Il titolo che mi è stato proposto
offre la possibilità di collegare la questione del debito estero del Sud del
mondo con quella del commercio. Il mio discorso si dividerà pertanto in tre
parti: la prima, più lunga, sul debito, la seconda sul credito, la terza sul
commercio. Infine farò qualche considerazione sulla rilevanza generale di un
testo come Levitico 25 per le chiese e la loro critica all’economia.
1. Il debito
Si calcola che a
oggi il debito del Sud del mondo abbia raggiunto la somma di 2.300 miliardi di
dollari (quasi 4,5 milioni di miliardi di lire), vale a dire circa il
doppio del prodotto interno lordo dell’Italia.
Una cifra enorme (soprattutto per chi la deve pagare), ma paradossalmente
piccola rispetto al debito pubblico dell’Unione Europea, o all’indebitamento
delle famiglie negli USA (entrambi stimati sui 5.500 miliardi di dollari). Una
cifra che è poco meno del doppio del flusso di capitali che si muove ogni giorno sui mercati finanziari mondiali, in cerca della massima
remunerazione. Secondo una stima approssimativa, il 35% di questo debito è multilaterale
(dovuto a istituzioni internazionali come FMI, Banca Mondiale e banche
regionali di sviluppo), il 50% bilaterale (dovuto
ai governi dei paesi ricchi, anche tramite istituzioni di garanzia come la SACE
italiana), il 15% privato (dovuto a
banche). La proporzione è variabile da paese a paese. Teniamo quindi conto che
quando i governanti annunciano solenni riduzioni del debito si riferiscono solo
alla metà circa dell’ammontare totale.
È importante
risalire, seppur brevemente, alle origini del debito e ai meccanismi che
l’hanno portato a una crescita esponenziale negli ultimi 25-30 anni - secondo
le stime del FMI il debito dei PVS è passato da 109 miliardi di dollari (1973),
a 575 (1983), a 1132 (1986), a 2066 (1997). Generalmente si fa nascere il
problema del debito nel 1973, e la sua accentuazione nel 1979, in coincidenza
quindi con i due shock petroliferi. Più esattamente sia questo che quelli sono
stati originati dalla crisi del sistema monetario detto di Bretton Woods (basato
sulla convertibilità del dollaro in oro e sui tassi di cambio fissi), crollato
definitivamente nel 1971.
L’aumento del
prezzo del petrolio ha avuto come effetto quello di far aumentare il surplus dei
paesi esportatori (433 miliardi di dollari tra il ‘74 e l’81), che
depositarono queste enormi eccedenze nella banche commerciali occidentali (già
dagli anni ‘60 esisteva il mercato degli eurodollari, cioè dollari circolanti
al di fuori degli USA). Le banche, trovandosi con un’eccezionale disponibilità
di valuta, cominciarono a prestare a tassi agevolati (o addirittura, in termini
reali, negativi) ai paesi del Terzo Mondo (PVS), che a loro volta avevano
bisogno di prestiti sia per finanziare i deficit petroliferi (il disavanzo dei
PVS non esportatori di petrolio passò dai 9 miliardi di dollari nel 1973 ai 30
miliardi nel 1981), sia per ambiziosi progetti di sviluppo. Per usare un
eufemismo, la politica delle banche (in cui i giganti americani, tedeschi e
giapponesi si tiravano dietro le banche medie e piccole quasi con un
effetto–gregge) fu quanto meno miope, portando a interventi poco attenti alla
qualità degli investimenti, ai rischi specifici dei singoli paesi,
all’effettiva capacità di ripagare i debiti una volta accesi. Quindi, da un
lato banche che avevano molto da prestare e non stavano molto a sottilizzare
sull’uso dei fondi, o se il ricevente avrebbe avuto la capacità di
restituirli. Dall’altro, paesi ben lieti di approfittare di prestiti a tassi
agevolati. Non mancava, certamente, la motivazione politica (sostegno a regimi
più o meno dittatoriali o corrotti, ma sicuramente anticomunisti). Dopo la
seconda crisi petrolifera del 1979 lo scenario cambia: in risposta
all’inflazione, i paesi industrializzati (primi fra tutti gli USA di Reagan)
scelgono politiche monetarie restrittive, basate sull’aumento dei tassi
d’interesse. I tassi d’interesse reali per i prestiti ai PVS salgono fino al
14,5% nel periodo 1981-85; il calo della domanda dei PI, combinato all’eccesso
di offerta di materie prime (Banca Mondiale e agenzie di sviluppo
“consigliavano” a tutti i PVS di concentrarsi sull’esportazione di pochi
prodotti, specialmente primari - caffè, tè, cotone, rame, cacao) ha portato a
pesanti deficit per i PVS. In breve tempo la maggior parte di questi paesi si
sono trovati nell’impossibilità di pagare, s’innesca la spirale perversa
tra valuta debole e tassi d’interesse crescenti. Nel 1982 il Messico è il
primo paese a dichiarare di non poter pagare ulteriormente gli interessi.
Esplode così la prima di varie successive “crisi del debito”.
L’insolvenza del Messico ha fatto entrare in gioco il FMI e la Banca Mondiale,
come garanti di ultima istanza. I debiti sono stati riscaglionati e rinegoziati:
si allungano i termini e si ricontrattano le condizioni, la gestione dei debiti
è diventata pubblica e politica (mentre tutto si privatizza). L’intervento
delle istituzioni multilaterali ha assicurato che i PVS continuassero a pagare
alle scadenze, ma ha contribuito all’aumento senza fine del debito: in
pratica, l’esito di ogni crisi è sempre stato che si concedevano nuovi
crediti per pagare i debiti precedenti, con ciò stesso aumentando lo stock di
debito accumulato e il flusso di interessi da pagare in futuro. Anche per
questo, pur avendo i paesi poveri rimborsato quello che dovevano e anche più,
il loro debito, dal 1982 a oggi, è quadruplicato.
Ma dove sono
finiti i soldi? Solo una minoranza dei fondi presi a prestito sono andati
effettivamente a vantaggio dello sviluppo economico e sociale dei PVS. Una buona
parte se ne è andata in acquisti di armamenti: il riarmo di molti regimi
militari ha sostenuto il boom mondiale del mercato delle armi negli anni ‘70 e
‘80. Gli studiosi del SIPRI di Stoccolma hanno calcolato che senza queste
spese lo stock di debito sarebbe stato più basso del 15% circa. Un’altra
destinazione frequente dei capitali presi a prestito è stato l’utilizzo a
fine di corruzione e arricchimento personale degli esponenti delle élites.
Questo dava luogo a una successiva fuga di capitali dal paese debitore e al loro
ritorno nelle banche occidentali sotto forma di depositi. La fuga di capitali
dai paesi indebitati ha consentito alle banche di guadagnare due volte sugli
stessi stock. La rivista Business Week
ha calcolato che tra il 1980 e il 1982 (ovvero poco prima della prima grande
crisi d’insolvenza) il 70% dei prestiti fatti agli 8 debitori principali se ne
andò in fuga di capitali. Più recenti sono le stime secondo cui il debito
dello Zaire era approssimativamente uguale ai depositi nelle banche svizzere di
Mobutu, e quello dell’Indonesia alla ricchezza dei 50 principali esponenti del
clan familiare di Suharto. Non è un caso che queste stime divengano note al
grande pubblico solo quando un regime è ormai marcio, pronto a cadere, e
abbandonato anche da coloro che fino a sei mesi prima lo consideravano un
modello sano e ben funzionante. Infine, una buona parte dei fondi se sono andati
in progetti di sviluppo che definire “inappropriati” è il meno, vere e
proprie “cattedrali nel deserto” (o “elefanti bianchi” come le chiamano
in inglese), disastrosi dal punto di vista dell’impatto ecologico e sociale.
