Credo sia sempre
più necessario ritrovare un "colpo d’occhio" visivo in rapporto
alla Bibbia come libro. Un colpo d’occhio che renda conto, simultaneamente,
della sua specificità e della sua universalità. In particolare, come fatto
letterario, siamo di fronte ad un fenomeno che sappiamo tutti essere
particolarmente complesso. Nei manuali di introduzione alla Sacra Scrittura, che
sono spesso restii a recepire certe novità, nonostante a volte sembri il
contrario, e sono forse il genere letterario che più di tutti paga il prezzo di
una certa inerzia al rinnovamento, si sta sempre più mettendo in evidenza il
fattore più specificamente canonico della Scrittura, cosa che una certa
impostazione di tipo storico-critico tradizionale aveva invece quasi del tutto
obliterato.
Parto da un
presupposto semplice, addirittura intuitivo: lungi dall'essere un insieme di
collezioni arbitrariamente o casualmente organizzate, il corpo biblico ha un
carattere organico. Alla luce del principio ermeneutico - messo in evidenza da
Gadamer - della Wirkungsgeschichte («Storia
degli effetti»), possiamo dire che un testo o un’opera d’arte arriva a noi
sempre all’interno di un movimento e di un’interpretazione che la veicola: storia
è sempre anche storia degli effetti.
Ora, uno degli aspetti più affascinanti, anche da un punto di vista
squisitamente letterario, oltre che teologico, è che il corpo biblico viene
avanti portando ed esibendo le tracce della propria storia, della propria
ricezione. Credo quindi che, da questo punto di vista, il lavoro da fare sia
ancora molto.
Mentre
l’acquisizione di una mentalità critica ci ha portato a guardare al testo
biblico scavandone le fonti e gli strati che stanno a monte, tutto il movimento
della riflessione ermeneutica contemporanea ci ha invece insegnato a guardare al
testo non tanto dal punto di vista archeologico,
quanto dal punto di vista teleologico.
Un testo allora non è un pre-testo per ricavare dei contenuti che stiano alle
sue spalle, anche se, evidentemente, non bisogna dimenticare che un testo ha un
suo tipo di “referenzialità”, per evitare di cadere in una posizione di
tipo panstrutturalista che dice: “fuori del testo non c’è nulla”. Io
direi invece che “fuori del testo non c’è salvezza”, in quanto entriamo
in un testo e in una testimonianza che non riguarda semplicemente il passato, ma
che, al contrario, apre una prospettiva futura, teleologica appunto. E se poi si
tratta del testo biblico ciò è ancora più vero. Non è un caso che la Bibbia
cominci con «Nel principio Dio creò i cieli e la terra» di Genesi 1,1 e
finisca con «i nuovi cieli e la nuova terra» di Apocalisse 21.
Direi allora che
la Bibbia si presenta come una scrittura che ha una specifica portata e pretesa.
Ha la portata di essere radicalmente proto-logica
ed escato-logica e, in questo senso,
avanza, ingenuamente ma prepotentemente, una pretesa omninclusiva nei confronti
di qualunque lettore, perché ogni lettore deve misurarsi con la pretesa della
Bibbia di contenere tutto, dalla creazione alla consumazione, dal Dio che crea
con la sua parola al Dio «tutto in tutti» di Paolo.
In questo senso, ha ragione Elias Canetti quando dice: «Anche se tu non la
leggi, tu sei nella Bibbia». E’ quindi un libro che lancia una sfida enorme:
a che cosa fa riferimento, di che cosa vuol dar testimonianza? Certamente, di
una serie di eventi e situazioni - per così dire - storico-salvifici, ma solo
in quanto includono, come destinatario di tali eventi, il lettore stesso cui
questo libro è rivolto. Meno che mai quindi si può dire che la Bibbia sia un
libro autoreferenziale; semmai il suo oggetto più specifico è un extra
textum, cioè, in ultima analisi, una realtà a cui il testo partecipa in un
modo assolutamente singolare.
