Cominciamo
il nostro discorso con una breve e, per forze di cose, molto sommaria
introduzione storica. Il termine chassidim
(chassid in ebraico significa “pio”) non designa soltanto gli
aderenti al movimento di cui parleremo in questa sede, ma anche altri movimenti,
soprattutto il chassidismo tedesco,
che presenta caratteristiche piuttosto diverse. Noi ci riferiremo ad un
movimento che è fiorito nel Settecento, e in parte dell’Ottocento, per non
esaurirsi neppure oggi, pur senza quei fulgori che lo hanno caratterizzato nella
sua prima fase di formazione. Si tratta di un movimento sorto nell’Europa
orientale (definizione vaga, poiché i confini entro i quali esso è nato sono,
nel frattempo, cambiati più volte), in particolare in una Polonia che,
all’epoca, si presentava come uno stato potentissimo e vastissimo (comprendeva
infatti la Lituania, parte della Bielorussia e dell’Ucraina), ma che poi ha
conosciuto una rapida decadenza fino ad essere spartita per tre volte e sparire
dalla carta geografica.
Stabilito
dove è sorto il chassidismo,
soffermiamoci sulle circostanze storiche che ne hanno determinato la nascita.
Credo di poter affermare che il chassidismo
è l'ultimo dei movimenti di un periodo terribilmente turbato della storia
ebraica, il quale ha il suo inizio dalla cacciata dalla Spagna nel 1492.
Esistono, in quest’epoca storica, due zone di “frontiera” nazionale,
sociale e religiosa (di solito, per le minoranze, è sempre problematico vivere
nelle zone di frontiera): la prima, tra mondo islamico e mondo cattolico, è la
Spagna, frontiera mobile, per così dire, dal momento che essa si spostava man
mano che procedeva la Reconquista
spagnola, quindi cattolica, tesa a riconquistare tutta la penisola e,
contestualmente, a cacciarne musulmani ed ebrei: tutto ciò ha generato massicce
emigrazioni di popolo, verso l'impero ottomano, verso l'Italia, l'Olanda e altre
zone. Ma nel momento in cui questo dramma sembrava trovare una sua qualche
ricomposizione, ecco apparire, all'estremo opposto dell'Europa, un'altra
frontiera cristiano-islamica, rappresentata dall'avanzata dei Turchi.
Il
vasto regno di Polonia, ancora nel Tre-Quattrocento, aveva favorito e
sollecitato l'arrivo degli ebrei e il loro insediamento. C'è, in proposito,
un'interessante leggenda che parla di un ebreo (figlio di un rabbino di Padova)
in rapporti commerciali con la Polonia, il quale aveva stretto legami economici
con la corte reale; giunto a morte il re, nessuno dei due candidati pretendenti
al trono era riuscito a prevalere durante l'assemblea elettiva e così fu deciso
di rimandare il tutto al giorno dopo; senonché, una legge vietava che lo stato
rimanesse anche solo per un'ora senza re: essendoci quindi la necessità di
eleggere un re provvisorio, venne elevato al rango reale questo ebreo padovano:
re per una notte! Dal momento che in tutte le leggende sussiste comunque un
elemento di verità, questa leggenda ci dimostra che c'erano tutte le condizioni
per far considerare la Polonia di quel periodo come una specie di novella Terra
Promessa. Le tensioni di “frontiera”, però, nel XVII secolo, si fecero
esplosive; in Ucraina, infatti, esisteva, da una parte, una classe contadina di
nazionalità e di lingua ucraina e di religione ortodossa e, dall'altra, una
classe proprietaria di nazionalità e di lingua polacca e di religione
cattolica; il tutto con alle spalle il ducato di Mosca che premeva in tutti i
modi per poter assorbire nella sua orbita (come difatti avenne) la stessa
Ucraina.