Megaimpianti energetici, dighe che sradicano milioni di persone, autostrade come
la Transamazzonica in Brasile, tutte realizzate con l’attivo concorso della
Banca Mondiale che, fino a recenti resipiscenze, ha sempre sponsorizzato modelli
di sviluppo basati sulle “grandi opere”.
L’intervento
del FMI nella crisi del debito non è stato “a gratis” (a parte il fatto che
è servito a dare un ruolo forte ad un’istituzione che era nata per
stabilizzare a breve le bilance dei pagamenti in regime di cambi fissi, e
quindi, in presenza di cambi fluttuanti, si trovava quantomeno in crisi
d’identità). Esso è infatti sempre accompagnato da “pacchetti” di
condizioni, chiamati Programmi di Aggiustamento Strutturale (SAP), imposti ai
governi debitori per tirare la cinghia: massimizzare le entrate e ridurre le
spese. I pacchetti comprendevano sempre le stesse ricette, in dosi variabili: 1)
riduzione della spesa pubblica per salute, istruzione, servizi sociali; 2)
svalutazione della moneta nazionale; 3) taglio dei sussidi che mantenevano basso
il prezzo dei prodotti alimentari di base; 4) taglio di salari e posti di lavoro
nel settore pubblico; 5) privatizzazioni massicce e libero ingresso agli
investitori stranieri; 6) sostituzione delle colture da esportazione alle
colture di sussistenza. Il successo di questi programmi è molto controverso:
nella maggior parte dei casi hanno peggiorato la situazione, specialmente dei
paesi più poveri, e dei più poveri in tutti i paesi. A fronte di cali
dell’inflazione o dell’indebitamento pubblico, sta un desolante quadro di
peggioramento di tutti gli indicatori sociali: aumento della mortalità
infantile, ricomparsa di malattie che sembravano debellate, calo della
scolarizzazione. Il “risanamento” e il debito pregresso lo pagano i soggetti
che non hanno beneficiato del credito: contadini espulsi dall’agricoltura per
ingrossare le file dei disoccupati urbani, lavoratori dell’industria spremuti
in condizioni intollerabili pur di esportare a costi sempre minori per incassare
valuta pregiata, i disoccupati e gli emarginati. E’ comunque evidente che
nessuno dei paesi indebitati si è liberato dal peso dei debiti: anzi, dopo
averli più che ripagati (in termini di valuta locale), sono più indebitati di
prima (in termini di dollari, che poi è quello che conta).
Il “servizio
del debito”, che è quanto effettivamente viene pagato tra interessi e
restituzione del capitale, era stimato, nel 1997, a 272 miliardi di dollari
all’anno. Il pagamento del debito si mangia oltre il 13% del valore delle
esportazioni dei paesi del Sud del mondo. La percentuale è del 7,7% per i paesi
asiatici, ma del 28,7% per i paesi africani e del 34,2% per quelli
latinoamericani. Per la maggior parte dei paesi poveri un dollaro su tre della
valuta guadagnata vendendo prodotti sul mercato mondiale serve semplicemente a
pagare il “servizio” che le banche private internazionali hanno fatto loro
in passato, prestando soldi ai vari Mobutu, Pinochet, Marcos, Suharto e tutti i
vari dittatorelli di cui non ricordiamo neanche il nome. Nei paesi più poveri
del mondo ogni bambino ha, alla nascita, un debito di 360 dollari verso i paesi
ricchi, la banca mondiale e il FMI. Contro questi 272 miliardi di dollari di
servizio del debito (da Sud a Nord) ci sono solo 45 miliardi (aiuti pubblici
allo sviluppo, compresi i prestiti agevolati) che fanno il percorso inverso ogni
anno. Tra il 1990 e il 1998 l’aiuto pubblico allo sviluppo è calato di un
terzo in termini reali (dallo 0,35 allo 0,22% del PIL dei paesi OCSE, i quali si
erano impegnati nei lontani anni ’70 a mantenere una percentuale dello 0,7).
Sono i poveri che da vent’anni sovvenzionano i ricchi del mondo: è una specie
di “pizzo” imposto non con la lupara, ma con le asettiche leggi
dell’economia e della finanza.
Se fino al 1982
il debito si accumula silenziosamente, dopo quell’anno la storia del debito è
la storia della lenta crescita della consapevolezza dell’impossibilità di
pagare il debito, e dei tentativi di disinnescare questa specie di bomba a
tempo, tutti finora rivelatisi insufficienti, nonostante abbiano consentito di
evitare che la crisi del debito innescasse una crisi finanziaria a livello
mondiale, un nuovo 1929. Non è accaduta alcuna catastrofe globale – semmai
tante crisi “locali” che hanno messo in ginocchio ora l’uno ora l’altro
dei paesi considerati “emergenti” (ora la Corea, ora il Brasile, ora la
Russia). Ma andrebbe ricordato che una delle tante radici della disgregazione
della Jugoslavia sta proprio nell’insostenibile debito accumulato, e nella
battaglia per la ripartizione di esso tra repubbliche ricche e povere. Pian
piano è diventata coscienza di una larga parte dell’opinione pubblica (se per
questo dobbiamo ringraziare anche Jovanotti, tanto peggio!), quella semplice
verità che quindici anni fa dicevano solo economisti eretici come Susan George,
o i grandi outsiders della politica mondiale come Fidel Castro, molte
dichiarazioni (grida d’aiuto spesso inascoltate) di chiese cristiane del Sud
del mondo: il debito è illegittimo, impagabile, anzi è già stato pagato, e
rimuovere questo macigno è il solo modo per dare la speranza di un nuovo inizio
a miliardi di persone. Non solo: il debito è un boomerang
i cui effetti, proprio a causa della famosa interdipendenza globale di cui
tanto si parla, colpiscono tutti, anche noi dei paesi ricchi. Il debito colpisce
l’ambiente, perché di fronte all’imperativo “esportare o morire” i PVS
sfruttano al massimo e dissennatamente (con l’interessata collaborazione delle
multinazionali) le loro ricchezze naturali: foreste, pesca, agricoltura. Non è
un caso che i più grandi debitori sono anche i più grandi disboscatori, come
il Brasile, che deve 112 miliardi di dollari e taglia 50.000 km quadrati di
foresta all’anno. Di fronte alla continua caduta dei prezzi dei beni primari,
crescono i traffici illegali: la Bolivia spende metà del proprio reddito da
esportazione nel servizio del debito, e si calcola che il 40% della sua
forza-lavoro dipenda per vivere dal commercio di droga. Il debito colpisce
l’occupazione, non solo quella dei paesi debitori, ma anche la nostra: i PVS
impoveriti non hanno più i soldi per comprare le nostre merci. E se negli anni
‘60 il 20% più ricco della popolazione mondiale guadagnava 30 volte di più
del 20% più povero, oggi guadagna 74 volte di più. Il numero di persone che
sopravvivono sotto la soglia di povertà (meno di 1 dollaro al giorno) è
passato, tra il 1987 e il 1999, da 1,2 a 1,5 miliardi. D’altro canto, negli
ultimi quattro anni i 200 individui
più ricchi al mondo hanno visto raddoppiare
il loro patrimonio, che è pari ora al reddito del 41% della popolazione
mondiale. La sperequazione mondiale è tale che basterebbe un contributo annuo
dell’1% su questi patrimoni per garantire un accesso universale
all’istruzione primaria.