La Bibbia, noi
diciamo, è Parola di Dio; e anche il Concilio Vaticano II ha evidenziato questo
aspetto, pur richiamandosi, giustamente, ad una distinzione di fondo tra
“Parola di Dio” in senso originario e in senso di analogatum
princeps. “Parola di Dio”, dal punto di vista della teologia cristiana,
è Gesù di Nazareth, e lo possiamo dire delle Scritture Sacre (Antico e Nuovo
Testamento) in quanto esse attestano, in maniera originaria, l'evento centrale
della storia della salvezza e della rivelazione (l’evento cristologico) e in
quanto, in ultima analisi, portano una figura intrinsecamente cristologica che
è la coniugazione decisamente singolare di una Parola di Dio che si declina in
un linguaggio umano, di una Scrittura
che si fa attestare da una scrittura.
Veniamo ora al
discorso più specifico. Paul Beauchamp ha fatto giustamente notare come, quando
parliamo di Bibbia, parliamo troppo sbrigativamente di Sacra
Scrittura (il che presuppone tutta una teologia della rivelazione), mentre
dimentichiamo che abbiamo a che fare in primo luogo con una scrittura.
Che cos’è la scrittura? Tramontato
il tempo del libro, oggi siamo nel tempo dei media;
certo, il libro continua ad essere un rilevante fattore culturale, ma non più
l’instrumentum regni della cultura,
perché altri strumenti si stanno affermando: oggi, essere significa essere in
rete, neppure più essere sul video. Da questo punto di vista, il libro è
declassato, si legge e non si legge. Il fatto singolare è che comunque
l’editoria funziona con grande intensità e quantità di pubblicazioni (in
Italia vengono pubblicati circa dieci libri al giorno), anche se sappiamo tutti
che a questa quantità non corrisponde affatto una qualità e una selezione, per
cui il lettore deve imparare a difendersi da questo eccesso di pubblicazioni
(molto dannoso, fra l'altro, anche nell’ambito teologico e biblico). Oggi si
pubblica tanto, forse si legge meno, però mai come in questi ultimi decenni si
assiste ad una riflessione critica, da parte delle più diverse scienze umane,
sul "fenomeno scrivere", così come sul "fenomeno leggere"
(la parola in quanto parola scritta nella sua differenziazione dalla parola come
oralità). Credo che, anche nelle sue contraddizioni, questa sia una congiuntura
molto interessante: nel momento in cui il libro viene declassato, insorge
l'esigenza, mai vista così fitta, di capire cosa significhi scrivere e leggere.
E chi si occupa di Bibbia non può fare a meno di interessarsi a questa
congiuntura e di interpretarla criticamente, tantopiù che la stessa Bibbia, nel
suo singolare tessuto testuale, praticamente ovunque ci rende un mix
di testualità scritta e di testualità orale. Sappiamo benissimo, dagli studi
di storia delle fonti, che la tradizione biblica ha avuto una prima fase di
tradizione orale, la quale ha preceduto e accompagnato la tradizione scritta. E'
sicuramente diverso restituire certi testi ad un certo livello di oralità
piuttosto che considerarli nella loro situazione di testi consegnati allo
scritto.
