Introduzione
Non tutte le Bibbie sono uguali.
Nella storia, infatti, questo libro ha subìto delle articolazioni
differenziate, frutto di differenziate intenzionalità. Chi si occupa di
attività editoriali sa che l’indice costituisce la fase finale di un’opera,
cioè il momento in cui l’opera assume una sua perspicuità, un suo senso (si
tratta, per così dire, dei dati anagrafici di un’opera). A un indice diverso
corrisponde una strutturazione interna, un senso, un’intenzionalità diversa.
Nel linguaggio
teologico questo indice, questa strutturazione interna, ha assunto il nome di canone.
Si tratta di un termine di origine accadica, che richiama l’italiano canna:
il canone infatti è qualcosa che serve per misurare, qualcosa che dà la misura
e stabilisce un perimetro al cui interno si trova qualcosa e oltre il quale quel
qualcosa non si trova più. In sostanza, i libri che rientrano in un canone
servono a stabilire le regole della fede, mentre i libri che non vi rientrano
non servono a tracciare tale perimetro, non sono regolatori. Tre canoni
implicano quindi tre scelte culturali e teologiche diverse.
Cercheremo ora di
capire in superficie, ma non superficialmente, cosa vogliano dire questi tre
indici, come siano strutturati e quali finalità si propongano.
I. I canoni: descrizione
1.
Partiamo dal canone ebraico-base. Come noto, per indicare questo
insieme di libri, gli ebrei, senza sbilanciarsi troppo e senza entrare nel
merito del contenuto, usano l’acrostico TeNaK, il
quale indica le tre parti in cui si divide il canone ebraico: Tôrâ
(“Legge, insegnamento”), Nebî’îm (“Profeti”), Ketûbîm
(“Scritti”).
a)
Tôrâ (“Legge, insegnamento”).
I cinque libri recano come titolo l’incipit del libro stesso, secondo
un’antichissima tradizione: bere’šît (“in
principio”), šemôt (“nomi”), wayyiqrâ (“e
chiamò”), bemidbar
(“nel deserto”), haddebarîm (“le parole”).
Visto che per l’ebreo la Bibbia è, di fatto, la Tôrâ, il corpus di
questi cinque libri rappresenta non solo il nucleo storico, ma soprattutto la
struttura portante della spiritualità ebraica.
b)
Nebî’îm (“Profeti”).
La suddivisione interna è fra Nebî’îm ri’šônîm (“profeti anteriori”) e Nebî’îm
‘a:arônîm (“profeti posteriori”). Nei Nebî’îm
ri’šônîm (“profeti anteriori”) si trovano: Giosuè,
Šofetîm (tradizionalmente tradotto con Giudici,
ma, più che di giudici, si tratta di figure carismatiche investite dallo
spirito per salvare il popolo in situazioni di emergenza), 1-2 Samuele, 1-2
Re. Questa sezione è definita “i profeti” per il fatto che qui non si
ha a che fare con una storia di Israele, quanto piuttosto con una lettura
teologica della storia, il cui intento è di spiegare non ciò che è
avvenuto all’inizio, ma ciò che avviene alla fine, cioè la distruzione di
Gerusalemme e l’ultima deportazione in Babilonia. Questa lettura teologica
della storia intende spiegare come è potuto accadere una catastrofe di tali
dimensioni, a partire da una domanda tanto ovvia quanto drammatica: se sono vere
le promesse del Signore, come è potuto accadere ciò? La spiegazione non può
che essere profetica. E infatti nei Nebî’îm ‘a:arônîm
(“profeti posteriori”) si sviluppa tale lettura teologica della storia:
essi sono profeti non perché indovinano la storia, ma perché la sanno leggere,
non perché predicono il futuro, ma perché aiutano a capire un presente che è
votato al castigo. Si potrebbe dire che i Nebî’îm
ri’šônîm (“profeti anteriori”) e i Nebî’îm
‘a:arônîm (“profeti posteriori”) sono come le due pale di
un dittico: sotto forma di narrazione storica i primi e sotto forma di oracolo
profetico i secondi spiegano il perché della catastrofe. Essi stanno comunque
all’interno di un unico disegno. I “profeti anteriori” danno una lettura post
eventum (come è potuto succedere che Gerusalemme sia stata conquistata, il
tempio distrutto e la dinastia davidica interrotta se Dio aveva promesso tutto
questo?), mentre i “profeti posteriori” danno lettura in eventu
(mentre stanno vivendo la storia, dicono: attenzione perché qui si va a finire
male!).