Nel 1996 è nata
in Inghilterra la campagna “Jubilee 2000” (l’idea di richiamarsi al
Levitico è venuta a un piccolo gruppo evangelico chiamato Tearfund), promossa
dalle principali chiese cristiane e comunità ebraiche, che in tre anni è
diventata un movimento internazionale di opinione e pressione sui governi,
operante in più di 70 paesi. L’obiettivo della campagna mondiale è la
cancellazione dei “debiti impagabili” almeno dei 52 paesi più poveri (di
cui 37 sono africani) entro la fine del 2000. L’espressione “debito
impagabile”, come ha precisato in più occasioni Ann Pettifor, coordinatrice
mondiale di Jubilee 2000, è volutamente vaga, per poter coprire situazioni
diverse. Quantitativamente, l’ultima stima
parla di 354 miliardi di dollari: metà di questi sono dovuti direttamente ai
governi – in prima fila i G7, il 40% a FMI e Banca Mondiale, solo il 10% a
banche private. Le coalizioni regionali
di Jubilee 2000 sono più precise, e radicali, quella dell’Africa australe
chiede l’annullamento totale e incondizionato di quel che chiama il “debito
dell’apartheid” (dichiarazione di Johannesburg, 21 marzo 1999); quella
dell’America Latina aggiunge al “debito impagabile” il “debito immorale
e illegittimo” (dichiarazione di Tegucigalpa, 27 gennaio ’99). A questo
proposito è interessante ricordare
che quando cent’anni fa gli USA conquistarono Cuba strappandola militarmente
alla Spagna dichiarano cancellato il debito di Cuba verso la Spagna sostenendo
che “era stato imposto al popolo di Cuba senza il suo consenso e con la forza
delle armi”. La dottrina giuridica USA elaborò la categoria di “debito
odioso” sostenendo che “il debito del potere non è il debito della
nazione”, e che quindi i creditori che avevano consapevolmente “commesso un
atto ostile verso il popolo” non potevano attendersi un rimborso dalle
vittime. Negli anni Venti il Costarica denunciò il debito acceso dal suo
ex-dittatore presso la Royal Bank of Canada: nella disputa che seguì
l’arbitrato fu affidato a un giudice della Corte Suprema USA, William Howard
Taft, che sostenne la stessa tesi. Questa digressione non è fine a sé stessa.
Nel 1992 l’economista americana Karin Lisskers, attuale direttrice esecutiva
del FMI, scrisse che questa tesi “se applicata oggi cancellerebbe una parte
sostanziale dell’indebitamento del Terzo Mondo”. E’ quindi in buona parte
una questione di volontà politica, la volontà di cancellare gli errori del
passato e di far ripartire su nuove basi la cooperazione Nord- Sud. Non
dimentichiamo che accanto al debito del Sud ci sono cinque secoli di “debito
del Nord”, di colonialismo, stermini e genocidi, rapina di risorse naturali,
che in forme diverse prosegue anche oggi (vedi le polemiche sulla brevettabilità
delle risorse genetiche). Jubilee 2000 è consapevole che la semplice
cancellazione dei crediti esistenti può tradursi, se null’altro cambia, in
una riattivazione dello stesso meccanismo che ha portato ad accumulare 2000
miliardi di debito, e quindi chiede molto di più di un semplice atto di
generosità natalizia o da fine (o inizio)
millennio. Si tratta di scongiurare una nuova spirale del debito, e
quindi di negoziare perché i nuovi prestiti avvengano in un quadro di
sostenibilità e di trasparenza, di sorvegliare che le maggiori risorse
finanziarie siano impegnate nella salute, l’istruzione, la salvaguardia
dell’ambiente, la lotta contro la fame, la povertà, l’esclusione. Questo
richiede un forte coinvolgimento delle organizzazioni non governative, di
solidarietà, della società civile sia del Nord che del Sud, per assicurare che
i fondi non vengano deviati in acquisto di armi o corruzione. La sovranità
degli Stati e degli operatori economici andrebbe sottoposta a un forte controllo
dal basso, a una sorta di “ingerenza umanitaria” non a suon di bombe, ma di
democrazia. Alla “condizionalità” del FMI basata su privatizzazioni e tagli
alle spese sociali si deve sostituire una nuova “condizionalità popolare”.
La difficoltà di attuare tutto questo non dovrebbe essere invocata come alibi
per non far nulla, anche perché la vera utopia irresponsabile è pensare che
tutto possa continuare come adesso.
Il più comune
argomento contro la remissione dei debiti è il “cattivo segnale” che
verrebbe dato ai mercati, la remissione sembra quasi un premio allo spreco e
all’inefficienza. È la posizione recente del direttore della Banca Mondiale,
lo statunitense James Wolfensohn, che ha definito “eccentrica” la
rivendicazione di Jubilee 2000. L’obiezione è la stessa che duemila anni fa
faceva Rabbi Hillel: una totale e sistematica remissione periodica di qualunque
debito renderebbe chiunque riluttante a concedere crediti, danneggiando gli
stessi che ne hanno bisogno (e non possono farne a meno).A parte le già
ricordate contro-obiezioni sull’illegittimità e l’insostenibilità del
debito, va fatto presente che non sarebbe la prima volta, nella storia moderna,
che ingenti debiti internazionali vengono condonati. I problemi dei PVS di oggi
si sono verificati anche negli anni ’40 e ’80 dell’Ottocento, e negli anni
’30 del Novecento. L’economista inglese Joseph Hanlon, consulente di Jubilee
2000, ci ricorda che negli anni Trenta la Gran Bretagna è stata insolvente
verso gli USA, e non ha mai pagato 12,8
miliardi di dollari agli USA (tra i paesi dell’Africa subsahariana, solo 3
hanno un debito maggiore); il resto d’Europa deve tuttora 17 miliardi di $.
Abbiamo visto che tutti i PVS, in media, pagano un servizio del debito pari al
13% delle esportazioni, e la percentuale sale ancora per i più poveri.
L’ultima iniziativa dei paesi ricchi per alleviare il peso del debito (la
cosiddetta HIPC, Highly Indebted Poor Countries) assume come sostenibile una
percentuale del 20-25%. Ebbene, una percentuale del 13% era quella che doveva
pagare la Germania negli anni Venti per le riparazioni di guerra. Un tale
macigno destabilizzò l’economia tedesca a tal punto da provocare
iperinflazione, disoccupazione di massa, e da facilitare l’avvento del
nazismo. Dopo la seconda guerra mondiale, la RFT doveva pagare un debito di
guerra pari al 10% delle proprie esportazioni. Si lamentarono che era
insostenibile, e nel 1951 gli ex-nemici ridussero la percentuale al 3,5%. Nel
1970-71 il Club di Parigi (che riuniva i maggiori creditori) ridusse dal 20 al
6% il rapporto servizio del debito/esportazioni per l’Indonesia. Non si
capisce perché quel che era insostenibile per la Germania degli anni Venti o
Cinquanta dovrebbe esserlo oggi per lo Zambia o l’Angola. Altri casi di
remissione del debito, o di abbassamento del servizio a una quota prefissata
delle esportazioni, sono quelli del Messico e della Colombia nei primi anni
’40. Questi esempi bastano a ricordare che l’indebitamento degli Stati non
si può mettere in parallelo con quello dei singoli, e che la volontà politica
prevale spesso sulla razionalità economica formale. Del resto, anche dal punto
di vista dei mercati, è vero che la presenza di un grosso debito impagabile è
fonte di incertezza e scoraggia gli investimenti. Il fenomeno si chiama debt
overhang: un paese obbligato a tener bloccata un’alta percentuale del suo
reddito nei pagamenti non può effettuare investimenti di largo respiro né in
infrastrutture, né in capitale umano, quindi le sue prospettive di diventare un
mercato interessante si riducono notevolmente.