Che
riflesso hanno avuto queste tensioni sulle comunità ebraiche? Già comunità
ricche, esse si erano progressivamente trasformate in oligarchie rette da una
classe abbiente e ampiamente riconosciute dalle autorità polacche: godevano di
una discreta autonomia giudiziaria e amministrativa (limitata, come spesso in
questi casi, alle classi più elevate) la quale, per quasi due secoli, è stata
caratterizzata addirittura dalla presenza di un loro piccolo parlamento
(chiamato "Il comitato delle quattro
terre": si trattava della Grande Polonia, la Piccola Polonia, la
Volinia e la Podolia) che si riuniva due volte l'anno. Col passare del tempo,
però, la sua dirigenza andò sempre più identificandosi con la classe
intellettuale-rabbinica, la quale, in parte per vecchie tradizioni (portate in
Polonia dalla Boemia e da Praga) e in parte per motivi di difesa della propria
egemonia, cercava sempre più di fare del proprio studio qualcosa di
impenetrabile e di esclusivo, con la conseguenza che il divario tra la gran
massa della popolazione ebraica (costituita da artigiani, piccoli commercianti e
anche da un po’ di agricoltori) e la classe colta si allargò sempre di più.
Un
certa stabilità, tuttavia, si era mantenuta, finché, a metà del Seicento
(1648-1649), scoppia la rivolta ucraina anti-polacca, guidata da un esponente
della piccolissima nobiltà ucraina, Bogdan Chmielnitzki, ancora oggi celebrato
dalla popolazione ucraina come eroe della rivolta cosacco-contadina contro i
signori polacchi (nel parco centrale di Kiev esiste tutttora un monumento in suo
onore), mentre, per la tradizione ebraica, questo nome è ricordato come quello
di un feroce persecutore. Il fatto è che, tra questi due vasi di ferro (Polonia
ed Ucraina) in contrasto tra loro, il vaso di coccio, rappresentato dalla
minoranza ebraica, finì per essere preso in mezzo, con episodi molto dolorosi,
ricordati anche dalla letteratura ebraica, fatti di città assediate nelle quali
i signori polacchi, per ottenere un salvacondotto che avrebbe garantito loro il
rientro in patria, offrivano gli ebrei come controparte agli insorti cosacchi.
Le conseguenze di un simile scontro furono la demolizione di decine e decine di
insediamenti di comunità ebraiche, massacri immani, un ricordo di orrore e la
fuga verso occidente -cioè verso la Polonia vera e propria- di masse spaventate
e derelitte. Ciò provocò la riduzione del tenore di vita delle comunità
ebraiche che dovevano assistere questa folla di profughi, oltre a tutta una
serie di risentimenti nei confronti dell'oligarchia dirigente delle comunità,
la quale continuava imperterrita a portare avanti le sue teorie molto astratte,
i suoi studi molto asettici e lontani dai problemi reali della fame e della
disperazione. Questo dunque, in estrema sintesi, il contesto al cui interno
fiorivano istanze che non trovavano la loro adeguata espressione.
In
tale situazione, esistevano già alcune tradizioni culturali ebraiche, di tipo
non razionalistico né legislativo né di normativa rabbinica, ma di tipo
mistico, le quali avrebbero potuto
far sperare in qualcosa di meglio in altre fasi della vita terrena e
ultraterrena, in forza di una
spiritualità astratta in cui trovare consolazione. Tali dottrine mistiche (note
con il nome di kabbalàh) sono
certamente molto antiche (se ne trovano tracce persino nel periodo che precede
il Talmud) e non vi è dubbio che il loro sviluppo, il quale seguiva, per dirla
grossolanamente, dei filoni neoplatonici con forti influenze gnostiche (diffuse
in tutto il bacino del Mediterraneo e comuni al mondo cristiano ed ebraico), si
era consolidato, in una forma dottrinaria più precisa ed articolata,
soprattutto nella Spagna ebraica, probabilmente nel XIII-XIV sec.. Perché ho
detto avrebbero potuto e non “riuscirono”? Per il fatto che, a causa
della loro natura di filosofia mistica, non erano di facile acquisizione. Se già
lo studio talmudico era limitato ad una cerchia limitata di persone, che
potevano dedicare la loro vita senza problemi economici ad approfondire i loro
studi, a maggior ragione lo era la kabbalàh,
una dottrina che andava studiata giorno e notte, quindi riservata ad una élite
ancora più ristretta dell'élite
rabbinica di cui si è parlato in precedenza.
