eccezione) sia la filosofia aristotelica sia la Torah
affermano le stesse verità, sia pure con linguaggi diversi (anche il musulmano
Averroè, di qualche anno più vecchio di Maimonide e anch'egli di Cordova,
giungerà, con la sua teoria della «doppia verità» -quella filosofica
riservata agli studiosi e quella della rivelazione riservata alle persone
semplici-, alle stesse conclusioni).
Già
da molti secoli, cioè subito dopo l'avvento dell'Islam, era stato operato un
accostamento tra la fede e la dottrina aristotelica: gli arabi avevano il Corano
e Aristotele. La tematica cosmogonica, per esempio, creava delle difficoltà dal
momento che sia nella Bibbia sia nel Corano è affermato il creazionismo
(Dio, per un atto di libera volontà, crea il mondo nel tempo traendolo dal non
essere), mentre Aristotele sosteneva l'eternismo
(il mondo è sempre esistito, essendo la proiezione necessaria di Dio). Di
conseguenza, nasceva un'altra contrapposizione, quella tra il mondo della libertà
e il mondo della necessità: essa aveva riflessi anche in campo etico, perché,
se il mondo ed io siamo frutto di un necessitarismo, entra in gioco il problema
della libertà, mentre, se il mondo ed io siamo il prodotto di una libera volontà,
il discorso etico prende un'altra piega. Il problema, come si vede, è rilevante
e spiega il tentativo, in campo islamico, di trovare un accordo fra le due
posizioni: alcuni studiosi dell'Islam arrivano a sposare la causa di Aristotele,
mentre altri vi si oppongono cercando di dimostrare con la dialettica logica
l'erroneità delle affermazioni dello Stagirita.
Maimonide,
a proposito della tematica cosmogonica, entra in forte polemica con Aristotele,
pur nutrendo per lui un amore sconfinato (ritiene infatti che Aristotele sia la
quintessenza della sapienza). Egli afferma, infatti, che, se la posizione
aristotelica è vera per quanto afferisce al mondo fisico, non è altrettanto
vera per il mondo metafisico (un Dio, cioè, immobile, che pensa solo a se
stesso, che non vede il mondo e che quindi non può giudicare le creature, non
può essere il Dio personale della religione). Ciononostante, su moltissimi
argomenti Maimonide accetta le conclusioni di Aristotele, arrivando addirittura
a far dire alla Torah ciò che, almeno apparentemente, non intende dire,
attraverso il ricorso all'interpretazione allegorica extraletterale (il cui
maestro riconosciuto è Filone di Alessandria). A proposito di creazionismo ed
eternismo, egli afferma che Aristotele non aveva delle prove che stessero alla
base della sua impostazione eternista; sostenere infatti che il mondo è eterno
significa regredire all'infinito sulle cause; se l'uomo è eterno, significa che
è sempre esistito. L'eternismo, dunque, può essere affermato, ma non
dimostrato. Anche il creazionismo -riconosce Maimonide- non può essere
dimostrato; tuttavia, nell'ambito del teismo e del trascendentalismo, è
possibile ipotizzare che Dio, con un suo atto di libera volontà, abbia
determinato l'essere, la realtà: se non può essere dimostrato, sembra comunque
essere più plausibile. D'altra parte, a fianco della tesi creazionista, c'è
qualcosa che non c'è a fianco di quella eternista, cioè il dato della libertà.
Nessuna delle due posizioni, dunque, -secondo Maimonide- è dimostrata, ma la
tesi creazionista è meno improbabile di quella eternista.
L’intento
di Maimonide è di dimostrare come il mondo possa essere stato il prodotto di un
atto di libera volontà, perché, da un punto di vista filosofico, dal semplice
nasce il semplice (il concetto di Dio unico è un concetto semplice, cioè di
non compositezza); dato che il mondo non è semplice, ma composto, significa che
Dio, con un atto di libera volontà, lo ha voluto composito. Si tratta di
ragionamenti tipicamente filosofici che possono lasciare perplessi, ma Maimonide
ricorre a tali argomenti, perché è tipico della scolastica ebraica e cristiana
ricorrere alle metodologie dimostrative della filosofia per affermare o
confermare delle verità di fede.