Ann Pettifor
ci mostra, però, l’altra faccia di questa differenza tra Stati e singoli. Si
dice spesso che “gli stati non possono andare in bancarotta” (se lo sono
detto anche i banchieri internazionali negli anni ’70, per giustificare
l’erogazione incontrollata di prestiti). Il guaio è che manca un quadro
legale mondiale, basato su una normativa condivisa (una legge internazionale
sulla bancarotta), e un sistema di arbitrato indipendente: oggi i creditori
fanno da querelante, giudice, giuria ed esecutore. La regola per gli accordi di
prestito (anche quando riguardano denaro pubblico) è la segretezza. Sono
accordi tra élites: l’élite del paese debitore, sapendo di non essere
chiamata a rendere conto di quanto fa, tende strutturalmente a prendere a
prestito più del necessario. L’attuale sistema dei prestiti internazionali è
profondamente ingiusto e dominato integralmente dai creditori. Il sistema
finanziario internazionale ricorda i romanzi di Dickens, quando i creditori
avevano il potere di rinchiudere in carcere i debitori e distruggerne le vite.
Oggi non abbiamo carceri per singoli debitori, ma per paesi debitori sì.
Pettifor propone di istituire, per ogni paese indebitato, un organismo
indipendente (Debt Review Body), aperto alla partecipazione della società
civile del paese indebitato, che faccia una valutazione pubblica e trasparente
dell’entità e della composizione del debito ed emetta arbitrati vincolanti
sulla sua riduzione o cancellazione, condizionata a programmi, effettivamente
verificabili e monitorati nella loro attuazione, di riduzione della povertà.
Sarebbe essenziale il ruolo di controllo su ogni fase (dalla formulazione dei
progetti alla loro attuazione) di organizzazioni di base, chiese, movimenti
sociali sia del Nord che del Sud, e di organizzazioni internazionali come
l’UNICEF, l’UNESCO, l’OMS.
Lo slogan di
Pettifor è “facciamo funzionare due volte la remissione del debito – come
soldi ai poveri, e per dare potere ai poveri”: “Dare potere” traduce
l’inglese empowering, che in
italiano sarebbe il bruttissimo “impoterare”, o il generico “mettere in
condizione di”. Non è solo carità che occorre, ma anche e soprattutto
giustizia, riequilibrio di potere. Questo doppio processo mi fa venire in mente
l’azione di Dio in due movimenti del Salmo 113: 7-8 (“egli rialza il misero
dalla polvere e solleva il povero dal letame, per farlo sedere con i prìncipi,
con i principi del suo popolo”).
La
cancellazione del debito non è un puro fatto di ingegneria finanziaria, ma un
processo che deve mettere in discussione anche noi, il nostro modello di
sviluppo, il nostro sovraconsumo delle risorse di quest’unica terra che Dio ci
ha incaricato di coltivare. Da un lato è vero che una remissione del debito nei
termini espressi da Jubilee 2000 non costerebbe un granché al contribuente
medio dei G7.
Cancellare un
debito dal valore facciale di 354 miliardi di dollari costerebbe in realtà
“solo” 71 miliardi (essendo ben noto a tutti gli operatori che questi debiti
sono inesigibili, il loro valore sul mercato è molto scontato), cioè un terzo
dell’un per cento del reddito annuo dei paesi
OCSE. Il costo reale per ogni contribuente, distribuito su 20 anni, sarebbe di 4
dollari all’anno. Il costo potrebbe essere alleviato da misure semplici ma
che, con questi chiari di luna, paiono rivoluzionarie. Una sarebbe una forte
riduzione delle spese militari mondiali (attualmente 800 miliardi di $
all’anno). Un’altra sarebbe una tassazione internazionale dei flussi
finanziari a breve termine (che sono stimati in 500.000 miliardi di dollari
all’anno): una “Tobin tax” con la bassissima aliquota dello 0,04%
consentirebbe di pagare il servizio del debito di ben 93 paesi indebitati.
D’altro canto,
misure puramente cosmetiche non bastano. Nonostante la forte pressione della
società civile, la risposta dei governi è ancora insufficiente. Certo, si sono
fatti grandi passi in avanti rispetto a dieci anni fa: ancora nel 1995, Banca
Mondiale e FMI (i cui maggiori azionisti sono i paesi del G7) negavano esistesse
un problema di sostenibilità del debito. La campagna Jubilee 2000 ha spostato
la posizione dapprima dei paesi anglosassoni (Gran Bretagna, USA, Canada), poi,
con l’avvento al potere delle coalizioni di centrosinistra, anche di Germania,
Italia e Francia. Così, di vertice internazionale in vertice, i leader mondiali
annunciano riduzioni sempre maggiori del peso del debito.
Sono cronaca recente le riunioni del G7 a Colonia (giugno 1999) e dei
ministri finanziari e governatori delle banche centrali dei G7 (ottobre) a
Washington. Viene attribuita grande importanza al prossimo vertice dei G7, che
si terrà in luglio a Okinawa (Giappone), tanto che Jubilee 2000 ha designato il
prossimo 23 luglio “Debt Decision Day” invitando gli internauti a tempestare
di cartoline virtuali il primo ministro giapponese. Per ora, aspettando le
prossime riunioni della Banca Mondiale e del FMI (che nel frattempo è rimasto
senza presidente, per le dimissioni di Camdessus), è stata espressa la volontà
di cancellare una buona parte (Clinton si è spinto, il 30 settembre, a invocare
il 100%), del debito dei 41 paesi più poveri, che ammonta a circa 100 miliardi
di dollari. L’operazione dovrebbe essere finanziata da aumenti delle riserve
auree del FMI. Le intenzioni sono ottime, e infatti la coalizione europea di
Jubilee 2000 ha salutato questa decisione come un grande passo in avanti. Ma è
giunto mantenere una vigilanza critica. Infatti le promesse dei G7 riguardano
solo i 41 paesi più poveri, in maggioranza piccoli paesi, escludendo in
partenza paesi come Messico, Brasile, India, Bangladesh e le tigri del Sud Est
asiatico, paesi dove, pur avendo un reddito pro capite maggiore, vive la maggior
parte dei poveri del mondo. In secondo luogo un paese, per rientrare
nell’iniziativa, deve aver già applicato per almeno 6 anni un programma di
aggiustamento strutturale. In terzo luogo, i proclami dei G7 si riferiscono solo
al “debito bilaterale”, quello coi singoli paesi industrializzati membri del
“club dei creditori”, che è la metà del totale (ma per i paesi più poveri
la percentuale è minore), e non intacca quello dovuto alle banche private (che
comunque è solo il 10%) e soprattutto a FMI e Banca Mondiale, i quali non
rinunciano ad alcun credito (al massimo li vendono, o li convertono). Così, il
100% proclamato da Clinton può ridursi a un 5% sul totale dello stock del
debito, non proprio una goccia nel mare, ma quasi. Per venire a faccende di casa
nostra, il governo D’Alema, dopo la performance di Jovanotti al festival di
Sanremo ha rilanciato con gran clamore un disegno di legge che aveva presentato
qualche giorno prima di Natale, ma era passato inosservato tra le manovre della
crisi e i timori per il millennium bug. Un provvedimento come questo
è una risposta del tutto insufficiente. Prima di tutto, come dice la stessa