All’interno dei Nebî’îm
‘a:arônîm (“profeti posteriori”), ai cosiddetti Profeti
maggiori (Isaia, Geremia, Ezechiele), seguono i cosiddetti dodici profeti minori
(costituiscono un libro unico): Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Mic(he)a,
Nacum, Abakkuk, Zafania (Sofonia), Aggai, Zaccaria, Malachia. Sul perché
dell’assenza di Daniele, l’unico ad essere propriamente profeta (sono note
le sue interpretazioni dei sogni), diremo fra breve.
c) Ketûbîm
(“Scritti”). Dopo i Tehillîm (letteralmente “le
lodi”, Salmi), Giobbe e Proverbi, troviamo le cinque Megillôt
(“rotoli”): si tratta di cinque rotoli che ancora oggi vengono letti in
occasione delle cinque festività più importanti dell’ebraismo, cioè la megillâ
di Rut (per la festa delle Settimane), la Megillâ
di Šîr haššîrîm (“Cantico dei cantici”, per la festa di
Pasqua), la Megillâ
di Qoelet (per la festa delle capanne), la Megillâ
di ’êkâ (letteralmente “Come?”, Lamentazioni, festa del
ricordo della distruzione di Gerusalemme), la Megillâ
di Ester (per la festa di Purim). Come in ogni libro che si
rispetti, alle cinque Megillôt
segue un’appendice, formata da tre libri: il libro di Daniele, il libro
di Esdra-Neemia (considerato un libro unico), il libro delle Dibrê hayyamîm
(letteralmente “diario, annali”: 1-2 Cronache). Il libro di Daniele
rientra nel genere letterario dell’apocalittica, un genere che, sviluppatosi
tra il 200 a.e.v. e il 100 a.e.v., prospetta il riscatto e l’indipendenza
della Palestina nel futuro, e ciò non perché Dio non sia potente o si sia
dimenticato del suo popolo, ma perché ha in serbo un futuro meraviglioso per
chi gli resterà fedele: la persecuzione presente serve a vagliare chi è fedele
a Dio e chi non lo è, in modo tale che, nel tempo finale, si vedrà chi merita
di appartenere a Israele e chi non lo merita. Si capisce come questa corrente
abbia avuto notevole influenza su molti articoli di fede del cristianesimo (vita
nell’aldilà, premio retributivo), tanto che i libri apocalittici ebraici si
sono salvati grazie ai circoli cristiani. E si capisce anche come, dopo il 100
e.v., quando ormai la speranza del riscatto sembrava tramontata, questi libri
rappresentassero un problema per i rabbini e quindi furono cassati, ad eccezione
del libro di Daniele, per il fatto che la figura di Daniele (in ebraico Dani-El,
“Dio giudica”) nell’Antico Vicino Oriente ha rappresentato la figura del
saggio per eccellenza.
2.
Vediamo adesso come questo indice sia stato modificato dalle comunità ebraiche
di lingua greca. La definizione di Settanta (LXX) si riferisce ai
settanta o settantadue traduttori che, secondo la tradizione, hanno tradotto in
greco il testo ebraico della Bibbia, per fare in modo che gli ebrei di lingua e
cultura greca di Alessandria d’Egitto, dove esisteva la più consistente
comunità ebraica della diaspora, potessero leggere la Bibbia nella loro lingua,
cioè il greco.