Da questo punto
di vista, abbiamo un’altra spia interessante: la Scrittura ebraico-cristiana
richiede un approccio che tenga conto di questa sua peculiarità, che viene dal
suo stesso tessuto connettivo, cioè un intreccio molto specifico di oralità e
scrittura, che parzialmente si riesce a recuperare, anche se con accenti
diversi. Ritengo importante che si percepisca la scrittura
in un rapporto dialettico con l’oralità
che la Scrittura ci presenta. E qui bisognerà anche tenere presente il fatto
che la scrittura, come fenomeno culturale, risulta piuttosto recente, visto che
data al massimo 5-6.000 anni fa. Pertanto, ciò che per noi costituisce un
riferimento abituale, non deve essere dato affatto per scontato, soprattutto per
ciò che riguarda la ricaduta sulla forma
mentis che l'evento della parola scritta ha prodotto. Qualcuno, parafrasando
Kant, ha parlato di Ragion grafica,
perché l’apparire all'orizzonte della civiltà del fenomeno scrittura ha
mutato decisamente le caratteristiche del discorso. Scrittura significa infatti
il passaggio da un pensiero e da una forma di comunicazione ultimamente
mitica ad un pensiero e ad una forma di comunicazione intimamente
critica. La scrittura è il pensiero, o meglio la parola che ha modo di
riflettere su se stessa e di esercitare così un processo di autocontrollo che
sarebbe impossibile laddove il pensiero che non fosse dotato di scrittura non
potesse far conto sull’esercizio di
esonero che è caratteristico del fenomeno scrittura. Per chiarire: se ho
sotto gli occhi un testo scritto, ho la possibilità di non impegnare la mia
memoria per ricordarlo; nel momento in cui invece una civiltà si mantiene a
livello di oralità primaria, essa non riesce a fare, per così dire, stoccaggio
di informazioni e di pensiero.
Scrivere quindi
vuol dire possedere una forma che mi consente la libertà dell’esercizio del
pensiero, perché ciò che è scritto mi custodisce un certo contenuto, per cui
la mia mente può essere esonerata dall'esercizio di custodia e può dedicarsi
ad altri compiti. Inoltre, nel momento in cui si scrive, si organizza un
pensiero in cui l'asse paradigmatico e l'asse sintagmatico, cioè la scelta del
lessico e l’organizzazione della frase, sono sottoposti ad una verifica
critica molto più precisa. Ne consegue che scrivere
significa inaugurare una spinta di maggior criticità del pensiero. Non mi
nascondo certo il fatto che spesso, per dirla con Paolo, la «lettera uccide»,
nel senso che spesso lo scritto finisce per bloccare l'esercizio critico del
pensiero. Ma ciò che voglio dire è che, una volta che qualcuno ha scritto,
arriverà sempre un lettore intelligente; lo scritto, come tale, è per
definizione quel tipo di comunicazione e di significazione che, in se stesso,
non può non innescare un principio di criticità e di verifica. Uno scritto
porta sempre in sé le sue chiavi di lettura. In questo senso costituisce un
richiamo ad una intelligenza critica.
Se quindi non è
scontato che la tradizione religiosa abbia una sua Scrittura, è tuttavia molto
importante tenere conto che la rivelazione ebraico-cristiana si forma in quella
fase di tempo in cui scatta il meccanismo di un’oralità secondaria che
convive col fenomeno scrittura e che la assume come suo volano. In questo senso
il significato più specifico che assume il fenomeno scrittura all’interno
della tradizione ebraico-cristiana è da ricercare in una scrittura canonica, cioè una scrittura che fa da specchio al corpo
sociale che vi si ri-conosce.
La cosa interessante è che il fenomeno scrittura costituisce un punto di
riferimento imprescindibile di quel corpo sociale, cioè di quel lettore, a cui
la scrittura è destinata.
Mi sembrerebbe
dunque significativo che si ripercorresse il corpo scritturistico apprezzando di
volta in volta la diversa qualità dei generi scritturistici: come si parla di generi
letterari, così si potrebbe parlare, per estensione, di generi
librari. Una delle chiavi di lettura per impossessarsi del linguaggio
biblico più comune per il lettore potrebbe essere di individuare, di volta in
volta, il genere librario che caratterizza il complesso e articolato corpo dei
libri biblici.