relazione introduttiva, “il provvedimento non comporta oneri aggiuntivi
diretti al bilancio dello stato”: si tratta d’un’operazione di carattere
solo formale su crediti considerati ormai perduti, debiti che i paesi
interessati in realtà non stavano pagando. Pertanto i debitori non liberano
alcuna risorsa: l’operazione (che il ddl presenta come straordinaria,
eccezionale e una tantum) si limita a una ripulitura di bilanci per lo stato
italiano, come quando le banche passano a perdite i crediti inesigibili. Dal
punto di vista quantitativo, il ddl individua come potenziali beneficiari 18
paesi con reddito pro capite inferiore ai 300 $/anno: di questi due (Niger e
Ruanda) non sono neanche indebitati con l’Italia; dieci (Burkina Faso,
Burundi, Congo ex Zaire, Malawi, Mali, Sao Tomé, Sierra Leone, Somalia, Sudan,
Yemen) pagano già pochissimo o nulla. Solo per sei paesi (Ciad, Etiopia, Guinea
Bissau, Madagascar, Mozambico, Tanzania) stanno pagando qualcosa e per loro la
cancellazione avrebbe un effetto reale. Restano fuori altri paesi poveri, come
la Guinea Conakry o lo Zambia. In tutto i debiti cancellati ammontano a 3.000
miliardi di lire, mentre il credito italiano verso i 52 paesi più poveri è di
9.500 miliardi (quello totale è di circa 60.000, di cui 35.200 è il credito
delle banche). Nel 1998, questi paesi hanno restituito all’Italia poco più di
220 miliardi: una rinuncia ai crediti costerebbe pertanto a ogni cittadino
italiano 4.000 lire all’anno. Terzo e ultimo limite, il provvedimento è
condizionato all’avvio, da parte dei paesi interessati, di “un programma di
aggiustamento strutturale monitorato dal FMI”: non viene quindi messa in
discussione la logica disastrosa delle politiche neoliberiste. Infine, secondo
il ddl, i paesi beneficiari devono impegnarsi “a riconoscere e garantire i
diritti umani e le libertà fondamentali, a rinunciare alla guerra come mezzo di
risoluzione delle controversie internazionali, e perseguire il benessere e il
pieno sviluppo della persona umana, favorendo in particolare la riduzione della
povertà”. Parole sante e sani princìpi, ma che suonano come un’atroce
presa in giro per tanti paesi a cui proprio noi creditori abbiamo venduto (e
vendiamo) le armi. “Se lei cancella il debito a lei andrà la gloria”, dice
Jovanotti nel rap sanremese dedicato a D’Alema. A queste condizioni, è gloria
a basso prezzo, è la gloria di un quarto d’ora che i mass-media concedono a
chiunque, ma non cambia le cose.
Gloria a caro
prezzo (mi scuso se parafraso la terminologia di Bonhoeffer in Sequela sulla grazia) sarebbe invece riuscire ad incidere sui
meccanismi che riproducono il debito e l’ingiustizia. Qui l’azione dei
governi deve essere supportata, incalzata, accompagnata, contestata
dall’impegno di tanti e di tante; non solo dalle raccolte di firme e dai
cortei (reali o virtuali), ma dal fare in piccolo, dalla costruzione
“lillipuziana” di alternative.
2. credito
“Debito”
chiama “credito”. La richiesta di cancellazione del debito si accompagna
alla proposta di nuovi canali di credito alla società civile (e non ai governi)
del Sud del mondo. Non solo fermare l’emorragia di capitali che vanno dal Sud
al Nord, ma procurare nuove risorse per dare a queste economie una prospettiva
di ripresa. Bisogna imparare a ragionare in una logica di finanza
etica e di microcredito. Sappiamo
bene che la grande finanza presta a chi dà più garanzie (vecchia battuta:
“per ottenere un prestito bancario bisogna dimostrare di non averne
bisogno”), e che non va tanto per il sottile pur di massimizzare il profitto.
Bisogna fare incontrare l’esigenza del risparmiatore consapevole di collocare
i propri risparmi in un impiego di cui non si debba vergognare, e l’esigenza
di fondi di milioni di piccoli agricoltori, allevatori, artigiani, di consorzi e
cooperative di villaggio. Potremmo anche dirlo al femminile, perché in questi
decenni abbiamo imparato quanto sia grande, e tenuto nascosto da una perversa
collaborazione tra le antiche culture patriarcali e la moderna cooperazione allo
sviluppo, il ruolo economico delle donne del Sud del mondo. Ad esempio, le donne
africane, che costituiscono il 60% della forza lavoro agricola e concorrono a
produrre l’80% degli alimenti di base, ricevono meno del 10% del credito
concesso al settore agricolo in Africa.
Anche in Italia, specialmente da quando è stato tradotto il libro di Muhammad
Yunus,
il fondatore della Grameen Bank che eroga credito al 10% della popolazione del
Bangladesh, abbiamo imparato cos’è il microcredito: la concessione di
piccolissimi prestiti per piccolissimi progetti. Piccolissimi per il metro di
misura dei colossi bancari, ma grandi per la vita dei singoli, per i quali
potersi comprare le sementi, un aratro in ferro, una spolpatrice per il caffè,
un camioncino per portare i prodotti al mercato, e poterlo fare senza ricorrere
agli usurai, fa la differenza tra vita e morte, tra dignità e degrado.
Il microcredito
è un fenomeno in espansione: il Grameen Trust ha avviato progetti in 19 paesi
asiatici, africani e latinoamericani. Il movimento delle banche di villaggio è
cresciuto sino a realizzare 68 programmi in 32 paesi; Action Network raggiunge
277.000 clienti in USA e 13 paesi latinoamericani. Il primo vertice mondiale del
microcredito, tenutosi a Washington nel febbraio 1997, si è dato l’obiettivo
di raggiungere 100 milioni di famiglie povere entro il 2005. L’obiettivo è
ritenuto realizzabile: il potenziale di espansione della finanza etica è
grandissimo e la sua efficienza molto maggiore di quella della finanza
tradizionale. Basti pensare che i tassi di sofferenza del microcredito non
superano l’1%, contro il 10% (Europa settentrionale), o il 25% dell’Europa
meridionale, per non parlare degli autentici dissesti nei paesi del Sud. Yunus
cita il caso della Bangladesh Industrial Development Bank, di proprietà del
governo, che ha una percentuale di rimborso di circa il 10%: la ragione sociale
più appropriata potrebbe essere “Istituto di carità per i ricchi”. La
differenza è spiegabile perché nei circuiti del microcredito c’è un
meccanismo di responsabilizzazione sociale. Il gruppo, il villaggio, la comunità,
si fa carico della restituzione del credito accordato ad un singolo. La finanza
etica, il rifiuto del gigantismo e della speculazione, il sorgere di una figura
di risparmiatore che vuole sapere che destinazione hanno i suoi soldi, a quali
donne e uomini in carne e ossa sono utili, è il tentativo da parte della società
di riagganciare la moneta, di piegarla a usi socialmente utili, di creare legame
sociale e qualità sociale. Lo strumento che la società si era dato per
agevolare l’attività economica, e che si era trasformato in un fine a cui
sacrificare tutto, cioè in un idolo, deve essere buttato giù dall’altare, e
tornare ad esser visto come uno strumento.