A
parte questi problemi, Maimonide ha un'idea fissa: che lo scopo dell'uomo sia di
conoscere Dio. Egli sa benissimo che l'uomo non può conoscere Dio; conoscere
Dio significa, piuttosto, cogliere, nella misura in cui ciò è possibile,
l'essenza di Dio. Per Maimonide, l'uomo dovrebbe impiegare buona parte della sua
vita in tale ricerca. Non si tratta, tuttavia, di una ricerca di tipo mistico e
pietistico, ma attraverso l'intelletto. Proprio sulla base di questo aspetto,
Maimonide è stato definito un filosofo razionalista; egli, invece, si serve,
metodologicamente, della ragione, ma per arrivare alla conoscenza di Dio,
obiettivo tipico dei mistici. Per conoscere Dio, l'uomo deve, con il suo
intelletto (la sua parte autentica e immortale), concentrarsi su alcune verità
metafisiche: l'unità di Dio, la sua incorporeità, la sua eternità, il
rapporto che intrattiene con il mondo e con le creature, la provvidenza, i suoi
attributi.
Per
sostenere questo suo convincimento, egli introdurrà un capovolgimento della
stessa Torah: il testo rivelato, secondo lui e a differenza dei Maestri di
Israele di tutte le epoche, non costituisce uno scoglio. Dal punto di vista
ortodosso, infatti, l'osservanza dei precetti è un riflesso della volontà di
Dio per l'uomo: nel momento in cui, attraverso il precetto, compie la volontà
di Dio, l'uomo assolve il suo compito. Maimonide, invece, trasforma l'osservanza
della Torah, da fine, a mezzo per poter arrivare alla conoscenza di Dio. Lo
scopo dei precetti è infatti di creare una personalità equilibrata e giusta;
se si hanno tante personalità equilibrate, si avrà una società equilibrata;
se ci si troverà in una società equilibrata ed onesta, allora si avrà la
possibilità di concentrarsi sulle realtà metafisiche. La Torah, attraverso la
precettistica, ha lo scopo -secondo Maimonide- di creare le condizioni affinchè
l'uomo possa puntare verso le verità autentiche che garantiscono l'immortalità.
Vediamo
un esempio. Nel libro del Levitico (19,14), c'è un precetto che dice: «Non
maledire il sordo». Interrogandosi sul significato di tale precetto, Maimonide
sostiene che esso non è a vantaggio del sordo (come può cogliere la
maledizione se non ci sente?), ma a favore di coloro che ci sentono, i quali, se
si abituano a insultare, provocano nella loro anima e nel loro comportamento
delle condizioni che li allontano dall'obiettivo della ricerca di Dio. E così
pure, a proposito della precettistica che riguarda il riposo sabbatico,
Maimonide sostiene che essa ha lo scopo di alleggerire, attraverso il riposo, la
quiete e la serenità che ne deriva, le tensioni e quindi creare individui,
nuclei e società formate da persone serene ed equilibrate che posseggano in sé
le condizioni ideali per la ricerca di Dio. Si tratta di una concezione
sicuramente rivoluzionaria e anche un po' pericolosa: se infatti qualcuno
ritenesse di non avere bisogno di questa fase intermedia, che Maimonide chiama
«la perfezione del corpo», per concentrarsi sull'ultima meta, cioè «la
perfezione dello spirito», di fatto cancellerebbe uno dei punti fondamentali
dell'identità ebraica, vale a dire l'adesione e l'osservanza della parola di
Dio espressa nella Torah. E non a caso tale punto della sua dottrina ha attirato
su di lui la critica di molti. Senonché, Maimonide era una persona tanto onesta
che, quando riteneva di affermare una verità, non la taceva nel timore di
dispiacere a qualcuno, come afferma, del resto, nell'Introduzione alla Guida
dei perplessi: "Io sono l'uomo che, sentendo restringersi attorno a sé
lo spazio e ogni via d'uscita e non avendo altro mezzo di insegnare una verità
dimostrata, se non in modo che essa venga capita da un solo uomo intelligente e
non capita da diecimila ignoranti, preferisce parlare per quell'unica persona,
senza curarsi del biasimo di quella sterminata moltitudine, preoccupandosi di
sollevare quell'unico uomo intelligente dal dubbio in cui è caduto e di
dissipare il suo smarrimento, onde portarlo alla perfezione e alla pace".