Per fornire una
esemplificazione fenomenologica di questa scrittura, mi soffermerò su quattro
tipi di scrittura: la scrittura
dell'alleanza, la scrittura
dell'evento Cristo, la scrittura
sapienziale e la scrittura
dell'invocazione.
a)
Tutto il complesso biblico, in quanto complesso scritturale, fa riferimento a
un’alleanza. Conosciamo due forme di alleanza (berit): quella stipulata
con Noè, con Abramo e con Davide non prevede mai un riferimento ad un documento
scritto. Con Abramo Dio non scrive, con Noè nemmeno e con Davide neppure, perché
quelle alleanze in cui Dio si impegna in modo gratuito e unilaterale non hanno
bisogno di un documento scritto. Al contrario, le alleanze del Sinai (Esodo
19-20.24), quelle del Deuteronomio, quella di Giosia (2Re 22), cioè quelle alleanze che,
pur in forma di berit, non sono una
promessa unilaterale quanto piuttosto un patto in cui c’è sempre una
differenza, perché non si tratta di un patto alla pari, ma di un'alleanza che
sta e cade nella misura in cui colui al quale Dio impone l’alleanza ascolta la
voce del Signore, obbedisce alla sua legge, segue i suoi statuti, queste
alleanze -dicevo- hanno bisogno di una scrittura. Per dirla diversamente: se noi
apriamo la Bibbia non abbiamo un racconto in cui si narra l'invenzione della
scrittura. Alla Bibbia non interessa
raccontare della nascita della scrittura come strumento culturale.
Si può dire
invece che la scrittura è un dono del deserto. Lo si può vedere nel capitolo
24 di Esodo, che vale la pena di
citare per esteso.
E disse a Mosè:
«Sali dal Signore, tu, Aronne, Nadab, Abiu e settanta tra gli anziani d'Israele
e vi prostrerete da lontano. Mosè si avvicini da solo al Signore, ma essi non
si avvicinino; il popolo non salirà con lui». Mosè venne e raccontò al
popolo tutte le parole del Signore e tutte le leggi, e tutto il popolo rispose a
una sola voce: «Faremo tutte le cose che il Signore ha detto». Mosè scrisse
tutte le parole del Signore. Si alzò al mattino e costruì un altare sotto il
monte, con dodici stele per le dodici tribù d'Israele. Poi mandò alcuni
giovani tra i figli d'Israele e offrirono olocausti e immolarono dei torelli
come sacrifici di comunione in onore del Signore. Mosè prese la metà del
sangue e la mise in bacini e metà del sangue la versò sull'altare. Prese il
libro dell'alleanza e lo lesse agli orecchi del popolo e dissero: «Faremo e
ascolteremo tutto quello che il Signore ha detto». Mosè prese il sangue e lo
versò sul popolo e disse: «Ecco il sangue dell'alleanza, che il Signore ha
contratto con voi con tutte queste parole» (Esodo
24,1-8).
Secondo me, Esodo
24 è da privilegiare rispetto ad altri testi (per esempio Esodo
34), perché non ha nulla di mitologico e ha tutto invece del racconto fondatore
relativamente ad una stipulazione di una berit:
è straordinario il significato che ha la sequenza dei gesti relativi alla
stesura di questo testo e alla sua successiva proclamazione in relazione al
significato di questo stesso testo. Mosè riferisce al popolo ciò che il
Signore ha detto, dopodiché il popolo risponde con il famoso consenso: «Tutto
ciò che il Signore ha detto, noi lo faremo e lo ascolteremo» (questa è la
traduzione più precisa del testo). Solo a quel punto Mosè scrive, quasi a
significare che la scrittura è testimonianza di una rivelazione attraverso un
mediatore, ma mai prima che questa testimonianza sia stata intrinsecamente
accolta, cioè fatta oggetto di fede da parte del suo destinatario: Mosè
insomma scrive solo dopo che il popolo ha detto «Amen, noi faremo e ascolteremo».