3. Commercio
“Debito”
chiama anche “commercio”. L’unico modo per rifondere i debiti, accesi in
valuta pregiata, è procurarsi valuta pregiata tramite l’esportazione di beni
e servizi, cioè partecipare al commercio internazionale. Sappiamo che il gioco
del commercio internazionale è sistematicamente sfavorevole ai PVS, in specie
quelli specializzati nell’esportazione di materie prime, il cui prezzo
(petrolio escluso) è molto instabile, e tendenzialmente in ribasso relativo
rispetto a quello dei manufatti e dei beni ad alta tecnologia. Questo problema
è sempre stato al centro dei contenziosi Nord- Sud: la crisi del debito,
indebolendo la forza contrattuale del Sud costretto a pietire rinegoziazioni e
riscaglionamenti col cappello in mano, ha decretato la fine della grande
speranza degli anni Settanta, cioè gli accordi internazionali sulla
stabilizzazione dei prezzi delle materie prime. Inoltre, le esportazioni del Sud
del mondo verso il Nord sono sempre sottoposte ad un grado di protezionismo
maggiore di quelle che fanno il percorso inverso: il Nord predica il “libero
commercio”, ma lo attua solo quando gli fa comodo. Sappiamo infine quanto il
commercio mondiale sia dominato dalle imprese multinazionali, con tutto quel che
ne consegue. Anche nel campo del commercio, dobbiamo metterci in ascolto dei
segnali deboli, delle piccole alternative che crescono, conoscerle, aiutarle,
dar loro spazio. Parlo del fair trade,
quello che in Italia si chiama “commercio equo e solidale”. Ma “fair”
significa anche “giusto”, bello, corretto, leale. Il richiamo a Levitico 25:
14 («se vendete o comprate qualcosa (…) nessuno truffi il suo prossimo»)
viene immediato.
Il fair trade
nasce in Olanda, a Brekelen, nella primavera del 1969, fondato da un gruppo di
cattolici terzomondisti. Due anni dopo in Olanda c’erano già 120 “botteghe
del mondo” e l’esperienza fu presto esportata nei paesi vicini: in Italia
c’è da una decina d’anni. Una stima del 1996 quantifica in 600 milioni di
dollari (di cui 400 in Europa) il giro d’affari mondiale del fair trade, una
goccia nel mare rispetto al totale del commercio internazionale di beni e
servizi (l’incidenza percentuale è 8 su 100.000); i suoi canali coinvolgono
però 1.200.000 nuclei familiari o produttivi nel Sud del mondo: circa 7 milioni
di persone vivono più dignitosamente grazie a questo network internazionale. In
realtà, quindi, l’impatto occupazionale, per il Sud, del fair trade rispetto
al commercio internazionale è di 1 su 150: minoritario ma per nulla
irrilevante! Sul piano salariale e normativo, le condizioni dei lavoratori
collegati al fair trade sono molto migliori di quelli dipendenti da imprese
locali o da filiali di multinazionali; cooperative e comunità collegate col
fair trade ricevono un credito all’ordine che consente loro l’acquisto delle
materie prime per avviare la produzione; nei contratti di fornitura esistono
“clausole sociali” che prescrivono di destinare una quota del fatturato (in
media il 5%) per migliorare le condizioni di vita della comunità o del
villaggio dove sono inseriti i produttori. Il contrario della logica della maquiladora, dello sweat shop,
dell’investimento “mordi e fuggi” che si insedia, sfrutta i vantaggi
normativi e fiscali rimanendo un’isola di modernità in un mare di
arretratezza, e dopo pochi anni si delocalizza ulteriormente lasciando dietro di
sé una forza lavoro spremuta e un ambiente devastato. Fair trade si oppone non
al concetto in sé di “free trade”, di commercio libero, ma alla sua
ideologia, alla sua assolutizzazione a danno di qualunque altra considerazione,
di giustizia sociale, ambientale, sanitaria, come è portata avanti da
organizzazioni come la WTO (“la battaglia di Seattle”). Il commercio, che
nel ‘700 e nell’800 era visto come un’alternativa alla guerra (nel 1857 il
teologo Richard Cobden scrisse “il commercio è la diplomazia di Dio e non
c’è altro modo più certo di unire l’umanità nel vincolo della pace”),
è oggi nei fatti praticato come una guerra, nel linguaggio e nei metodi, guerra
nella quale sono ovviamente i più poveri, le donne, i bambini, a pagare il
prezzo maggiore. Il fair trade riscopre l’antica aspirazione (che domina la
vita economica europea dal Medioevo fino ai primordi del capitalismo) al
“giusto prezzo”, cioè un prezzo che abbia a che vedere col valore
“naturale” del bene venduto e che garantisca entrambe le parti. Il movimento
del fair trade cerca pertanto di
fissare un giusto prezzo riducendo lo scarto informativo che oggi c’è tra
produttori e consumatori, e quindi dell’extraprofitto
che ne ricavano (anche attraverso la moltiplicazione degli intermediari) le
multinazionali. Detto in altro modo: la ricerca del “prezzo giusto” passa
attraverso l’apertura di canali di comunicazione diretta, di conoscenza tra
produttori e consumatori, di analisi dei bisogni di entrambi.
Elemento
costitutivo è la trasparenza, la rottura del velo di opacità che nasconde gli
uomini e le donne che si affaticano per produrre quel caffè, quello zucchero,
quel portafoglio decorato a vivaci colori che vediamo sullo scaffale della
bottega. Per questo, anche se spesso, traditi dalla frenesia, non li leggiamo,
nelle botteghe ci sono cartelli e dépliant che ci spiegano come si forma il
prezzo finale che andiamo a pagare, quanto di esso va in tasca ai produttori
diretti, e al posto di un generico e spesso bugiardo “made in…”, troviamo
la storia delle cooperative che hanno prodotto i beni esposti. Oggi si parla di
mercato a tutto spiano e nessuna persona di buon senso si dichiara contro “il
mercato”: ma si ha del mercato un’idea anonima e spersonalizzata, antitetica
alla concretezza dei valori d’uso e a qualunque tipo di relazione sociale. Non
per nulla il mercato perfetto è la Borsa telematica, dove programmi
computerizzati comprano e vendono merci inesistenti come i futures.
Il commercio equo ci fa riscoprire che per millenni, nella storia umana (e anche
nella Bibbia) i “mercati” sono stati posti ricchi di colori, di suoni, di
odori, di incontro tra genti e popoli diversi. Oggi la “mercatizzazione” di
tutto, la mercificazione della cultura, della salute, della scuola, della
politica, dei bisogni spirituali ecc. è un appiattimento, una reductio
ad unum che crea un mondo a una dimensione, interessato solo ad alimentare
una macchina produttiva slegata dai bisogni concreti e interessata solo, come le
cellule cancerose, alla crescita ininterrotta.
Mi sono dilungato
sul microcredito e sul commercio equo non perché li ritengo una panacea per i
mali del mondo, ma perché sono indubbiamente una parte dello sforzo che
ciascuno/a può fare. Lo stato del mondo è tale che non possiamo permetterci di
sottovalutare o guardare con sufficienza nessuno dei possibili canali attraverso
cui cambiare le cose. Del resto, non vedo in base a cosa potremmo farlo, visto
che siamo privi di un pensiero forte che ci detti le ricette per l’osteria
dell’avvenire. La politica tradizionale, quella dei leader, dei militanti di
partito e dei sindacati; la politica della società civile, delle mobilitazioni
e delle raccolte di firme; l’intervento di emergenza che ci fa mettere mano al
portafoglio; la cooperazione sul campo e i progetti di sviluppo; infine la
finanza etica e il commercio equo. Tutto è insufficiente, niente è inutile.