Uno
dei contenuti più importanti e più noti del pensiero filosofico di Maimonide
è relativo alla sua dottrina etica. Egli è riaffermatore della dottrina della medietà, il giusto mezzo, già formulata da Aristotele nell'Etica
Nicomachea, ma già presente nei testi biblici e post-biblici (si veda, a
titolo esemplificativo, Prov. 4,27; 30,8 e Qoelet 7,16-17; nel Talmud
gerosolimitano [Chagigà cap. II] si dice: "questa Torah assomiglia a due
sentieri: uno di fuoco e uno di neve. Deviando da una parte, si perisce nel
fuoco, deviando dall'altra, si perisce nella neve. Che cosa dunque si deve fare?
Si proceda nel mezzo, non deviando né da una parte né dall'altra". Anche
Jehudà ha-Levì sembra far propria la dottrina della medietà: "la Torah
di Mosè non ci assoggetta ad un ideale ascetico, ma ci indirizza per la via
mediana, attribuendo a ciascuna delle facoltà dell'anima e del corpo la parte
che le conviene, senza eccesso, giacché l'eccesso di una facoltà comporta il
difetto di un'altra...” [Kuzzarì II,50]).
Il contenuto essenziale di tale dottrina è rappresentato da un'assoluta
esigenza di equilibrio, sia in campo
teoretico sia in campo pratico. Nel capitolo La cura delle malattie dell'anima della sua opera Gli
otto capitoli, Maimonide sostiene che le azioni buone sono quelle
equilibrate, cioè equidistanti da due estremi opposti (l'eccesso e il difetto)
i quali sono entrambi cattivi. "Le virtù sono disposizioni dell'anima e
abitudini a metà strada fra due atteggiamenti cattivi, di cui uno è
rappresentato dall'eccedente, l'altro dall'insufficiente. Da queste diverse
disposizioni derivano queste diverse azioni. Ad esempio: la continenza è la
disposizione mediana fra il desiderio sfrenato e l'assenza di sensazione di
piacere. Ordunque, la continenza fa parte delle azioni buone. La diposizione
dell'anima che conduce alla continenza è una delle virtù morali, mentre il
desiderio sfrenato è un suo estremo e l'assenza di sensazione di piacere è
l'altro suo estremo, diametralmente opposto, ed entrambi sono un male in
assoluto. Queste due disposizioni dell'anima, da cui derivano rispettivamente il
desiderio sfrenato, che è la condizione eccedente, e l'assenza di sensazione,
che è la condizioni insufficiente, sono entrambe delle disfunzioni delle virtù.
Così, la generosità è mediana tra l'avarizia e la prodigalità; il coraggio
è mediano tra la temerarietà e la pusillanimità; la cordialità è mediana
tra la sfacciataggine e l'estrema timidezza; l'umiltà è mediana tra l'orgoglio
e l'abbiezione; la riservatezza è mediana tra la superbia e l'autodisistima; la
moderazione è mediana tra la cupidigia e il disinteresse; la ponderatezza è
mediana tra la suscettibilità e l'apatia; la riservatezza è mediana tra la
sfrontatezza e la timidezza, e così via".
E
ancora: “Gli uomini spesso errano a proposito di tali azioni, ritenendo che
uno degli estremi sia cosa buona e
una virtù dell’anima. Alcuni, infatti, ritengono che solo un estremo
(l’eccesso) sia un bene, come quando, ad esempio, ritengono la temerarietà
una virtù e appellano i temerari eroi, e, quando vedono qualcuno che,
all’estremo limite della temerarietà, si espone al pericolo coscientemente e
si salva per puro caso, lo esaltano per questo, dicendo: è un eroe! Altri,
invece, apprezzano l’altro estremo (il difetto), definendo l’apatico un
ponderato, l’abulico un appagato della sua sorte e colui che è insensibile ai
piaceri, a motivo dell’ottusità della sua natura, un continente; e, sulla
scia di tali errori, considerano la prodigalità e il fasto come azioni
lodevoli. Ma tutto ciò è errato, poiché -in verità- lodevole è solo ciò
che sta in mezzo, ed è verso di esso che l’uomo deve tendere, indirizzando
tutte le sue azioni sempre verso tale medianità”.