Poi Mosè scrive tutto e imbastisce il sacrificio: dopo aver diviso il sangue in
due parti, una metà la asperge sull’altare (simbolo della presenza di Dio,
Dio con attorno il suo popolo), l'altra metà la usa per aspergere il popolo,
ma, anche in questo caso, non prima di avere preso il libro, letto alla presenza
del popolo e ascoltato il popolo che dice «Tutto ciò che il Signore ha detto,
noi lo faremo e ascolteremo». Abbiamo allora il sefer
ha-berit («libro dell’alleanza») in parallelo con il dam ha-berit («sangue dell’alleanza»): entrambi sono dispositivi
di questa alleanza; dicono un’unica realtà, cioè che questa comunione di
vita viene istituita da Dio non in termini bilaterali, alla pari, ma in termini
dialogici, nel senso che Dio parla e il suo popolo ascolta e corrisponde; e il
libro, come tale, è testimonianza di questo evento di parola da parte di Dio e
di corrispondenza da parte del popolo.
Questo tipo di
struttura impregna tutte le successive forme librarie che caratterizzano la
scrittura come tale, eliminando, mi sembra, l’impressione che si tratti di una
scrittura oggettivistica. Secondo me, nella considerazione della Bibbia, siamo
un po’ viziati da una cultura che ci ha obnubilato il significato specifico di
un libro, in senso lato, e di questo libro in senso specifico, dimenticando di
mostrare come questo libro costituisca, esso stesso, parte integrante di
quell’evento di cui dà attestazione. Si tratta cioè di capire che il libro
stesso è una testimonianza che sta in risonanza intrinseca con l’evento che
l’ha costituito e con l’evento rispetto al quale funziona in ordine a
comunicarlo.
b)
Passiamo ora alla scrittura dell'evento
Cristo. Mi riferisco alla testimonianza del Quarto Vangelo, che, fra tutti i
vangeli, è il più consapevole nell'evidenziare il valore di mediazione
scritturistica da esso stesso innescato. La ricostruzione di questo tipo di
fenomenologia obbedisce al principio della mise
en abîme.
Un esempio di mise
en abîme è quando Giovanni dice: «Gesù
in presenza dei discepoli fece ancora molti altri segni, che non sono scritti in
questo libro. Questi sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il
Cristo, il Figlio di Dio, e, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Giovanni
20,30-31). Un altro esempio è quello relativo al testimone, oltre che al libro:
«Questo è il discepolo che rende
testimonianza di queste cose e che le ha scritte, e noi sappiamo che la sua
testimonianza è vera» (Giovanni
21,24). E' molto interessante questo gioco in cui viene evidenziato il ruolo di
mediazione rispetto ad un evento di rivelazione, e in cui si mostra non solo
l'autore del testo, ma anche il fatto che quel testo ha già prodotto ciò per
cui era stato destinato, cioè il far credere («affinché
crediate»); e alla fine del libro sentiamo una voce che, invece di
rivolgere un appello al lettore con la seconda persona plurale, rivolge un
appello che si fa carico di una dichiarazione in prima persona plurale («Noi
sappiamo che la sua testimonianza è vera»), a significare che quel libro
ha già prodotto quell’effetto di generazione di fede per il quale è stato
destinato. E’ interessante l’appello intrinseco che viene di volta in volta
dalla parola biblica nei confronti del lettore per coinvolgerlo in forme
diverse.