Commercio equo e finanza etica, più di altro, si collegano a un impegno che non
è né eroico e totalizzante (il volontario o il missionario che se ne va in
Kenya o in Kosovo), né occasionale (la generosa offerta sul conto corrente
“pro alluvionati”), ma quotidiano e duraturo, alla portata di chiunque,
esigente ma sostenibile. L’efficacia del commercio equo e del microcredito è
legata non solo all’abnegazione di pochi e al sostegno finanziario di una
platea di benefattori, ma alla diffusione di una nuova figura di soggetto
economico: il consumatore (e risparmiatore) consapevole. Un soggetto che, come
abbiamo ripetuto più volte, non si fermi alla superficie del prezzo e del tasso
d’interesse ma sia capace di vedere (e, prima ancora, di andare a cercare) la qualità
sociale dietro le proposte di consumo o d’impiego del risparmio che il
mercato offre.
4. Levitico 25
Cosa c’entra la
Bibbia, il Levitico, il giubileo? La scommessa è proprio che, qui ed ora, come
è successo altre volte nella storia ebraica e cristiana, un testo o un concetto
biblico si imponga quasi per forza propria e spinga a una contagiosa conversione
delle coscienze. Non è solo un auspicio, perché qualcosa si è mosso e si sta
muovendo. Leggiamo cosa scrive il giornalista inglese Will Hutton:
«Chi ha detto che la religione è morta e che non c’è più un Dio?
(…) La campagna Jubilee 2000 deve il suo successo e la sua ispirazione alla
Bibbia (…) al termine di un secolo sempre più secolarizzato, è stata la
Bibbia che ha espugnato le fortezze della finanza internazionale, e ha aperto la
via a un atteggiamento radicale verso il capitalismo, le cui conseguenze non
sono ancora pienamente comprese. (…) Di fronte a Levitico 25, il Capitale di
Marx sembra un testo all’acqua di rose (…) La remissione del debito non
risolverà da sola i problemi della povertà mondiale. Ma è un inizio e una
sfida al capitalismo contemporaneo. La proprietà e la finanza privata non
possono essere indipendenti dalla comunità mondiale, vi sono incorporate. Non
si può accettare fatalisticamente la distribuzione internazionale del reddito
se implica sofferenze inaccettabili. La sinistra prenda nota: non sono più
Morris, Keynes e Beveridge
che ispirano il cambiamento del mondo: è il Levitico». A dire il vero, il
discorso non riguarda solo la sinistra: in Gran Bretagna e negli USA le
argomentazioni di Jubilee 2000 hanno fatto breccia anche in settori
conservatori. Mentre da noi Polo e Lega facevano una piazzata sul fatto che
Jovanotti si rivolgeva a D’Alema nel rap del debito (e a chi doveva rivolgersi
se non al capo del governo?), negli USA molti deputati repubblicani, e proprio
della destra più reazionaria (ma ben nutrita di letture bibliche) hanno
appoggiato Clinton nella sua determinazione a rimettere il 100% del debito dei
paesi più poveri. Adrian Lovett, vicedirettore di Jubilee 2000, dice di aver
incontrato un congressista repubblicano che gli ha detto: “Ho una visione.
Penso a una madre, in qualche paese africano, che tiene la mano del suo bambino
e guarda nel cielo uno dei nostri nuovi F22 che vola sopra la sua testa. Quando
vede quell’aereo, non voglio che pensi: Sono gli americani, sono i cattivi –
ma voglio che pensi: Sono gli americani, hanno fatto andare mio figlio a
scuola”.
D’accordo,
dietro una dichiarazione simile c’è molto nazionalismo, molto semplicismo e
un linguaggio da film western; d’accordo, come abbiamo visto prima, persino il
100% di remissione promesso da Clinton è insufficiente. Ma, se teniamo conto
che a pronunciare queste o simili parole sono gli stessi che sostengono una
linea isolazionista e negano finanziamenti vitali all’ONU, all’UNICEF ecc.,
ci accorgiamo che quantomeno sulla questione del debito le coscienze si sono
mosse, e che la Bibbia c’entra qualcosa. Insomma, la Parola non è incatenata.
Ma una volta che
lasciamo libera la Bibbia di parlare, non possiamo attenderci che tutto resti
come prima. Dopotutto, senza bisogno di Levitico 25, più volte nella storia i
debiti sono stati rimessi, dagli antichi re mesopotamici sino a oggi. La
questione è più seria. Sta crescendo nella cristianità la coscienza di una
stretta connessione tra economia e teologia: non è un caso che economia, ecologia, ecumene
abbiano la stessa radice greca (oikòs):
la terra come casa comune di tutte le creature viventi. Non è un caso che Gesù
ci chieda di pregare per il “pane quotidiano” e che al tempo stesso il pane
simboleggi il dono che Egli ci fa del suo corpo e della sua presenza in mezzo a
coloro che lo invocano. Non è un caso che Gesù (in Giovanni 10: 10) dica di
essere venuto perché tutti “abbiano vita e l’abbiano ad esuberanza”. Se
vogliamo essere discepoli di colui che è venuto a donare vita abbondante a
tutti, dobbiamo riconoscere che l’economia riguarda il nostro ministero.
La Bibbia parla più di economia che di sesso (come ha detto Bill Phipps,
presidente della chiesa protestante unita del Canada);
molti detti di Gesù fanno riferimento all’economia, e indubbiamente nella
parabola del grande giudizio (Matteo 25), i criteri sono molto concreti (cibo
per gli affamati, bevande per gli assetati, ecc.). Come supererebbero questo
esame i sistemi economici contemporanei? Per questo i cristiani e le chiese non
devono fermarsi alla superficie, agli indici di borsa o al Prodotto interno
lordo (indice rozzo, che nasconde il lavoro invisibile e non remunerato delle
donne, o dà un valore positivo alle catastrofi naturali perché aumentano gli
investimenti per la ricostruzione): sono gli indici di sviluppo umano (mortalità
infantile, istruzione, accesso all’acqua potabile, ambiente, ecc.) che contano
nel giudicare la performance di un
paese. La domanda da farsi è sempre: come sta chi sta peggio? Senza farci
abbagliare da un mondo che esalta i Vip, si tratta di recuperare quello che
Bonhoeffer chiamava “lo sguardo dal basso”, dalla prospettiva “degli
esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei
derisi”, senza che diventi un banale “prender partito per gli eterni
insoddisfatti”
(anche l’ammonimento di Bonhoeffer è estremamente attuale).
Il Dio biblico pretende sovranità su tutti gli ambiti della
vita ed è attento in egual misura alla purezza del culto come alla giustizia
sociale, rivendica insieme l’abbandono dell’idolatria e la pratica del
diritto e della giustizia. Lo scandalo della fame, del debito, della schiavitù,
del lavoro minorile, del turismo sessuale, del degrado ambientale, sono
questioni “spirituali”, non “materiali”. Non basta (anche se non fa
male) l’appello alla carità privata, o all’onestà personale; come ha detto
nel 1937 la Conferenza mondiale di Oxford su “Chiesa, comunità e stato”: «Le
forze del male contro cui i cristiani devono lottare (…) sono penetrate e
hanno infettato le strutture della società, e anche qui devono essere
combattute. Atti individuali di carità all’interno di un determinato sistema
possono mitigarne l’ingiustizia ed accrescerne la giustizia, ma essi non
liberano i cristiani dalla responsabilità di ricercare le soluzioni
istituzionali migliori tra le possibili, e migliori strutture sociali
nell’organizzazione della vita umana».