Nonostante
ciò, dalla kabbalàh derivavano delle
strane diramazioni che hanno avuto il nome di "kabbalàh pratica",
espressione contraddittoria, perché sarebbe come parlare di "filosofia
pratica". Ora, se, da un lato essa aveva comunque un aggancio con la kabbalàh
teosofica e filosofica, dall'altro sempre di più rivestiva aspetti di tipo
esorcistico e miracolistico; circolavano, infatti, per i villaggi dell'Europa
orientale, decine e decine di personaggi singolari, chiamati magghidìm
e ba’ale shém. I primi erano una
specie di predicatori ambulanti che giravano per le campagne fermandosi nelle
osterie, nelle piazze e in case private a spiegare quella che potremmo definire
una "kabbalàh in pillole", con informazioni piuttosto sommarie, fatte
di prediche morali (amore fraterno, onestà, rettitudine) e di qualche spinta
all'approfondimento. Il termine ba’ale
shém è sempre stato tradotto, pessimamente, con "colui che possiede
il nome", mentre in ebraico la parola baal
significa soprattutto "colui che ha una determinata
proprietà" (per esempio, se voglio dire che sono dotato di barba,
dirò che io sono baal zakàn, che
significa non tanto "proprietario della barba", ma
"barbuto"). I ba’ale shém,
quindi, non sono coloro che
“hanno” il nome, ma coloro che conoscono i nomi con cui fare amuleti e
piccoli sortilegi (io stesso ho ricevuto una volta un amuleto, proveniente dalla
Polonia e scritto in modo incomprensibile, da appendere sulla culla dei bambini
per proteggerli da influenze malefiche).
E'
proprio nell'ambito dei ba’ale shém
che, nel 1700, nasce un personaggio (Israel da Mesbiz) destinato a trasformare
radicalmente il quadro in questa parte di Europa orientale. Non a caso è
chiamato ba’ale shém tov, cioè colui che sa usare il nome
"buono", oppure il buon adoperatore di nomi. D'ora in poi non lo
chiameremo così, ma piuttosto, come facevano i suoi contemporanei, Besht (acronimo di Baal-shem-tov).
E' lui il vero fondatore del movimento chassidico. Egli non ha lasciato nessun
testo e tutto ciò che sappiamo di lui ci è stato tramandato dai suoi allievi,
soprattutto da uno che ha messo per scritto ciò che ha sentito dal maestro (del
resto, non si tratta di una eccezionalità, basti pensare allo stesso
cristianesimo). Ci sono due elementi della biografia del Besht sui quali bisogna
puntare l'attenzione: il primo riguarda la sua nascita miracolosa. Si narra
infatti che suo padre, ormai centenario e senza figli, dopo essere stato rapito
da pirati, viene condotto alla corte di un re importante il quale, dopo averlo
nominato vicerè (chiaro il ricordo di Giuseppe in Egitto), gli offre in moglie,
come ricompensa per i suoi servigi, la giovane moglie del precedente gran visir;
egli non accetta, confessando alla donna, dopo un po' di tempo, di essere già
sposato e di essere ebreo, tanto che ella, commossa, fa di tutto per farlo
tornare a casa, dove la vera moglie, centenaria anch'essa e di nome (guarda
caso!) Sara, gli partorirà un figlio, il Besht appunto. L'altro elemento è il
fatto che il Besht, da subito, si comporta in un modo che risulta
incomprensibile ai più, cioè pare essere un uomo rozzo e ignorante, che va
alla scuola ebraica per poi scappare, che ama andare per boschi e per monti
isolandosi nella natura; egli, pur sentendosi destinato a qualcosa di
importante, sa che dovrà rivelarsi soltanto quando sarà il momento (altro
motivo ricorrente, ma interessante nel nostro caso perché episodi di questo
tipo nell'ebraismo, fino a questo momento, non si erano ancora verificati).