Notiamo anzitutto
come si passi da titoli basati sull’incipit a titoli basati sul
contenuto dei libri: da Tôrâ a Pentateuco (“cinque
astucci”), da bere’šît a Genesi
(“inizio”), da šemôt a Esodo (“uscita”), da wayyiqrâ
a Levitico (norme specifiche per i Leviti), da bemidbar
a Numeri (il censimento delle tribù), da haddebarîm
a Deuteronomio (“seconda legge”). Questo passaggio è significativo,
perché implica l’idea secondo cui la Bibbia è la storia di Israele:
si parte dalla genesi per arrivare all’oggi. Si spiega allora perché al
Pentateuco facciano seguito i Libri storici, con il libro di Rut inserito a
questo punto, in quanto ambientato al tempo dei giudici, e con, al termine, la
genealogia di Davide, facendo quindi da ponte tra Giudici e Re 1-4;
seguono due libri di sintesi, 1-2 Paralipomeni (ta paralipomena,
“le cose omesse”), che servono a completare quanto è stato tralasciato;
arrivati alla distruzione di Gerusalemme, non può che seguire il rimpatrio, ed
ecco quindi Tobia, Giuditta, Ester e Maccabei (quest'ultimo
ambientato durante la dominazione dei Seleucidi in Palestina). Abbiamo dunque a
che fare con una intenzionale costruzione storiografica. In sostanza, gli
ebrei di lingua greca vogliono mostrare ai loro contemporanei e conterranei che
anch’essi hanno una storia e un’opera storiografica degna di stare accanto a
quelle di un Erodoto, di un Tucidide, di un Polibio.
Dopo il passato
(la storia), il presente (la filosofia, intesa come insieme di norme per il
retto comportamento sociale e religioso). Ecco allora i Libri poetici (Salmi
(151), Giobbe, Proverbi, Ecclesiaste, Cantico dei cantici, Sapienza, Siracide),
cioè i libri in cui viene raccolta la sapienza quotidiana del popolo ebraico.
Dopo il presente,
il futuro (i profeti). Evidentemente, in ambito greco, i profeti non potevano
che essere assimilati alle sibille e agli oracoli, cioè a un fenomenologia
religiosa collegata con la divinazione del futuro. È come se gli ebrei
dicessero: non solo voi avete grandi storici, grandi filosofi e grandi oracoli,
anche noi li abbiamo.
Infine, la
comunità di lingua greca, dotata - per così dire - di un palato letterario più
raffinato rispetto a quella di lingua ebraica, aggiunge racconti che, per
tradizione o per valore estetico, risultavano apprezzati; ecco allora aggiunte
quali Tobia, Giuditta, 1-3 Maccabei, la Lettera di
Geremia e Daniele, che non termina, come nell’originale ebraico al
capitolo 12, ma con due nuovi capitoli, il 13 (con la famosa storia di Susanna)
e il 14.
3.
Nella Sisto-clementina abbiamo la stessa partizione (Pentateuco, Libri storici,
Libri poetici, Libri profetici), ma spesso, accanto ai titoli latini, si trova
il corrispondente ebraico (Regum libri 3-4 - Malachim; Verba
dierum - Paralipomenon 1-2). Ciò dipende dal fatto che Girolamo,
traducendo in latino la Bibbia ebraica, si attiene al canone ebraico, mentre per
tutti i libri presenti nella Settanta, ma non nel canone ebraico, mantiene una
traduzione anteriore (quella Africana o Vetus latina). Nelle
intenzioni di Girolamo, quindi, la sua traduzione si pone come il punto di
confluenza di due culture (quella ebraica e quella greca), di cui il
cristianesimo latino si considera erede.
4.
Per quanto concerne l’oggi, il canone può essere quello cattolico
(Settanta e Vulgata) o quello protestante (canone ebraico). La Bibbia in lingua
corrente interconfessionale (TILC) e la Traduzione Ecumenica della Bibbia (TOB)
presentano il canone ebraico con l’aggiunta dei libri cosiddetti deuterocanonici.
Recentemente
Alonso Schökel († luglio 1998) ha proposto una disposizione secondo criteri
prevalentemente letterari.
II. I canoni: implicazioni
culturali e religiose
1.
