ciclo di incontri - Novembre 1998
Quaderno n. 74
Leggere la Scrittura. Un approccio culturale al testo biblico
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Linguaggio poetico e linguaggio religioso

Giuseppe Grampa
 

La nostra riflessione prenderà le mosse da una constatazione che trovo in una lettera del cardinale Martini a proposito della comunicazione simbolica della fede: «L’uomo è capace di raccontare miti e di eseguire calcoli esatti e rigorosi, di fare della poesia e dell’informatica, di scrivere favole e di costruire robot. Perché? Non è una domanda futile. La risposta può permetterci di capire meglio il mistero di un’umanità che, al tempo stesso, prega e calcola, sogna e pianifica. I diversi e, a prima vista, incompatibili linguaggi di cui la stessa persona è capace possono condurci a meglio comprendere l’uomo che di tali linguaggi è autore e che in essi si manifesta»[1].

Esploreremo, in un primo momento, la struttura del linguaggio simbolico; diremo, poi, qualche cosa sul linguaggio narrativo e ci chiederemo, successivamente, perché queste forme comunicative sono particolarmente adeguate ad esprimere l’esperienza religiosa.

Quando noi apriamo la Bibbia, scopriamo che in larga misura essa parla il linguaggio simbolico e il linguaggio narrativo. Cercheremo di capire come mai la comunicazione di Dio (dire Dio) vada alla ricerca di questi strumenti espressivi, se cioè non esista una parentela, una prossimità tra linguaggio simbolico, da un lato, e rivelazione di Dio, dall’altra.

Prima però dobbiamo notare come nella storia del pensiero occidentale vi sia una lunga tradizione di sfiducia, di diffidenza nei confronti del linguaggio mitico-simbolico (che è poi il linguaggio dell’esperienza religiosa): già Aristotele, nel secondo libro della Metafisica, aveva preso le distanze da coloro che fanno ricorso alle “elucubrazioni mitologiche”, mentre una antica contrapposizione privilegia il logos (discorso rigoroso) al  mythos (dire simbolico); solo il primo sarebbe l'ambito di una rigorosa comunicazione della verità, mentre il mito non potrebbe dischiuderci l’accesso alla verità. Così, i linguaggi poetici, mitici e simbolici sarebbero sì suggestivi e affascinanti, ma non affidabili sul piano della conoscenza. Soprattutto il pensiero moderno e contemporaneo ha tentato di risolvere questa alternativa, a favore del logos, confinando i linguaggi mitici, simbolici, poetici e religiosi in una sfera nella quale non abita la verità e, in ogni caso, in un livello inferiore rispetto al vertice in cui domina il discorso rigoroso, che sarà poi quello della scienza.

C’è un testo quanto mai significativo di Wittgenstein, che esprime con assoluta nitidezza questa impostazione: «Io mi proponevo di andare al di là del mondo, al di là del linguaggio significante. La mia tendenza e quella di tutti coloro che abbiano mai cercato di scrivere o di parlare di etica e di religione è stata quella di avventarsi contro i limiti del linguaggio. Questo avventarsi contro le pareti della nostra gabbia è perfettamente, assolutamente disperato». Si tratta di un passo importantissimo, nel quale l’autore dice che scrivere o parlare di religione significa «avventarsi contro i limiti del linguaggio», tentare di andare al di là del linguaggio significante; dice anche che è come «avventarsi contro le pareti di una gabbia»; come dire: noi abbiamo parole buone per descrivere il mondo, ma questa è sostanzialmente una gabbia. E' un’immagine singolare che dice appunto chiusura, recinto, limite. Poi aggiunge: «Tutte le volte che noi tentiamo di parlare di religione, di interrogarci sull’assoluto valore, sul senso ultimo, è come se noi tentassimo di forzare la gabbia e di forzare le parole di cui disponiamo e che sono buone per descrivere il mondo, la realtà nella quale siamo. Questo tentativo, che deve essere massimamente rispettato, non aggiunge nulla alla nostra conoscenza, è un atteggiamento dell’animo umano che merita grande rispetto ma che non appartiene all’ordine della conoscenza». Questo testo afferma che, nell’ordine della conoscenza, non valgono i linguaggi religiosi, simbolici, poetici: tutto questo non appartiene all’ordine della conoscenza ed è il tentativo di forzare la gabbia, di andare al di là del mondo che noi abitiamo, interrogandoci sull’assoluto valore, sul senso ultimo.

Senza ricordare molti altri autori moderni e contemporanei, ci limitiamo a raccogliere questa conclusione: il pensiero moderno –questa espressione di Wittgenstein è davvero emblematica – non riconosce a questi linguaggi la capacità di dischiuderci l’accesso alla realtà, alla verità, sono il tentativo di forzare la gabbia, l’orizzonte dentro il quale noi siamo situati e rinchiusi.