Curioso
risulta anche il suo matrimonio: gli viene data in sposa la figlia di un
importante saggio e sorella di altro saggio molto distinto, un certo Kittower,
il quale si oppone a questo matrimonio, non considerando lo sposo dello stesso
rango della sorella. Ciononostante, i due si sposano e si trasferiscono sulle
montagne, dove il Besht passa anni a scavare argilla, che poi la moglie va a
vendere al mercato di Cracovia per assicurare il loro sostentamento, fino al
giorno in cui il Besht sente che deve rivelarsi e tornare in città, dove la
maggior parte di coloro che in passato l'hanno disprezzato (altro motivo
ricorrente) diventano suoi seguaci (lo stesso cognato si ravvede). Qui avviene
l'incontro tra il Besht e colui che avrebbe scritto la sua dottrina, il “Dovér
di Meseriz”, il quale, dopo che gli era stato suggerito di andare ad
incontrare il Besht, si imbatte, contro le sue aspettative, in un uomo rozzo che
gli dice: "i miei cavalli hanno mangiato la biada". La stessa scena si
ripete il giorno dopo, tanto che il Dovér sta per andarsene quando il Besht lo
richiama, chiedendogli a bruciapelo: "Hai studiato la kabbalàh?".
Ci si immagini la sua meraviglia
nel sentirsi rivolgere questa domanda da una persona che non aveva mai fatto
studi regolari. Alla sua risposta affermativa, il Besht gli dà un libro,
dicendogli: "Commenta questo passo!", cosa che il Dovér esegue. Dopo
aver sentito il suo commento, il Besht obbietta: "Ho già sentito questa
interpretazione, ma io ne conosco un'altra". A questo punto succede un
fatto straordinario: il Dovér si vede avvolto da una luce intensa che lo
travolge e, con una sensazione di estasi, ascolta una spiegazione del brano
della kaballàh in questione che non
aveva mai sentito prima. Dopo essersi ripreso, il Besht gli dice: "Tu
conoscevi questa dottrina, ma ti mancava la passione, l'entusiasmo". Il Dovér
rimane talmente affascinato da diventare, da quel momento, suo allievo. (si veda
in proposito, M. BUBER, I racconti dei
chassidim, Garzanti, Milano; E. Wiesel, Celebrazione chassidica, Spirali, Milano).
Il
Besht continua (come poi i successivi maestri chassidici) ad esercitare un
magistero non ricercato né pedante; egli cerca, piuttosto, di trovare quella
che lui chiama "l'adesione a Dio", il sentirsi uniti a Dio; ciò si
deve poter fare attraverso tutti gli atti della vita quotidiana, sentendo
l'armonia della natura che canta le lodi di Dio e unendosi a tale inno. Qualcuno
ha voluto vedere in tale atteggiamento delle punte di panteismo, applicando però
delle categorie filosofiche ad un movimento che non presenta un coerente
impianto di pensiero, dal momento che il suo vero scopo è solo di creare,
all'interno delle comunità ebraiche, in cui esisteva una separazione tra i
dotti e gli incolti una specie di unità di intenti che trasformasse il culto da
formale ad entusiastico. Per esempio, mentre il vecchio rabbinato era molto
attento agli orari delle preghiere, il chassidismo buttava all'aria questa
pedanteria, sostenendo che bisogna, sì, pregare secondo i prontuari, ma nel
momento in cui ci si sente trasportati, in modo da pregare non solo con la
bocca, bensì anche con il cuore. Cosa si può fare, si chiedevano i chassidim, per poter riuscire a togliersi i legami materiali che
impediscono di unire l'anima a Dio nel momento della preghiera? Una risposta è:
danzare. E non a caso una delle caratteristiche dei chassidim ancora oggi (anche se in misura minore rispetto al
passato) è proprio la danza, una danza che era fatta di capriole, di salti e
camminate sulle mani che scandalizzava non poco i rabbini tradizionalisti;
addirittura in sinagoga si mettevano a fumare la pipa prima della preghiera, per
inebriarsi e giungere all’estasi. C'è in proposito una leggenda
chassidica che parla di un giovane pastore, ignorante e incolto, che
trascorreva tutto l'anno con le sue pecore, il quale, per ringraziare Dio per le
meraviglie del creato, si metteva a fischiare come forma personale di preghiera.
Un giorno, sceso in città e recatosi alla Sinagoga, rimane così sbalordito nel
vedere la solennità, gli arredamenti, l’atmosfera da mettersi a fischiare
sonoramente. Di fronte ai rimproveri di alcuni fedeli per questo comportamento,
un rabbino li placa e afferma: "questo è il vero credente!".