Il canone ebraico non è stato definito - come si è pensato da
Spinoza in poi - al cosiddetto concilio di Jabne del 90-95 e.v., bensì intorno
al III sec. e.v., per una ragione molto semplice. Un canone, proprio perché
fissa il perimetro tra ciò che è vincolante e ciò che non lo è, presuppone
un contesto polemico. E il contesto polemico è l’assunzione sempre più
chiara da parte della chiesa cristiana di un canone più ampio di libri sacri.
Ne derivò la decisione dei rabbini di fissare in modo definitivo un canone di
libri. Si tenga però presente che, oltre a quello ebraico, ci sono altri
canoni, per esempio quello dei Samaritani (che accettavano solo il Pentateuco) e
quello dei Karaiti (IX-X sec. e.v.), i quali, rifiutando la tradizione orale (la
Tôrâ ‘al pê), sostenevano la necessità di tornare al testo
originale ebraico; essi infatti codificano il testo ebraico così come lo
possediamo oggi, aggiungendo le vocali e conteggiando le parole. Prima ancora
dei Karaiti, esisteva un altro gruppo di “eretici”, la setta di Qumran. Tra
i rotoli di Qumran troviamo, per esempio, la Lettera di Geremia in greco,
Tobia, Siracide, il libro dei Giubilei. Ciò significa che
al tempo di Gesù non solo non esisteva un canone, ma neppure un testo sacro.
Soffermiamoci ora
sul Pentateuco. Noi siamo abituati a pensarlo come un insieme di cinque libri,
cui fa seguito un ciclo storico che va da Giosuè a 2Re; ma se
osserviamo meglio, si vede che chi ha pensato questo insieme letterario lo ha
pensato come opera storica globale. Se infatti consideriamo l’ultimo capitolo
(24) del libro di Giosuè (l’episodio dell’assemblea di Sichem, in
cui il popolo è posto di fronte alla scelta tra le divinità dei Cananei e il
culto di Yhwh), ci accorgiamo che
il suo autore ha voluto agganciare il libro Giosuè con il Pentateuco per
mostrare come la conquista della terra, avvenuta sotto Giosuè, costituisca
l’apice delle promesse presenti nel Pentateuco. In questo caso, allora, non si
potrebbe più parlare di Pentateuco (cinque libri), ma, casomai, di Esateuco
(sei libri). Se poi leggiamo Giosuè-2Re, ci accorgiamo che il meccanismo
secondo cui Gerusalemme è stata distrutta perché il popolo non ha rispettato
la legge viene ampiamente sviluppato nel libro del Deuteronomio, il
quale, essendo tutto impostato sul binomio obbedienza alla legge =
vita, disobbedienza alla legge =
morte, conterrebbe l’idea-base dello sviluppo “storico” successivo; in
questo caso allora non avremmo più né un Pentateuco né un Esateuco, ma un Tetrateuco
(quattro libri). Tutto ciò dimostra che già nel canone ebraico si trova
un’intenzionalità storiografica: chi ha messo insieme questi blocchi (il
cosiddetto storiografo deuteronomista) ha voluto presentare una storia di
impianto teologico, ma con un impatto universale.
Oggi si tende
quindi a vedere il Pentateuco (o Tetrateuco o Esateuco) come parte di un disegno
storiografico più vasto, che va da Genesi a 2 Re, in parallelo
con altre storiografie del mondo orientale e greco, che si collocano
cronologicamente nel periodo storico che equivale al postesilio israelitico.
Resta da spiegare perché il Pentateuco sia sopravvissuto a livello canonico
come realtà autonoma, staccato dalla più vasta opera deuteronomista di cui ora
viene solo a formare una premessa. L’intervento del Deuteronomio
intende sottolineare l’arcaica figura di Mosè nella sua funzione di
legislatore e di profeta, con la quale riassume in sé le due correnti che in
epoca postesilica sono entrate in conflitto tra loro, cioè quella degli scribi
e quella dei liberi profeti, su cui bisognava esercitare un qualche controllo.
