1.
Parto proponendo subito due midrashim, riservando a dopo il
commento. Il primo è questo.
“Per ventisei
generazioni la alef
protestò al cospetto del trono divino e disse alla presenza di Dio:
"Signore del mondo, io sono la prima delle lettere, eppure tu non hai
creato il tuo mondo cominciando da me".
Rispose Dio: "Il mondo intero e tutto ciò che esso contiene è stato
creato solo per merito della Torah, come è scritto,
ma verrà il giorno in cui io verrò sul monte Sinai a elargire la Torah e
allora la farò cominciare con te. Perché è scritto: Io
sono il Signore Dio tuo!"”.
Cerchiamo ora di
capire cos'è essenziale in questo midrash.
Anzitutto, si
presuppone un testo biblico scritto: se non ci fosse un testo biblico da
commentare o cercare di comprendere, non ci sarebbe midrash. Ciò che non
ha a che fare con il testo biblico scritto può benissimo essere leggenda,
parabola o altro, ma non certo midrash.
In secondo luogo,
per capire cosa significa entrare nel significato del midrash, vorrei che
provassimo ad immedesimarci nella alef del nostro testo. Se fossimo stati
nei panni della alef, noi ci saremmo accontentati della spiegazione
ottenuta? Io sicuramente no, anzi avrei chiesto: Ma allora perché la Bibbia non
inizia addirittura dai dieci comandamenti, come una casa inizia dalle
fondamenta? Tenendo presente che il midrash impone una logica basata su
domande e controdomande, possiamo domandarci tre cose: perché l’alef non
ha fatto questa obiezione? E, se l’avesse fatta, quale risposta avrebbe
ottenuto? E, infine, che senso ha, in una logica moderna, una simile disputa
sull’ordine delle lettere, visto che l'ordine delle lettere si basa su di una
convenzione umana tranquillamente sovvertibile (come comincia con la beth
potrebbe benissimo cominciare con la alef)? O non è forse possibile che
chi usava questo midrash considerasse l’ordine dell’alfabeto come una
legge intoccabile della natura? Già questo vanifica una delle nostre domande.
La terremo in serbo per dopo (non che io voglia sottrarmi: non mi sottrarrò, ma
non vi dirò certo che la mia è l'unica risposta, bensì che a questa risposta
arrivo io seguendo il ragionamento del midrash; se qualcuno arriva ad
un'altra risposta, va benissimo).
2.
Vediamo ora il secondo midrash, nel quale si commenta la storia del
ritrovamento di Mosè infante, come narrata in Esodo 2,5-10. Il testo biblico
dice: “E inviò la sua ancella che la prese”.
Già qui sorge un
primo ostacolo, dovuto al fatto che l’ebraico si scrive con le sole
consonanti, mentre le vocali vanno ricostruite sulla base del contesto. Ora,
siccome, il termine “ancella” si scrive con le stesse lettere con cui si
scrive “il suo avambraccio”, si potrebbe interpretare il testo sia con:
“l’ancella della principessa prese il cesto di vimini” in cui è
deposto Mosè, sia con: “la principessa protese il suo avambraccio”
allo stesso scopo. Ci potremmo chiedere: è proprio così importante? Certo che
è importante, perché un bambino che sarebbe diventato un personaggio così
rilevante come Mosè, del quale la Bibbia dice che si presentava a Dio faccia a
faccia, deve essere estratto dalle acque da una banalissima ancella oppure dalla
principessa in persona? Che non sia affare di poco conto lo dimostra il fatto
che questo dibattito è molto acceso nelle pagine del Talmud, dove addirittura
si formano due scuole di pensiero, quella dell'avambraccio e quella
dell'ancella. Faccio notare che questo dibattito si svolge attorno al IV secolo.
Ora, il caso vuole che a questo secolo appartenga una famosa sinagoga
sull'Eufrate, quella di Dura Europos, la quale ha scandalizzato tutti perché,
contrariamente alla proibizione biblica, è ricchissima di affreschi con
immagini bibliche, tanto che qualcuno ha pensato di giustificare questa anomalia
sostenendo un intento didattico. Questa potrebbe essere una spiegazione, se non
fosse che, quando si arriva all'illustrazione di questo episodio, l'immagine che
si vede è quella della principessa in acqua, nuda, la quale allunga il braccio
e prende il cesto di vimini. Ciò significa che le immagini della sinagoga di
Dura Europos non sono didattiche, bensì esegetiche, nel senso che prendono
chiaramente posizione per la scuola "ancillare" rispetto di quella
"avambracciale".