Sul
Besht c'è un altro elemento da sottolineare, cioè il suo tentativo, fallito,
di recarsi in Palestina. La leggenda dice che egli era riuscito a trovare una
nave, poi assalita da alcuni pirati che lo fanno prigioniero. A seguito di
quell'episodio, essendosi dimenticato tutto ciò che sapeva, chiede ad un suo
allievo se almeno lui si ricordava qualcosa; egli risponde di ricordare soltanto
l'alfabeto, cosa che consente al Besht di rammentarsi tutti i suoi pensieri pii,
grazie ai quali riescono a salvarsi. In visione estatica, gli viene anche detto
il motivo per cui non avrebbe dovuto andare in Palestina: per il fatto che in
Palestina c'era un altro saggio e, se i due avessero unito le loro santità,
avrebbero potuto accelerare la venuta del Messia, evento prematuro visto che i
tempi non erano ancora propizi (c'era troppa cattiveria al mondo). A proposito
dell'alfabeto in cui i chassidim
trovavano degli spunti di riflessione, c'è da ricordare che, in yiddish,
"ebreo" si dice Jud, termine
che indica anche la lettera "y"; stante questa omonimia, i chassidim dicevano che, mentre ci sono tanti passi nella Bibbia in
cui si trovano due yud affiancate ad
indicare il nome di Dio, non c'è nessun passo in cui compare una yud
sotto l'altra e ciò a sottolineare che, quando una yud
(cioè un ebreo) si mette su un piano di parità con un altro ebreo, Dio è
presente fra di loro, mentre, quando uno dei due tenta di sovrapporsi
all’altro, Dio risulta assente (chiaro il riferimento al desiderio di riscatto
presente in queste classi derelitte).
Per
molti anni, si è voluto vedere nel chassidismo
l'espressione di una ribellione sociale di ceti diseredati contro quelli
privilegiati. In realtà, si tratta di una forzatura perché nella cultura
chassidica non ci sono mai stati veri e propri elementi di ribellione. Uno
storico israeliano di origine russa, Shmuel Ettinger, ha mostrato chiaramente,
in base ad un'accurata analisi dei testi, che la soluzione ai loro problemi non
era vista in una prospettiva terrena: i chassidim
piuttosto insegnavano ai loro fedeli ad accontentarsi di ciò che avevano, ad
accettare la situazione presente; se non proprio una povertà come vocazione,
essi invitavano a ricavarne comunque il meglio. Un detto di un allievo del Besht,
per esempio, recita: "Se uno ti offende, benedicilo, perché ha completato
qualcosa nella tua vita".
Mentre,
durante la sua esistenza, il Besht risultava pressoché ignoto, dopo la sua
morte (seconda metà del Settecento), il suo movimento si diffonde a macchia
d'olio, principalmente nei territori sud-orientali della Polonia, meno, invece,
verso il nord. In Lituania, soprattutto, esisteva un'antichissima scuola
rabbinica, quella di Elia il Gaon di Vilna (diremmo "l’eccellente di
Vilna"), il quale, dotato di una vasta cultura, e non solo ebraica, ma
anche europea e moderna (conosceva le lingue, le scienze naturali e la filosofia
occidentale), era decisamente contrario ai chassidim,
tanto da risultare uno dei più acerrimi avversari del movimento (i suoi allievi
vennero infatti chiamati mitnaghedim,
gli oppositori). Egli non temeva né il loro trasporto, né il loro afflato
mistico (era anch'egli un esperto di kabbalàh),
quanto piuttosto la minaccia del ripetersi di due pesanti precedenti, quelli di
Sabbatai Zvì e del suo epigono Frank. Il primo, nato in Turchia e appartenente
alla diaspora spagnola, verso la metà del Seicento si era messo in testa di
essere il Messia tanto atteso, e il suo movimento (il sabbatianesimo) si era diffuso in tutta Europa: di fronte al dramma
della Spagna, da un lato, e dell'Ucraina, dall'altro, moltissime persone avevano
cominciato a vendere tutti i loro averi per poter raggiungere Sabbatai Zvì a
Gerusalemme. Questo fenomeno di sconvolgimento collettivo durò poco perché,
giunto il momento di recarsi dal Sultano per chiedere il possesso di
Gerusalemme, Sabbatai venne arrestato e, condotto davanti al Sultano, gli venne
offerta l'alternativa tra la decapitazione e la conversione all'Islam; egli
preferì diventare musulmano, lasciandosi alle spalle una delusione e una
mortificazione profondissime. Un suo epigono polacco, Frank, superava il
maestro, predicando di rinunciare a tutte le vecchie tradizioni e di immergersi
in tutte le attività vitali, comprese quelle peccaminose, perché, al di sotto
della scorza peccaminosa, c'erano delle scintille di santità e di salvezza.