Sarebbe appunto questa la situazione che spiegherebbe più da vicino le affinità
tra Deuteronomio e Geremia e che potrebbe far supporre la nascita
di una prima collezione di testi “canonici”, composta da tutto il complesso
di Genesi – 2 Re e dal solo libro di Geremia. Si sarebbe
trattato di un canone aperto, che di fatto ha incorporato poi altri testi
(soprattutto profetici), fino al II sec. a.e.v.. La preminenza accordata a Mosè
ha fatto sì che a lui si attribuisse tutta la fase più antica della storia
d’Israele così ripensata, soprattutto dal lato istituzionale e normativo, e
perciò il Pentateuco (inteso ovviamente come tôrâ) è venuto ad
assumere la funzione di una specie di costituzione.
2.
Passiamo ai Settanta. La scelta di nomos (“legge”) come
equivalente di tôrâ (propriamente “insegnamento, direzione, via da
seguire”) fra le possibili soluzioni offerte dalla lingua greca,
sembra essere illuminata dal configurarsi dei Settanta come nomos politikos
avente valore legale nell’ambito delle controversie giuridiche. Infatti, nella
situazione giuridica di Alessandria, nomos è la norma la cui fonte non
è nella volontà del re
e i Settanta s’inquadrano in una situazione politica e sociale in cui i
monarchi si fanno garanti della pacifica coesistenza delle componenti della
società.
I testi papiracei dei III e II secolo mostrano appunto che la tôrâ
ebraica corrisponde alla nozione di “legge civile”, alternativa ai diagrammata
reali, applicabile agli ebrei d’Egitto.
A questo proposito è interessante la testimonianza di Giuseppe Flavio (I
sec. e.v.), il quale nel Contra Apionem dice: “Non è permesso
all’arbitrio di chiunque scrivere storia e non esiste alcuna discordanza negli
scritti – infatti i profeti sono gli unici ad avere appreso, da un lato, gli
avvenimenti più antichi e remoti secondo l’ispirazione proveniente da Dio,
dall’altro, a scrivere la storia e i fatti loro contemporanei con chiarezza (saphos),
così come essi erano avvenuti – ne deriva la giusta conseguenza, anzi
necessaria, che non abbiamo un’infinità (myriades) di libri
discordanti (asymponon) e contraddittori, ma soltanto ventidue libri che
abbracciano la storia di tutti i tempi e che sono giustamente considerati come
divini. Cinque sono di Mosè. Essi contengono le leggi e la tradizione dalla
creazione dell’uomo fino alla sua morte. Questo periodo comprende poco meno di
tremila anni. Dalla morte di Mosè fino a quella di Artaserse,
re dei Persiani dopo Serse, i profeti posteriori a Mosè scrissero i fatti
avvenuti al loro tempo in tredici libri (Giosuè, Giudici+Rut, Samuele, Re,
Cronache, Ezra+Neemia, Ester, Giobbe, Isaia, Geremia+Lamentazioni, Ezechiele,
Profeti minori, Daniele). Gli altri quattro libri (Salmi, Proverbi, Cantico dei
cantici, Ecclesiaste) contengono inni a Dio e precetti morali per gli uomini. Da
Artaserse fino ai nostri tempi ogni evento è stato narrato, ma questi libri non
hanno acquistato la stessa autorità dei precedenti, perché la successione dei
profeti non è più precisa (ten ton propheton akribe diadochen). I fatti
mostrano il sentimento con cui ci accostiamo alle nostre proprie Scritture.
Infatti, pur essendo già passato tanto tempo, nessuno ha osato aggiungere né
togliere né cambiare qualcosa”.
In Giuseppe Flavio, come si vede, c’è già la preoccupazione di
contrapporre la Bibbia alla paideia greco-romana: la tôrâ è la summa
della sapienza del popolo ebraico da contrapporre alla sapienza greca, il che
significa contrapposizione tra un testo religioso e una cultura. Il Contra
Apionem è infatti un attacco alla storiografia greca: recente (archaiotes)
e inaffidabile (superficialità: euchereian), essa preferisce la retorica
e non ha conservato rapporti ufficiali (anagraphas) degli eventi occorsi.