La
cosa interessante è che Maimonide, dopo averlo condannato, si sofferma sulla
liceità, in alcune circostanze, dell’eccesso. Quando, per esempio, si è
ammalati di avarizia, bisogna propendere verso il suo eccesso, la prodigalità,
in funzione terapeutica; la generosità infatti non basta. Alcuni, vedendo degli
uomini religiosi che praticano un certo stile di vista portato all’estremismo,
non sapendo che lo fanno per fini terapeutici, si mettono ad imitarli e in
questo modo sbagliano. Da qui deriva la presa di posizione di Maimonide contro
gli atteggiamenti di solitudine, di autoprivazione, di anacoretismo, tutte
pratiche di vita da non additare come esempio in quanto non produttive sul piano
spirituale e su quello etico. A tal proposito egli dice: “Costoro assomigliano
a colui che, non avendo cognizioni di medicina e vedendo che i medici esperti
fanno bere ai moribondi polpa di coloquintide, convolvolo, aloè e altre simili
sostanze, privandoli nel contempo di qualsiasi altro alimento, e che a seguito
di ciò questi guariscono dalla loro infermità e sfuggono per miracolo alla
morte, dicesse «se quelle sostanze sono capaci di guarire un ammalato, tanto
maggiormente saranno capaci di mantenere in salute chi è sano o, addirittura,
di fargliela aumentare» e prendesse quindi ad assumerle abitualmente,
comportandosi alla stregua di un malato. Senza dubbio finirebbe per ammalarsi!
La stessa cosa, senza dubbio, capiterà a questi ammalati nell’anima, se si
serviranno di medicamenti, pur essendo sani. La stessa Torà (...) non ci
comanda nulla di ciò, ma vuole unicamente che l’uomo viva in conformità con
la sua natura e proceda nella via mediana; cioè a dire: che mangi con
moderazione ciò che gli è consentito mangiare, che beva con moderazione ciò
che gli è consentito bere, che pratichi con moderazione l’attività sessuale
nell’ambito a lui lecito, che viva nella società con giustizia e lealtà, e
che non abiti nelle caverne o sulle montagne, né indossi sacco e lana, né che
mortifichi il suo corpo, debilitandolo e affliggendolo. Un implicito divieto in
tal senso ci proviene dalla tradizione dei Maestri, i quali, a proposito del
Nazireo (trattasi di persona, uomo o
donna, che fa voto di astinenza da vino e da bevande fermentate, di non
tagliarsi i capelli, di non avere contatto con i morti per non contrarre impurità:
non essendoci nessuno che lo obbliga a fare ciò, il Nazireo ritiene di
avvicinarsi maggiormente a Dio risultando a lui gradito, N.d.R.) di cui è
detto «E (il Sacerdote) farà espiazione per lui, in quanto egli ha peccato
avendo avuto contatto con un cadavere» (Num 4,11), si chiesero: «Ma, forse che
costui ha peccato contro qualcuno? Sì, affliggendo la propria persona,
(privandosi) del vino. E il ragionamento è a fortiori: se colui che si è
privato del vino ha bisogno di espiazione, a maggior ragione (ne ha bisogno)
colui che si priva di tutto!». Ma anche dalle parole dei nostri profeti e dei
Maestri della nostra Torah noi impariamo che essi si comportavano sempre con
equilibrio, preservando la loro anima e il loro corpo, secondo quanto impone la
Torah”.
Sulla
scia, dunque, della sua teoria della medietà, Maimonide prende posizione contro
le forme di vita che portano alla solitudine e alla mortificazione e che non
rispondono alle aspettative in quanto, più che avvicinare, allontanano l’uomo
da Dio. In tale contesto, Maimonide è perfettamente in linea con la dottrina
ufficiale dell’ebraismo, a cui risultano estranee tali forme di autoprivazione,
sulla base del presupposto che la corporeità, essendo stata creata da Dio, non
deve essere considerata qualcosa da soffocare, ma da gestire con misura (è vero
che l’ebraismo ha conosciuto qualche forma di monachesimo -si pensi al
movimento essenico, al movimento dei Terapeuti in Egitto, di cui parla Filone, e
a Qumram-, ma si tratta pur sempre di fenomeni isolati e guardati con un certo
sospetto e senso critico, tanto da non avere lasciato nessuna traccia).