Anche il movimento frankista minacciò la compattezza del mondo ebraico,
demolendone le basi tradizionali ed etiche. Rabbì Elia di Vilna temeva, dunque,
il ripresentarsi di tali fenomeni. Tutto ciò diede origine a schermaglie
reciproce, fatte di vere e proprie scomuniche da una parte e dall'altra: una
specie di guerra civile culturale ed ideologica che venne superata solo dalla
terza generazione dei maestri chassidici, quando Schneur Salman svolse un'opera
di mediazione tra il movimento culturale rabbinico e quello dell'entusiasmo
estatico e mistico delle masse chassidiche; pur tenendo presente lo slancio
mistico, non si poteva abbandonare lo studio, secondo canoni tradizionali. Si
tratta dei chassidim della scuola di
CHaBaD (più conosciuti in Italia con il nome di Lubavich, presenti a Milano, Bologna, Venezia).
Il
movimento chassidico si è sviluppato non attraverso veri testi
“dottrinari”, ma attraverso narrazioni, parabole, aforismi, esemplificazioni
tratte dalla vita quotidiana e fatti che riguardano i maestri. A titolo
esemplificativo, riporto la storia di un maestro chassidico che, stranamente,
non è molto puntuale alle preghiere. Un litvak
(un “lituano”, appartenente, come si è visto, all’altra corrente), lo
accusa di essere un eretico. Si prende allora la briga di andare ad indagare: si
reca, una notte, a dormire sotto il letto di questo maestro chassidico e lì
vive esperienze drammatiche (visioni, suoni strani, luci misteriose). Di buon
mattino, il maestro si alza, si lava ed esce; il lituano lo segue per vedere
dove sta andando. Giunto in un bosco, di fronte ad un albero, il maestro estrae
un’accetta e comincia a spellare l’albero ricavandone tanti pezzi; messosi
tutto in spalla, torna al villaggio, bussa ad una porta sgangherata e una
vecchia inferma che stava all’interno chiede: “Chi è?”. “Sono Vassilij”
-risponde lui (un nome russo qualsiasi)- “e sono venuto a portarti della legna
per scaldarti”. La vecchia chiede: “Come potrò pagarti, visto che non
posseggo soldi?”. “Non importa. Hai così poca fede per non credere che Dio
troverà una soluzione?”. “Sì, ma la stufa chi la accende, visto che sono
inferma?”. “Non ti preoccupare: la accenderò io”, e così fa. Mentre
compie tutto ciò, egli dice le sue preghiere. Terminato il lavoro, saluta la
vecchia e se ne va, con il litvak sempre dietro. Quando in futuro nella Sinagoga dei chassidim
egli sente dire che il Maestro, ogni Sabato, dopo le funzioni in Sinagoga, sale
al cielo, risponderà: “E forse ancora più su!”. Il maestro in questione è
un Zaddik, un giusto, cioè un personaggio che, per il suo modo di
vivere, è degno di aiutare i suoi fratelli ad avvicinarsi a Dio. Ora,
l’elemento nuovo è che, per la prima volta nella cultura ebraica, abbiamo la
presenza di una specie di intermediario tra l’uomo e Dio (il rabbino, come è
noto, non svolge tale funzione). C’è una leggenda chassidica la quale
sostiene che esistono anche i “giusti ignoti”, i quali sono trentasei e,
ogni volta che ne muore uno, ne nasce un altro: è per loro merito che il mondo
malvagio non viene distrutto. Ancora oggi, nel modo di dire ebraico-yiddish, di
qualcuno che pare dotato di una santità eccezionale si dice: “Sicuramente è
uno dei trentasei!” (Lamedvàvnik).