Proseguiamo ora
con il testo per vedere se si può capire qualcosa di più. “E l’aprì e lo
vide il bambino”. Di fronte all'evidente imprecisione grammaticale del testo i
commentatori del midrash fanno notare che la principessa aveva visto la
presenza divina vicino al bambino. Come si spiega questa interpretazione? La
parola ebraica qui tradotta con “lo” ('et) può introdurre sia
l’accusativo (“vide il bambino”) sia un complemento di compagnia
(“lo vide con il bambino”). Dunque la principessa vide la presenza
divina con il bambino. Ecco allora che, alla luce di questa difficoltà
grammaticale, possiamo capire, con un procedimento a ritroso, anche il brano
precedente: la principessa non mandò una semplice ancella, ma andò di persona
presso colui che recava con sé la presenza divina.
3.
Da questi due esempi si capisce come il testo biblico sia fondamentale. Sennonché,
come si è visto, il testo biblico
presenta parecchie difficoltà, le quali possono, in parte, essere risolte con
la lettura a voce alta praticata dagli antichi. Se infatti, di fronte a parole
che, scritte, possono indicare cose diverse,
il testo viene letto a voce alta, quindi completandolo con vocali, è possibile
interpretarlo e consegnarlo a chi ascolta. La lettura ad alta voce è quindi già
un'interpretazione.
Un esempio
celeberrimo è il passo di Isaia 40,3 (“voce che chiama nel deserto”) che ha
generato differenze interpretative fra ebrei e cristiani, differenze dovute,
stavolta, a una diversa punteggiatura. Come si deve leggere questo passo? Una
possibilità potrebbe essere: “Una voce chiama: nel deserto preparate la via
del Signore”; un'altra possibilità: “Una voce chiama nel deserto: preparate
la via del Signore”. E' ovvio che mettere dei segni di interpunzione in un
luogo o in un altro è già un'interpretazione. Credo che una delle tecniche per
una lettura il più possibile precisa sia costituita dai cosiddetti parallelismi
della poesia biblica, che permettono di capire come dividere il verso.
Ma ci sono altre
tecniche interpretative. Una è la traduzione. Si tratta di una pratica
difficilissima perché l’ebraico biblico contiene omonimie e polisemie diverse
da quelle delle lingue occidentali; di conseguenza, il traduttore deve fare una
scelta che, per forza di cose, già interpreta il testo: è inevitabile.
Moltissime sono le traduzioni della Bibbia: quella dei Settanta, quella siriaca
e quelle aramaiche; nella tradizione ebraica si fa più spesso riferimento a
quelle aramaiche, alcune delle quali (per esempio quella di Onkelos) sono molto
corrette, mentre altre rielaborano il testo con arricchimenti.
A questo punto ci
dobbiamo chiedere: a cosa serve interpretare ed elaborare il testo? Nella
tradizione ebraica due sono le operazioni legate alla lettura. La prima è
capire un messaggio dal quale trarre affermazioni di principio oppure
norme di comportamento.
Un esempio ci
viene dal Talmud e riguarda le norme sabbatiche. Il Talmud dice che le
norme sabbatiche sembrano una montagna appesa a un capello, laddove la montagna
è l'insieme delle norme, mentre il capello è l'insieme della Torah.
L'affermazione significa che c’è pochissima miqrà, cioè pochissima
lettura, e moltissime norme: quelli che hanno emesso queste norme ritengono di
aver trovato delle precise allusioni nel testo biblico. Questo è uno degli
scopi di questa elaborazione.
Ma
la questione è più complicata, perché a volte il problema è quello di
trovare nel testo biblico una conferma a certe opinioni o posizioni formate a
priori e indipendentemente dal testo stesso.
Un esempio ci è
fornito dal lungo dibattito intercorso tra la scuola di Hillel e quella di
Shammai (siamo nel periodo a cavallo tra il I sec. a.e.v. e il I sec. e.v.), più
aperta e riformatrice la prima, decisamente rigorista la seconda. Le due scuole
discussero per due anni su un argomento fondamentale: meritava l’uomo di
essere creato? Abbastanza prevedibilmente, la risposta della scuola di Hillel
era affermativa, mentre era negativa quella di Shammai. Il compromesso a cui
giunsero, sulla base naturalmente dell’esame delle scritture, fu che,
effettivamente, forse l’umanità non meritava di essere creata, ma ormai,
visto che la creazione era avvenuta, almeno ci si facesse un esame di coscienza.
Le due posizioni chiaramente non sono tratte dal testo biblico, sono tesi
filosofiche formulate a priori, ma dal testo biblico cercano conferma.
A questo punto
però è inevitabile porsi una domanda: se il midrash contribuisce in
questo modo ad una o più visioni del mondo, queste esistono davvero oppure sono
solo frammenti di visioni che noi cerchiamo, un po’ artificiosamente, di
cucire insieme? Se infatti si trattasse di testi occidentali, noi troveremmo
delle monografie, dei trattati, un dialogo platonico, un trattato aristotelico.