Una versione più recente (l'interpretazione psicologica) intende questi linguaggi come funzione espressiva di emozioni, ma non vera e propria conoscenza. Di conseguenza, se vogliamo conoscere, dobbiamo affidarci al rigore della scienza, se invece vogliamo sentire e sperimentare, possiamo anche affidarci a questi linguaggi. L’arte e la religione appartengono alla sfera delle emozioni, non alla sfera della conoscenza.

Ora, l’ipotesi dalla quale muove la nostra riflessione è che, invece, i linguaggi religiosi, poetici e simbolici dischiudono un accesso alla realtà che non è esattamente quello delle scienze. La funzione simbolica può avere un valore esplorativo nei confronti della realtà.

Questi linguaggi poetici e religiosi appartengono al grande registro del simbolico. Per chiarire cosa intendiamo per simbolico, sulla scorta del pensiero di Paul Ricoeur, distinguiamo tra segni e simboli: il mondo dei segni è il mondo della univocità, il mondo dei simboli è il mondo della plurivocità, multivocità, equivocità. Abbiamo dunque un segno tutte le volte che il codice di cui ci serviamo (il segno), rinvia a un dato, e a uno soltanto, come ad esempio per la fisica, la chimica, la matematica o l’informatica (anche se spesso si adopera, un po’ a sproposito, il termine simboli). Oggi è possibile, grazie all’informatica, trattare una grande quantità di dati e di informazioni, traducendoli in una serie di segni, in cui ad un segno (codice) corrisponde una determinata informazione (corrispondenza univoca). Il simbolo, invece, rinvia a una costellazione di significati (come ad esempio i simboli religiosi della terra o dell’acqua), ad una architettura di significati, dice di più, dice altro. Il simbolo è una sorta di accumulatore: raccoglie in sé un ampio dispositivo di significati, tanto che lo stesso simbolo, letto in contesti diversi, dischiude diversi significati (il simbolo dell’acqua, di cui leggiamo nelle prime pagine della Bibbia, non è esattamente il simbolo dell’acqua del diluvio, non è esattamente il simbolo dell’acqua che scaturisce dal Tempio o dalla celeste Gerusalemme). Mentre il segno, attraverso la formula chimica o fisica, indica quella realtà e solo quella, il simbolo, un unico simbolo, indica un’architettura a senso plurimo e dice altro rispetto alla struttura chimica o fisica di questo elemento. Un autore francese, J. Baudrillard, distingue nella nostra vita quotidiana, due tipi di scambi: lo scambio mercantile e lo scambio simbolico. Tutti noi, più volte al giorno, facciamo ricorso allo scambio mercantile, basato su una rigorosa univocità (tanto denaro corrisponde a tanta merce), mentre non è così nello scambio simbolico, dove, per esempio esiste il “dono”, che racchiude in sé una valenza simbolica straordinaria, che va al di là dell’oggetto in questione. La nostra vita non è costruita solo sulla base di scambi mercantili e noi non siamo dominati solo da un principio di equivalenza. Molti dei nostri gesti sono dominati da una logica simbolica, grazie alla quale io dico di più e dico altro attraverso questo simbolo. Credo che nessun’altra esperienza umana, come il dono, aiuti a cogliere meglio questa logica .

Anche l’esperienza di come viviamo il nostro corpo ci aiuta a cogliere la straordinaria dimensione simbolica della nostra esistenza. Il nostro corpo non è soltanto un congegno, un dispositivo assai complesso e sofisticato, ma il corpo dice, comunica; attraverso il corpo passano messaggi di relazione, di rapporto, di amore o anche di avversione e odio. Noi non viviamo il nostro corpo semplicemente come un segno univoco, ma come un grande dispositivo simbolico: attraverso il nostro corpo diciamo all’altra persona una quantità di messaggi di relazione: “io non ho un corpo, io sono il mio corpo”.

Dopo aver affrontato la struttura simbolica della realtà, in particolare della corporeità umana, proviamo ora a capire perché mai questo dispositivo simbolico è particolarmente idoneo ad esprimere l’esperienza religiosa. Abbiamo già visto che è particolarmente idoneo ad esprimere certe esperienze umane fondamentali come l’amore. L’esperienza dell’amore umano si dice attraverso dispositivi simbolici. Ora, ci chiediamo se l’esperienza religiosa (dire Dio) possa affidarsi in maniera privilegiata alla comunicazione simbolica.

Alla fine del quarto vangelo, Giovanni scrive: «Or Gesù fece in presenza dei discepoli molti altri segni miracolosi, che non sono scritti in questo libro; ma questi sono stati scritti, affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e, affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome» (20,30-31). A conclusione del suo testo, Giovanni dice: questo è il libro dei segni, più esattamente dei simboli, e il testo è costruito, in larghissima parte, attraverso un materiale simbolico. Giovanni non è mai semplicemente un cronista che riferisce come sono andate le cose; ciò che gli interessa è leggere, attraverso gli accadimenti, il senso.