Accanto a questo elemento, esiste (soprattutto negli allievi dell’Ottocento)
anche il problema della metempsicosi. Si tratta di un tema nuovo all’interno
dell’ebraismo rabbinico, nel quale si ritiene che, dopo la morte, l’anima si
unisce a Dio e gode della gloria divina contemplandola. I chassidim invece si pongono il problema dei peccatori: recuperando
vecchie dottrine kabbalistiche, introducono una dottrina in base alla quale
l’anima del peccatore è costretta a
reincarnarsi in un’altra vita (umana, animale o vegetale che sia) per potere,
attraverso un migliore comportamento in questa seconda vita, espiare ciò che
non ha espiato nella prima. Ne consegue che bisogna stare attenti nei confronti
di ogni essere vivente, perché non si può mai sapere quale anima vi sia in
esso, con il rischio di comportarsi in modo da impedirgli il pentimento e
l’espiazione. Tale posizione diventa addirittura molto consolatoria
soprattutto per le morti premature, come dimostra la leggenda chassidica dello
sposo che, proprio il giorno del matrimonio, muore improvvisamente; arriva
allora il Maestro chassidico il quale dice: “Non piangete: era talmente pio
che il suo ciclo terreno è già terminato ed egli si trova presso Dio; dovete
essere contenti della sua dipartita prematura, perché significa che egli era
meritevole”. C’è un maestro, a cavallo tra Sette e Ottocento, nipote del
Besht, di nome rabbì Nachman di Breslaw, considerato come colui che ha
conferito alla dottrina chassidica un’impronta ancora più rilevante di quella
del Besht: egli ha un allievo, rabbì Natan, il quale dedica tutto il suo tempo
ad annotare le azioni del suo maestro, in coerenza con la dottrina chassidica
che trova messaggi di santità in qualsiasi atto della vita quotidiana, anche il
più banale (su Nachman di Breslaw sta per uscire uno studio di Martin Cunz,
pastore riformato di Zurigo e grande conoscitore del mondo ebraico: io stesso
sono testimone del fatto che lo studio di tale personaggio lo ha turbato e
influenzato intensamente. E, se a distanza di un secolo e mezzo le sue
riflessioni riescono ancora a turbare, significa che esistono dei robusti
elementi di religiosità). Ora, rabbì Nachman, ad un certo punto smette di
parlare per aforismi e decide di esprimersi solo attraverso storielle (sono
tredici storie); si tratta di racconti molto strani, complessi, con storie
interne nelle storie, che però hanno uno scopo dottrinario ben preciso: Dio
infatti ci si presenta sempre nella vita come “rivestito” e queste storie
intendono “spogliare” Dio dei suoi rivestimenti per giungere alla conoscenza
del suo nucleo centrale.
In
conclusione, un accenno a Martin Buber. Mentre in Occidente Buber è conosciuto
come colui che ha fatto conoscere il chassidismo
al mondo europeo, nel mondo ebraico è stato accusato di aver operato, nei suoi
racconti chassidici, una selezione personale, scartando elementi importanti e
rinunciando a considerare lo sviluppo cronologico del movimento (questo lo ha
riconosciuto lui stesso). Il suo scopo, però, era quello di presentare
all’ascoltatore la sua propria concezione “dialogica” dell’ebraismo (cfr.
Io e te. Il principio dialogico), la quale -a suo parere- era
rappresentata in modo esplicito nel chassidismo;
per cui egli ha scelto ciò che corrispondeva al suo pensiero, senza
nasconderlo. Pur attraverso questa specie di strumentalizzazione, il merito di
Buber è stato di aver posto in rilievo come il chassidismo conteneva un messaggio che poteva essere recuperato
dalla cultura occidentale (sarebbe interessante indagarne i riflessi sulla
letteratura europea: secondo una tesi diffusa, Kafka sarebbe stato molto
influenzato dalla dottrina chassidica).
(Testo
rivisto dall’autore)
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