In
conclusione, vorrei soffermarmi sulla cosiddetta Confessione
di fede di Mosè Maimonide. Questo testo non è stato composto da lui, ma
riecheggia il suo commento alla Mishnà di
Sanhedrin dove egli espone, sintetizzandoli, i fondamenti (ikkarim) della fede ebraica. Esso è entrato nella liturgia e suona
così:
1.
Io credo con piena fede che il Creatore, sia benedetto il suo nome, ha creato e
guida tutte le creature; e lui solo ha fatto, fa e farà ogni cosa.
Creatore
dal nulla della realtà ed unico: su questo principio egli ha dissertato a lungo
ne La guida dei perplessi a livello filosofico.
2.
Io credo con piena fede che il Creatore, sia benedetto il suo nome, è unico e
che in nessun modo esiste unità come la sua e che lui solo fu, è e sarà il
nostro Dio.
Non
si tratta di un’unità matematica, ma ineffabile, che non si lascia scomporre.
3.
Io credo con piena fede che il Creatore, sia benedetto il suo nome, è
incorporeo e che non ha determinazioni corporee e non ha alcuna figura.
Un
attributo fondamentale di Dio è l’incorporeità, mentre la corporeità
contraddice la divinità.
4.
Io credo con piena fede che il Creatore, sia benedetto il suo nome, è il primo
e l’ultimo.
Con
lui nasce e si conclude la realtà.
5.
Io credo con piena fede che il Creatore, sia benedetto il suo nome,
è il solo a cui rivolgere la preghiera e che non si deve pregare nessuno
al di fuori di lui.
6.
Io credo con piena fede che tutte le parole dei profeti sono verità.
I
profeti sono i ricettori e i trasmettitori della volontà di Dio, perché Dio
parla all’uomo; è necessario che la voce di Dio si trasmetta attraverso i
profeti, se si vuole avere ragione della volontà di Dio. Senza la profezia
sarebbe impossibile confermare la Torah stessa.
7.
Io credo con piena fede che la profezia di Mosè, nostro maestro, su di lui sia
la pace, è stata veritiera e che egli è stato il più grande dei profeti, sia
di quelli prima sia di quelli dopo di lui.
Si
afferma la posizione preminente di Mosè, il quale è stato colui che ha parlato
“faccia a faccia” con Dio. La comunicazione profetica avviene a tanti
livelli (si veda in proposito la relazione di R. Colombo, disp. n. 59).
8.
Io credo con piena fede che tutta la Torah, ora in nostro possesso, è quella
data a Mosè, nostro maestro, su di lui sia la pace.
9.
Io credo con piena fede che questa Torah non sarà mutata e che non ci sarà
un’altra Torah data dal Creatore, sia benedetto il suo nome.
10.
Io credo con piena fede che il Creatore, sia benedetto il suo nome, conosce ogni
azione degli uomini e ogni loro pensiero, come è detto: “Lui solo ha plasmato
il loro cuore e conosce tutte le loro opere”.
E’
il fondamento della Provvidenza: Dio vede gli uomini. Si tratta di un elemento
che contrappone radicalmente la religione alla dottrina aristotelica, secondo la
quale Dio veglia sulla specie e non sugli individui.
11.
Io credo con piena fede che il Creatore, sia benedetto il suo nome, compensa
coloro che osservano i suoi precetti e punisce coloro che trasgrediscono i suoi
precetti.
E’
il principio della retribuzione: Dio, nel mondo avvenire, ricompenserà in
ragione della condotta tenuta in questo mondo.
12.
Io credo con piena fede nella venuta del messia, e, anche se egli tarda, con
tutto ciò lo attenderò ogni giorno, finché verrà.
E’
un altro dei fondamenti della fede ebraica: il messia riconcilierà l’umanità
e farà cessare tutte le ingiustizie, riunendo l’umanità in un corpo solo.
13.
Io credo con piena fede che i morti torneranno a vivere, quando lo deciderà il
Creatore, sia benedetto il suo nome.
Dopo
la morte fisica, le anime si trasferiranno nel mondo a venire. Verso la
conclusione dell’era messianica, Dio farà risorgere i morti: l’anima
ritornerà nello stesso corpo a cui era appartenuta e da cui si era distaccata
al momento della dipartita. Su questo argomento, Maimonide ha dedicato il Trattato
sulla resurrezione dei morti.
(Testo
rivisto dall’Autore)
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