Al contrario, gli orientali in generale, e gli ebrei in particolare, si sono
preoccupati di ciò. Tra gli ebrei questo incarico è stato svolto da profeti e
sacerdoti e con grande cura si è preservata la genuina discendenza di quest’ultimo
gruppo. Giuseppe in altri scritti si sente dotato del dono profetico e quindi in
grado di scrivere storia. Gli scritti giudaici non solo sono superiori sul piano
storiografico, ma costituiscono una genuina alternativa alla cultura e alla
storiografia greca.
3.
Concludiamo con la Vulgata. Delle intenzioni di Girolamo ho già detto al
punto I.3. Qui basta aggiungere che nel XVI sec. si impone l’esigenza
da parte della chiesa cattolica di contrapporsi alla riforma di Lutero sul suo
stesso piano: quindi, prima si stabilisce un testo e un canone, e poi si
canonizza un testo dell’antichità. Sullo sfondo c'è l'idea del ritorno alla
purezza delle origini (si pensi ad Erasmo, alla corrente della devotio
moderna e a Lutero stesso), ma ad origini che siano in stretta e diretta
continuità con il presente (Agostino, Tommaso, tradizione ecclesiastica
medievale). La scelta della Vulgata, consacrata poi materialmente
nell’edizione sisto-clementina, di fatto introdurrà un
elemento nuovo: per quattro secoli la chiesa cattolica avrà un solo testo
canonico, non solo per la lingua che lo veicolava (il latino), ma anche per il
testo nella sua materialità.
Conclusione
Da quanto s'è detto, si può
affermare che ogni canone, proprio per l'intenzionalità teologica che vi
soggiace, non è neutro. Nell'antichità si assiste ad una situazione di
pluralismo, visto che la traduzione dei Settanta e la traduzione latina (Vulgata)
sono coesistite, pur appartenendo alla stessa confessione. Con la
sisto-clementina, invece, si verifica una sorta di assolutizzazione del canone
in funzione polemica (antiluterana). Oggi, infine, si è tornati a una pluralità
di testi, di canoni e quindi anche di teologie, in opposizione alla omogeneità
della Vulgata; l'esempio più eloquente è costituito dalle versioni TOB e TILC.
Conversazione tenuta presso
la Fondazione "Serughetti-La Porta" il 19 ottobre 1998. Testo redatto
dall'Autore.
TeNaK
Tôrâ
bere’šît
(in principio)
šemôt
(nomi)
wayyiqrâ
(e chiamò)
bemidbar (nel deserto)
haddebarîm
(parole)
Nebî’îm
Ri’šônîm
(anteriori)
Giosuè
Šofetîm
(Giudici)
Samuele (1-2)
Re (1-2)
’a:arônîm
(posteriori)
Isaia
Geremia
Ezechiele
(12)
Profeti minori
Osea-Gioele-Amos-Abdia-Giona-Mic(he)a-
Nacum-Abakkuk-Zafania (Sofonia)-Aggai-Zaccaria-Malachia
KetûBîm
Tehillîm (Salmi)
Giobbe
Proverbi
Megillôt
Rut (settimane)
Šîr haššîrîm
(Cantico dei cantici – pasqua-azzimi)
Qoelet
(capanne)
’êkâ (Lamentazioni)
Ester (Purim)
Daniele
Esdra-Neemia
Dibrê hayyāmîm
(diario, annali= 1-2 Cronache)
|
Settanta
(Bratsiotis)
Pentateuco
Genesi
Esodo
Levitico
Numeri
Deuteronomio
Libri
storici
Giosuè
Giudici
Rut
1-2 Re (= 1-2 Samuele) 3-4
Re (= 1-2 Re)
1-2 Paralipomeni (= 1-2
Cron.)
°1 Esdra
2 Esdra (Esdra+Neemia)
Tobia
*Giuditta
*Ester (greco)
*1-3 Maccabei[.1]
Libri
poetici
Salmi (151)
Giobbe
Proverbi
Ecclesiaste
Cantico dei cantici
*Sapienza
*Siracide
Libri
profetici
Osea, Amos, Michea,
Gioele…
Isaia
Geremia
*Baruc
Lamentazioni
*Lettera di Geremia
Ezechiele
Daniele (14 cc.)