Allora perché diciamo che esiste una singolare coerenza tra il mezzo simbolico e il messaggio religioso? Di fatto, come già ricordato, i messaggi religiosi, in larga misura, si comunicano anzitutto attraverso la via simbolica. Poi, con il passare del tempo, anche il linguaggio religioso si dà una fissità sempre più univoca, ma non c’è dubbio che la prima e più immediata comunicazione dell’esperienza religiosa non avviene tramite formule, ma tramite simboli. In altre parole, il Credo non è il primo linguaggio della fede, ma è un linguaggio elaborato, successivo: passeranno dei secoli prima che si abbia la necessità di fissare univocamente l’esperienza della fede, con formule molto rigide, ma la prima comunicazione della fede, quella che noi troviamo soprattutto nei testi vetero- e neotestamentari è, in larghissima misura, una comunicazione simbolica. E’ la necessità di evitare errori che porta a fissare, in maniera anche molto rigida e univoca, le parole e le formule della fede. Il dogma rappresenta una fase successiva rispetto alla comunicazione simbolica della fede, quella cioè che noi incontriamo nella Bibbia. Basti pensare al linguaggio “parabolico” di Gesù: sulle labbra di Gesù noi non troviamo formule rigidamente univoche, ma, in gran parte, linguaggi parabolici che poi la comunità, con il passare dei secoli e soprattutto di fronte al rischio di inquinare la verità della fede, procederà a fissare in modo rigido e univoco.

L’esperienza religiosa parla di un senso ultimo, fondamentale, radicale, parla di un principio costitutivo di tutte le cose, di un orizzonte ultimo di senso. Ma la nostra coscienza umana è sempre una coscienza situata: in quanto situati nel tempo e nello spazio, noi abbiamo la possibilità di parlare sempre e solo di ciò che appartiene al mondo delle determinazioni. Ecco allora il dilemma: come dire Dio, come dire l’indeterminato, l’assoluto, l’ultimo? Come dirlo da parte di una coscienza che è sempre e inesorabilmente determinata? Questo è il punto, questa è la ragione per la quale Wittgenstein negava legittimità a questo linguaggio. Allora noi potremo parlare di Dio, l'ultimo, il radicale, l'assoluto valore, sempre e solo parlando di una ulteriorità di senso; solo allora noi potremo parlare di Dio, diversamente non ne potremmo parlare. C’è una pagina molto suggestiva del libro dell'Esodo in cui Mosè si rivolge a Dio con una invocazione: «Ti prego, fammi vedere la tua gloria!» (33,18). E’ la domanda di un credente che vuol vedere il volto di Dio. La risposta di Dio è: «Tu non puoi vedere il mio volto, perché l'uomo non può vedermi e vivere» (33,20). In altre parole: siccome tu appartieni ad una condizione di determinazione e di finitezza, non potrai vedere il mio volto, non potrai sporgerti da questa condizione di determinazione. Poi aggiunge: «Mentre passerà la mia gloria, io ti metterò in una buca del masso, e ti coprirò con la mia mano finché io sia passato; poi ritirerò la mano e mi vedrai da dietro; ma il mio volto non si può vedere» (33,22-23). Trovo questa pagina straordinariamente significativa ed evocativa. Dunque non è possibile all’uomo, che è nella determinazione, vedere Dio faccia a faccia. Paolo dirà la stessa cosa con un altro linguaggio e cioè che possiamo vedere Dio in maniera enigmatica, precisamente perché noi siamo coscienze situate nella determinazione[2]. Eppure noi possiamo vedere Dio non faccia a faccia, ma la schiena di Dio, cioè possiamo avere un indizio che, in qualche modo, ci rinvia a Lui. Misteriosamente allusiva questa immagine: non faccia a faccia, ma un indizio, qualche cosa che ci rinvia a Lui.

Credo che la comunicazione simbolica sia, appunto, questo vedere non faccia a faccia, ma attraverso una sorta di deviazione, cioè passando attraverso lo spessore dell’umano e scoprendone le aperture e le ulteriorità di senso.

Quando il salmo 19,1 proclama: «I cieli narrano la gloria di Dio e l’opera delle sue mani annuncia il firmamento»,  siamo di fronte a una lettura simbolica della realtà. I cieli non dicono solo il linguaggio dell’astrofisica («I cieli narrano la gloria di Dio»), ma questa determinazione astronomica è capace di dischiudere un’ulteriorità di senso, come prima abbiamo detto del corpo o della logica del dono. Così le determinazioni possono simbolicamente aprire l’accesso a una diversa conoscenza, ad una diversa realtà.