c)
Due parole, per concludere, sulla scrittura
sapienziale e sulla scrittura
dell'invocazione. La parola biblica non è soltanto l’attestazione di una
parola di Dio che piomba dall'alto, come la parola mosaica o la parola profetica
(«Così dice il Signore, oracolo del Signore»). La scrittura biblica ha anche
un altro modo di attestare la parola di Dio più dal basso: si tratta della
parola che viene parlata attraverso il linguaggio dei sapienziali, che è poi il
linguaggio dell’esperienza, e la parola del linguaggio dei salmi, che è la
parola dell’invocazione, della supplica e della lode. E’ significativo che
il corpo della parola biblica sia costituito non soltanto da una parola umana
che si fa carico di quella divina, ma anche da una parola umana che risponde a
quella divina e che, in questo senso, ci offre l’intero di un dialogo e non
solo la parte di un appello. La parola divina arriva sempre a noi non solo in
quanto è parlata da Dio, non soltanto in quanto tradotta all’interno di un
linguaggio umano, ma addirittura è parlata e tradotta all’interno di una
risposta umana al Dio che parla. In questo senso, il libro, che è in sé
un’opera culturalissima, cioè riconducibile alla storia, alla società, a un
umano esercizio, diventa un sigillo di pregnanza e forza particolari, perché,
nel suo costituirsi come libro, dice contemporaneamente due cose: la differenza
e l’unità tra i due partner di
questo dialogo. Dice la differenza
perché, essendo libro, è comunque sempre scritto da un autore umano (e farei
notare la tendenza poco mitologica della Scrittura relativamente alle proprie
origini), differenza, cioè, tra la responsabilità di un’attestazione umana,
ancorché ispirata e canonica, e l’attribuzione di questa parola ad
un’origine più specificamente divina. Ma dice anche l’unità,
nel senso che la testimonianza scritturistica ci vuole dare, in ultima analisi,
un tipo di conoscenza di una rivelazione anche attraverso lo scarto che c’è
tra questa testimonianza e questa rivelazione. Non è un caso allora che i libri
biblici ci diano lo scarto tra l’oggetto testimoniato e il cammino di ricerca
che è stato compiuto in ordine all'accoglimento di questo tipo di rivelazione.
Credo, in
conclusione, che un buon lavoro potrebbe essere quello di recuperare il gioco
dialettico tra Scrittura e scritture. La Scrittura utilizza il singolare medium della scrittura, ma poi fa riferimento a forme diverse di
scrittura, genera di volta in volta, all’interno del corpo biblico, dei modi
diversi di dire e di attestarsi, sebbene, a mio modo di vedere, la scrittura non
possa che essere sapienziale; e infatti non a caso, anticamente, l’esperto
della scrittura è lo scriba: la forma sapienziale della rivelazione
costituisce, epistemologicamente parlando, un punto di vista intrascendibile.
Tutto questo penso possa avere feconde conseguenze sulla teologia
dell’ispirazione, sulla predicazione e sull’esperienza di fede cristiana.
Conversazione
tenuta presso la Fondazione "Serughetti-La Porta" il 16 novembre 1998.
Registrazione non rivista dall’Autore
Vi inviterei ad un esperimento. Prendete il libro del Qohelet e fatene una
lettura orale, poi ditemi se non si apprezza una differenza di
interpretazione e di percezione, rispetto ad una lettura silenziosa. Qualche
anno fa, io e un mio amico regista abbiamo provato ad interpretare
teatralmente il Qohelet ed il risultato è stato sorprendente: riportare
all’oralità un testo che dall’oralità è nato ha consentito di
recuperare l’impulso ironico di questo testo, che una lettura silenziosa e
asettica avrebbe finito molto facilmente per sbiadire.
E infatti non è un caso che le civiltà che non sono entrate nel circuito
della modernità sono quelle che non hanno una scrittura.
Qui mi riferisco specificamente agli studi di Sanders, il quale ha
perfezionato la disciplina di Storia
del canone agganciandola ad una metodologia di tipo critico e non di
tipo pre-critico (la Storia del canone
è in fondo la prosecuzione della Storia
della tradizione).
In Genesi 4, dove si racconta la nascita dei mestieri, il pastore,
l’agricoltore, ci starebbe benissimo un’invenzione della scrittura,
attribuita, per esempio, al patriarca Enoch, come fa qualche apocrifo, ma
non c’è nulla di questo.
La mise en abîme, in araldica, è
la riproduzione in miniatura nello stemma dello stemma stesso, e, nell'opera
letteraria, un luogo ben identificabile che dà un contenuto sintetico
dell’opera stessa e che rende conto della forma espressiva usata
dall’opera medesima.
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