Nei testi biblici invece esistono solo allusioni e spunti dai quali bisogna
trarre qualche cosa. E qui torniamo al nostro primo midrash.
La Bibbia
comincia con la parola bereshit (lettera beth), che si traduce
“nel principio”. La traduzione è sicuramente corretta, se non fosse che la
lettera beth in ebraico non esprime soltanto un'indicazione di luogo (“nel
principio”), ma anche un significato strumentale (per esempio: “io scrivo con
[be-] la penna”. E allora mi viene il dubbio che reshit, oltre
che “principio”, voglia dire qualche altra cosa e che il primo versetto
della Bibbia possa essere letto così: “con l'ausilio del reshit Dio
creò il cielo e la terra”. Come possiamo capirlo?
Qui ci viene in
soccorso la tecnica tipica del midrash: per capire in che modo intendere
ciò che può avere più significati (per esempio il nostro reshit),
bisogna andare in cerca, nel testo biblico, di altre circostanze in cui compaia
la medesima espressione con allusione a qualcos'altro. E state sicuri che si
trova. C'è infatti un passo in cui si dice, con riferimento alla sapienza:
“Il Signore mi ha acquisito come reshit”. Da qui si sviluppa un
ulteriore midrash, che dice: “La Torah, che è la sapienza, e che è
chiamata reshit ("primizia"), preesisteva al mondo”. Ne
consegue allora che quel primo verso andrebbe letto: “Per mezzo della Torah (reshit)
Dio creò il mondo”. E guarda caso c'è un midrash che dice: “Dio,
come un famoso architetto, guardava la Torah e creava il mondo”. Si tratta
insomma di un progetto che preesiste al mondo. Ciò è confermato dal fatto che
il verbo 'amar (“Dio disse”) può significare anche “progettare”.
L'esempio lo troviamo nella Bibbia stessa: quando infatti nella cosiddetta
Cantica del mare (Esodo 15) si parla del nemico egiziano che voleva inseguire
gli ebrei, in genere si traduce: “Il nemico ha detto: Inseguirò,
raggiungerò, dividerò il bottino” (Esodo 15,9). Ma che significa: Il nemico
ha detto? A chi l'ha detto? A se stesso? Sarebbe meglio tradurre: “Il nemico ha
progettato…”.
Cosa ne possiamo
concludere? Che se sposiamo una tesi esposta con metodologia midrashica, dovremo
poi svilupparla coerentemente, mentre se ne sposiamo un'altra, allora la
svilupperemo in altro modo. Non si può sposare una tesi e poi svilupparla
seguendo un'altra metodologia. Non esiste la verità, esiste la mia
interpretazione e le vostre. Io sceglierò quella che mi permetterà un’unica
lettura per la maggior parte dei versi e non quella che richieda interpretazioni
diverse, perché ciò potrebbe significare che la mia comprensione non è
corretta.
Tuttavia, nel momento in cui si stabilisce che possono
esistere delle tesi e dei punti di vista generali che cercano una loro conferma
nel testo biblico, si corre il rischio di entrare
in un pericoloso circolo vizioso. Farò un esempio: la canonizzazione della
Bibbia
è stata compiuta dai maestri sulla base di determinati criteri a priori, tra i
quali quelli che prevedevano la canonizzazione del Cantico dei Cantici;
sennonché, dopo la canonizzazione del testo, il Cantico dei Cantici
viene usato per trarre conclusioni che sono implicite nei criteri che sono
serviti per canonizzarlo. Evidentemente, se è stato canonizzato, è proprio
perché a priori esisteva un punto di vista generale nel quale questa operazione
rientrava perfettamente. Quindi non si può poi percorrere a ritroso la strada e
dal Cantico dei Cantici trarre delle conseguenze su una visione del
mondo, dato che questa era già definita, anzi, proprio grazie a questa si è
scelto di canonizzarlo. Come si vede, questo circolo vizioso è spesso
inevitabile. Il problema indubbiamente esiste. L’unica risposta che possiamo
dare è che la lettura e l'interpretazione abbiano una robusta coerenza,
dopodiché, entro questa coerenza, sta a noi sposare l’una o l’altra
interpretazione, accettare o rifiutare l’interpretazione dei maestri talmudici
e proporne altre.
4.
Soffermiamoci ora brevemente sulla tecnica del mashal, termine che
potremmo rendere con “metafora”, “parabola”, “allegoria”. Il mashal
è una delle forme più importanti del midrash per la lettura del testo
biblico. Si tratta di un’esposizione nella quale vengono presentati situazioni
e protagonisti di immediata comprensione per il lettore. Un ottimo esempio è
rappresentato dal pastore e dalla pastorella del Cantico dei Cantici,
intesi come allegoria del rapporto tra Dio e il credente. I rapporti fra di loro
devono però essere analoghi a quelli a cui si vuole alludere, secondo una
logica, per così dire, di allegorizzante (il mashal) e allegorizzato (nimshal).