L’appello
anti-idolatrico e quello alla giustizia sono inscindibili. Giorno dopo giorno il
mercato e gli indici di Borsa stanno diventando i nostri dèi, divinità irate e
capricciose per recuperare la fiducia delle quali dobbiamo effettuare periodici
sacrifici umani, magari rinunciando alle reti di protezione sociale
pazientemente costruite negli ultimi decenni. Siamo bersagliati da una perversa
pseudo-teologia della liberazione che promette, una volta che “il mercato”
sarà liberato da lacci, laccioli, regolazioni e limiti, tutto andrà per il
meglio: le risorse saranno ben distribuite, le opportunità fioriranno per
tutti, i problemi si avvieranno a soluzione. Per la religione un posto si trova
sempre: alle chiese istituzionali il compito di alleviare le sofferenze dei
perdenti della competizione, di gestire privatamente pezzi di stato sociale
smantellato, di dare un po’ di “anima” e “valori” (ma senza strafare)
a una società sempre più disgregata. Ai singoli basta offrire la possibilità
di costruirsi “su misura” la propria religione con un bel patchwork: un
po’ di fiori di Bach, un po’ di meditazione trascendentale, qualche
preghiera agli angeli custodi e un pizzico di umorismo yiddish, per ritemprarsi
nel tempo libero.
Il Dio biblico,
invece, non sa stare al proprio posto e non si accontenta di fornire pillole di
saggezza, ma osa mettere in discussione i rapporti economici e sociali, come
Signore della terra e liberatore degli schiavi. Secondo Daniele Garrone
le prescrizioni giubilari, pur non essendo mai state attuate nella storia ed
essendo, se prese alla lettera, inattuabili, hanno un forte potenziale di
critica alle dinamiche negative della globalizzazione, e insieme un forte grado
di realismo. Infatti, è quanto mai realistico riconoscere che ogni sistema
economico ha in sé una tendenza alla polarizzazione, all’accumulo di grandi
ricchezze da una parte e di scandalose povertà dall’altro. L’economista
svedese Gunnar Myrdal parlava del “principio di causazione cumulativa”: per
i vincenti di oggi è più facile vincere anche domani. Servono pertanto
meccanismi “anti-inerziali” che blocchino l’impoverimento cumulativo,
fermino il degrado e ripristinino un minimo di “pari opportunità”. Senza
illudersi che un potere illuminato abolisca una volta per tutte l’ingiustizia
e l’avidità, si tratta di trovare (e soprattutto di far attuare) regole che
limitino l’arbitrio dei poteri forti. Il tenore dell’attuale discorso tende
a deresponsabilizzarci: si parla delle “leggi oggettive dell’economia”
come se fossero naturali o divine, poi, paradossalmente, si parla di “miracoli
economici”, o si profetizza l’avvento di una “new economy” dove le
vecchie leggi non valgono più e basta affidarsi all’irresistibile ascesa dei
titoli tecnologici per arricchire senza fatica. Ma frasi come “l’economia
richiede questo o quello” nascondono il fatto che tutte le scelte economiche
sono fatte da qualcuno, che essi possono essere discusse e cambiate, che chi
decide può e deve essere richiamato alle sue responsabilità. La “mano
invisibile” del mercato (Smith) deve essere resa visibile, e i rapporti di
potere devono essere resi palesi. Quando questo avviene, anche il senso
d’impotenza può diminuire.
Le chiese non
hanno la ricetta per attuare sulla terra l’utopia di Dio, né più
semplicemente per realizzare una società più umana e desiderabile. Dobbiamo
avere l’umiltà di riconoscere che la crisi della politica è una cosa seria e
nessuna scorciatoia la può risolvere. Per “politica” non intendo il gioco
dei partiti, ma proprio il percorso dal reale al desiderabile, quali strumenti,
quali soggetti, quali mediazioni e compromessi. È la stessa domanda che pone
Daniele Garrone al termine del suo studio sul Levitico: chi può bandire un
giubileo? S’intende, un giubileo nel senso biblico della parola. Chi può «avviare
un processo che abbia obiettivo quello di un “patto” che, sancendo dei
limiti e dei meccanismi che disinneschino l’irreversibilità
dell’impoverimento, garantisca la visibilità della terra e sulla terra nel
modo più universale possibile?»
A questa domanda non rispondo, e non solo perché non so
rispondere: ve la lascio perché è la domanda dei prossimi anni. L’unica cosa
che so è che sembrano essere tramontati i modelli ingegneristici (applicazione
di ricette prefabbricate) o militari (l’avanguardia e la sua politica delle
alleanze) del cambiamento sociale. Forse un’ispirazione ce la possono dare
l’Esodo, il patto, il deserto. Il soggetto del cambiamento non è definito una
volta per tutte dalla “scienza dell’emancipazione”, non è un “popolo”
omogeneo per etnia o religione, ma si costituisce faticosamente, per tentativi
ed errori, nel “camminare domandando” (il bellissimo slogan zapatista), fra
conflitti e riconoscimenti dell’alterità. Per noi quel che conta è imparare
a discernere in cielo la colonna di nuvole (Esodo 13: 21) con cui il Signore ci
guida; e a discernere, qui sulla terra, nel volto dell’altro da noi il volto
di Cristo.
Vedi “Ten questions about Jubilee 2000”, reperibile
all’indirizzo http://www.jubilee2000uk.org/faq/html
Nel linguaggio di Jubilee 2000, come in quello del CEC,
“regionale” significa “a livello di continente”.
Riprendo un articolo di Noam Chomsky, “Jubilee 2000”, The
Guardian, 15 maggio 1998.
Nel documento “Concordats for debt cancellation: a contribution for
the debate”, del 30 marzo 1999, reperibile al sito
http://www.jubilee2000uk.org/main.html.
Alberto Castagnola e Maurizio Meloni, “Tutti i debiti sono da
cancellare a partire da quelli insostenibili”, Il
Manifesto, 24/2/00, p. 4. Vedi anche Alberto Castagnola, “Il buon
usuraio della notte di Natale”, Il
Manifesto, 28/12/99, pagg. 8-9.
Tonino
Perna, Fair Trade, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pag. 76.
Muhammad Yunus, Il
banchiere dei poveri, Milano, Feltrinelli, 1998.
Will Hutton, “The Jubilee line that works”, The Guardian, 3/10/99.
Ovviamente Hutton porta esempi ispirati alla cultura inglese (Morris
scrittore utopista dell’800, Keynes il noto economista, Beveridge
l’artefice dello stato sociale “dalla culla alla tomba”).
Riprendo dal documento del CEC Fede
cristiana ed economia mondiale oggi, pubblicato come supplemento al n.
42 di Riforma del 4/11/94.
“Il mercato è diventato il Dio della società”, Riforma,
11/6/99.
Dietrich Bonhoeffer, Resistenza
e resa, Cinisello Balsamo, Paoline, 1988, p. 74.
Daniele Garrone,
“Proclamate la liberazione nel paese. Una lettura di Levitico 25”, in L’utopia
di Dio, Roma, FCEI- UICCA, 1999, pagg. 29-39.
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