E’ sempre dentro e attraverso la finitezza che l’uomo potrà esprimere il fondamento, quell’assoluto che, immediatamente e direttamente, non potrà mai nominare. Di conseguenza, il linguaggio religioso non può che essere il linguaggio dell’ambiguità, del simbolo appunto: se Dio è il principio che è dappertutto e che nel contempo è altro dal suo manifestarsi, di questa alterità noi possiamo dire solo attraverso la via simbolica, non ne abbiamo un’altra. Diversamente, il silenzio, l’assoluto silenzio. Oppure, secondo il passo dell'Esodo, possiamo dire non attraverso il volto, cioè l’immediatezza di Dio, ma attraverso un simbolo, un rinvio, attraverso le sue spalle, la sua schiena.

Per molti l’assoluta trascendenza di Dio impedisce che lo si possa nominare. L’assoluta trascendenza sarebbe innominabile, ma se, attraverso le determinazioni, in qualche modo noi scopriamo la traccia, il simbolo che apre e rinvia ad altro, allora noi possiamo avere un accesso per dire Dio.

Pensiamo, per esempio, a quel singolarissimo linguaggio del Nuovo Testamento che è il linguaggio parabolico. Tutte le parabole cominciano con la formula: «il regno dei cieli è simile a…». E’ simile, non è perfettamente identico e non è perfettamente altro. E’ e non è. Eppure i racconti parabolici sono tutti racconti di determinazioni umane (il regno dei cieli è simile a… un contadino, un albero, un seme, una rete, una donna…) al cui interno si istituisce una correlazione tra il regno e l’ordinarietà della vita. Si istituisce una correlazione che è di similitudine e analogia e, dunque, di identità e differenza insieme. Se fosse perfettamente identico, allora il regno dei cieli sarebbe la nostra quotidianità; se invece fosse perfettamente divergente, allora noi non ne potremmo parlare. Proprio perché è identità e differenza insieme, noi ne possiamo parlare grazie e attraverso le determinazioni. Il linguaggio parabolico non è un espediente per un uditorio infantile, ma un linguaggio che salda insieme identità e differenza attraverso l’analogia, la similitudine, istituendo una relazione tra il regno e la quotidianità, una relazione che non è o di identità o di differenza, ma sia di identità sia di differenza, insieme. Il regno non è totalmente altro, diverso, trascendente e neppure è perfettamente identico alle determinazioni che noi viviamo.

Questa è la peculiarità di questo singolare linguaggio. Non a caso, l’evangelista Matteo dice che Gesù parlava solo ed esclusivamente in parabole: al di fuori di questo linguaggio, non c’è nulla; non c'è nessun’altra possibile comunicazione del regno e del mistero di Dio se non attraverso la similitudine identità - differenza con il presente, con l’ordinarietà della vita, con i gesti della vita quotidiana. Anche in questo caso, non ci è data una piena ed esaustiva comprensione del regno, ma ci è data una conoscenza nell’identità e nella differenza insieme: è simile, quindi è e non è. In questo modo il linguaggio simbolico custodisce la trascendenza di Dio, la quale, pur non essendo identificabile con nessuna di queste determinazioni, tuttavia “si dice” attraverso di esse, tanto che noi ne abbiamo, in qualche modo, una comprensione. Il linguaggio simbolico, dunque, proprio per la sua struttura, custodisce la trascendenza di Dio, evita che diventi un oggetto che noi misuriamo e quantifichiamo, custodisce l’alterità del regno, ma al tempo stesso in qualche modo lo dice, perché non è così “altro” da essere innominabile.

Mi pare che il linguaggio simbolico, che è anche il linguaggio dell’arte e della poesia, sia particolarmente capace  di dire e insieme nascondere, svelare e insieme custodire l’indicibilità della rivelazione.

C’è un antico frammento di Eraclito che dice: «Il nume, il dio che ha l’oracolo in Delfi, non dice e non nasconde, ma fa segno». Non c’è una piena ed esaustiva manifestazione, ma non c’è nemmeno l’oscurità assoluta; il simbolo apre la strada tra una comunicazione che non è esaustiva e, insieme, un silenzio che non è totale e assoluto. Io credo che sia questo il valore della comunicazione religiosa, una comunicazione che custodisce il mistero e non pretende di ridurlo a cosa che noi dominiamo, anche se, al tempo stesso, apre un accesso e svela una possibilità di comprensione.

Conversazione tenuta presso la Fondazione "Serughetti-La Porta" il 26 ottobre 1998. Registrazione non rivista dall’Autore



[1] “Effatà, Apriti”. Lettera per il programma pastorale “Comunicare”, Centro Ambrosiano, Milano 1990, p. 95.

[2] «Ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia» (1Cor 13,12).

 

 

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