5.
Un'ultima considerazione per concludere. A partire da un certo periodo nella
storia della letteratura post-biblica ebraica compaiono delle coppie in
discussione fra loro
su posizioni polarizzate agli antipodi. Si tratta di un caso o di un espediente
letterario per aiutarci a capire le posizione contrapposte? Personalmente
ritengo che la verità stia nel mezzo, cioè che si utilizzi una base storica,
con personaggi realmente esistiti, per riferire però le loro posizioni portate
all’esasperazione. Ciò perché il dibattito fra maestri è ritenuto
indispensabile per la comprensione del testo ed è ciò che dà origine alla
dottrina orale (la cosiddetta Torah she be 'al peh). Ma perché la
dottrina orale (midrah, Mishna) è oggi reperibile soltanto per
iscritto, addirittura in edizioni critiche? Per il fatto che la distinzione tra
oralità e scrittura non dipende tanto dal supporto fisico della seconda
rispetto alla prima, al punto che posso definire dottrina orale, ad esempio, lo
stesso Talmud. La vera distinzione è che l’oralità serve per capire la
scritturalità e non viceversa; l’oralità è un dibattito, la scritturalità
non lo è. Abbiamo, da una parte, ciò che è in divenire, dall’altra ciò che
è valido, stabile, definito, e, quando tutto ciò viene messo in discussione,
si fa oralità. La scrittura, proprio per il suo carattere di immutabilità e
stabilità, se presa da sola potrebbe essere idolatrata. La storia ebraica è
ricca di esempi in materia. Ne cito tre particolarmente emblematici. Il primo è
lo scontro tra sacerdoti e profeti a proposito del vero culto da presentare a
Dio. Il secondo, più tardi, è lo scontro tra Sadducei e Farisei circa
l'interpretazione e l'applicazione della cosiddetta “legge del taglione”:
gli uni la ritenevano applicabile alla lettera in termini di ritorsione, gli
altri la leggevano in termini di risarcimento. La stessa diatriba tra lettura
letterale e lettura interpretata si svilupperà verso il 700 dell'era volgare
tra i Karaiti e i Rabbaniti. Da una parte una lettura letterale, dall’altra
una lettura interpretata; insomma una lettura rigida, che non lascia spazio alla
necessità umana, di fronte ad una lettura che invece salvaguarda il principio e
lo lascia sviluppare. Solo in questo secondo caso la lettura può acquistare un significato più puntuale e diventare
parte della vita spirituale e intellettuale di ognuno.
Credo, insomma,
che la sola lettura portata a dogma assoluto apra le porte al fondamentalismo e
che l’oralità, invece, con la sua partecipazione attiva, ne sia l’antidoto
più efficace. La lettura del midrash, quindi, non è
semplicemente leggere un testo, non è impararlo a memoria, ma è un invito a
procedere con uno scopo e con una metodologia ben precisi nella lettura dei
testi: questa è la sintesi, difficilissima, ma affascinante.
Lo illustra molto
bene una tipica discussione talmudica. Due persone stanno camminando nel
deserto, ma hanno acqua solo per uno. Cosa devono fare? Risponde un maestro:
“bevano entrambi e nessuno veda la morte del fratello”. Risponde un altro:
“beva uno e si risparmi almeno una vita, perché, se bevono entrambi, perdiamo
due vite”. Come si vede, entrambe le posizioni hanno una loro legittimità.
Come si risolve il problema? Io ribalterei la domanda: tu come
risolveresti il problema? Con questo voglio dire che il Talmud non dà risposte,
non è una guida turistica, ma pone problemi con cui misurarsi responsabilmente.
La letteratura midrashica, quindi, ci chiama al compito di scegliere, anche
nell’interpretazione, tra più possibilità.
Un compito
faticoso, certo ma anche molto affascinante.
Conversazione tenuta presso la Fondazione "Serughetti-La Porta"
il 2 novembre 1998. Registrazione
Si tratta della prima lettera dell'alfabeto ebraico.
Infatti, il primo verso della Genesi comincia con la lettera beth,
che è la seconda dall’alfabeto.
Proverbi 3,19: “Con la sapienza il Signore ha fondato la terra”.
In ebraico “io” si dice 'anoki, che inizia appunto con la lettera
alef.
In ebraico: miqrà, che significa anche “lettura”.
Per esempio, il gruppo s-f-r può significare sia “libro” sia
“barbiere”.
Cfr. sopra, M. Zappella, Il “libro” e i suoi canoni.
Si tratta della forma passiva del mashal.
Si è già menzionata la coppia Hillel e Shammai, ma ce ne sono almeno altre
cinque o sei.
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