4 Maccabei
[Rahlfs aggiunge °Odi di
Salomone (Preghiera di Manasse[.2])
Salmi di Salomone]
|
Sisto-Clementina
(1592)
Pentateuco
Genesi
Esodo
Levitico
Numeri
Deuteronomio
Libri
storici
Giosuè
Giudici
Ruth
Samuehelis (regum) libri
1-2
Regum libri 3-4 (Malachim)
Paralipomenon 1-2 (Verba
dierum)
1 Esdrae
2 Esdrae (verba Neemiae)
Tobia
Giuditta
Ester
Libri
poetici
Giobbe
Psalterium (Gallicanum /
iuxta Hebraeos)
Proverbi
Ecclesiaste
Cantico dei cantici
Sapienza
Ecclesiastico
Libri
profetici
Profeti
maggiori
Isaia
Geremia
Lamentazioni
Baruch (6 capitoli)
Ezechiele
Daniele
Profeti
minori
12 Profeti minori
Maccabei 1-2
[NT]
IV Esdra
Oratio Manasse
3 e 4 Esdra
Sal 151
Lettera ai Laodicesi[.3]
|
Bibbia
di Gerusalemme
Genesi
Esodo
Levitico
Numeri
Deuteronomio
Giosuè
Giudici
Rut
1-2 Samuele
1-2 Re
1-2 Cronache
Esdra
Neemia
Tobia
Giuditta
Ester
1-2 Maccabei
III.
Libri sapienziali
Giobbe
Salmi
Proverbi
Qoelet
Cantico dei cantici
Sapienza
Siracide
IV.
Libri profetici
Isaia
Geremia
Lamentazioni
Baruc
Ezechiele
Daniele (con 13–14)
Osea…Malachia
|
Interconfessionale-Lingua
corrente
Genesi–2
Cronache secondo il Canone ebraico
deuterocanonici
Ester greco
Giuditta
Tobia
1-2 Maccabei
Sapienza
Siracide
Baruc
Lettera di Geremia
Dan 13–14
|
Alonso-Schökel
I.
PROSA
Pentateuco
Genesi–Deuteronomio
Storia
Giosuè
Giudici
1-2 Samuele
1-2 Re
1-2 Cronache
Esdra
Neemia
1-2 Maccabei
Narrazioni
Rut
Tobia
Giuditta
Ester
II.
POESIA
Profeti
Isaia
Geremia
Ezechiele
Osea,
Gioele, Amos, Abdia, Giona, Mic(he)a, Nacum, Abakkuk, Zafania (Sofonia),
Aggai, Zaccaria, Malachia
Daniele (con 13–14)
Baruc
Lettera di Geremia
Poesia
Salmi
Cantico dei cantici
Lamentazioni
Sapienziali
Proverbi
Giobbe
Ecclesiaste
Ben Sira
Sapienza
|
Si vedano le tabelle
riportate alla fine della presente relazione.
Cfr. in proposito la Bibliografia
alla fine del volume.
Si veda lo schema alla
fine della presente relazione.
Cfr. Giustino, Dialogo
con Trifone.
Si tratta di Erodoto,
anche se non in una prospettiva di storia universale, Ellanico, Ecateo,
Berosso e Manetone.
Per esempio thesmos,
termine più solenne di nomos.
In questo caso si
tratterebbe di diagrammata e prostagmata.
Da questo punto di vista
sembrerebbe anche comprendersi la tradizionale alternativa riguardo
all’origine della Settanta -traduzione chiesta dalla biblioteca reale- o targum
greco per la pratica sinagogale.
Artaserse I, 464-424
a.e.v..
Contra Apionem
1,7-8 / 1,37-42.
Da Sisto V 1590 e
Clemente VIII 1592.
La versione latina, che
soltanto da Ruggero Bacone in poi sarà chiamata Vulgata, fino al XVI
secolo conosce una pluriforme attestazione; solo nel XIII secolo,
all’università di Parigi, si comincia a sentire il bisogno di rifarsi a
un testo affidabile.
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