La gratuità 10 Novembre 1990
Quaderno n. 49
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IL SIGNIFICATO DELLA GRATUITA': PROSPETTIVE DI TEOLOGIA BIBLICA

ARMIDO RIZZI (TEOLOGO)


Mi propongo di definire, sulla base di una rilettura dell'Esodo, quali possano essere i rapporti tra gratuità e politica. Credo che l'insieme dei testi che costituiscono l'arco della vicenda originaria di Israele dall’Egitto alla Terra Promessa, possa, e in qualche modo debba per una necessità immanente che emerge dalla successione dei testi stessi, essere scandita in quattro momenti.
1) Il primo momento è quello che normalmente chiamiamo della Liberazione in senso più stretto o più convenzionale: l'uscita dall'Egitto. Dio sottrae al dominio del Faraone, e della maggioranza che il Faraone personifica, la minoranza, gli Ebrei, e li porta in una situazione che non è più sottomissione.
2) Questa situazione però non è ancora quella di positiva libertà, ma è una situazione di cammino: la marcia nel deserto.
3) La marcia nel deserto sfocia in una "salita" al monte, dove la comunità dei liberati dall'Egitto e degli itineranti nel deserto viene legata a Dio con quel legame particolare che chiamiamo Legge o Alleanza, due modi per dire la stessa cosa.
4) Finalmente dall'alto del monte, la stessa comunità, diventata ormai comunità o popolo di Dio, ridiscende a valle. Questa valle non è più però il deserto ma la terra promessa, quella verso la quale si era messa in movimento, o verso la quale Dio l’aveva messa in movimento. Sono questi i quattro momenti narrativi, i quali sono anche momenti di una successione cronologica e di uno spostamento determinabile in termini geografici, anche se si tratta di una geografia dove il valore predominante è quello simbolico.
Ognuno di questi temi che ho annunciato in maniera simbolica è carico di una sua valenza teologica che già può essere considerata in sé e per sé in ogni singolo momento, e che tuttavia può anche essere vista proprio essa stessa come un cammino, come il dipanarsi di un disegno teologico.
L’Esodo allora potrebbe essere chiamato la costituzione del soggetto umano come del soggetto teologico politico, o, nel nostro caso, come, soggetto del gratuito.
Passerò ora ad un tentativo di approfondire le quattro tappe di questo itinerario, enucleando di ognuna ciò che essa dice a proposito della gratuità.
La prima tappa è la fuoriuscita d’Israele dall'Egitto e nel racconto che si distende nel Libro dell'Esodo nei primi 14/15 capitoli è una tappa dove in fondo compare un solo attore: Dio, colui che si rivela prima a Mosé e poi al popolo come il Presente, come colui che è nella modalità della presenza oggi e domani.
Di solito noi mettiamo in contrapposizione questo Dio, Jahvè, questo "io sono" con il Faraone. Questa dimensione è certamente presente nel testo, ma mi sembra che non sia ancora sufficiente a chiarire la narrazione.
In qualche modo qui la manifestazione di Dio è anch’essa una manifestazione allo stato nascente. Qui Dio si rivela per quello che è e vuole essere, e quindi la manifestazione di Dio ha come sua figura sì il Faraone, ma non in quanto espressione del potere, bensì in quanto espressione dell’unità organica dell'Egitto. L’Egitto rappresenta un'unità geografica, etnica, culturale, politica, religiosa: l'Egitto è un'unità organica di senso dentro cui ogni egiziano e non solo il Faraone trova la sua identità.
Al contrario gli Ebrei sono presenti in Egitto come spazio geografico, ma sono esclusi dall'Egitto come luogo di senso.
Credo che, da un punto di vista statistico, Israele venga connotato nella sua posizione in Egitto più frequentemente come straniero che come schiavo. Israele in Egitto è essenzialmente e fondamentalmente straniero e come tale si interpreterà in seguito, come colui che è stato appunto straniero.
Il termine straniero mi pare che dica molto bene l'esteriorità rispetto a quel luogo di senso che è l'Egitto, un'esteriorità non voluta, non scelta ma coatta. In un certo senso poi, la definizione di schiavo aggiunge che Israele in qualche modo è pur sempre dentro quella terra, ma che vi è preso dentro un senso che non è il suo. Lo schiavo è colui la cui finalità è stata confiscata, sottratta perché esiste solo come strumento di un fine altrui.
Straniero e schiavo dunque: la comunità ebrea in Egitto è esclusa da quell'unità di senso e quindi non ha identità. Con termini cari agli esistenzialisti potremmo dire che esiste ma non è, in termini cari a Gutierrez, una persona, o un altro soggetto, non ha una sua identità.
Dio si presenta come colui che è presente, il cui biglietto di presentazione è la volontà di mettersi dalla parte degli stranieri, mettersi dalla parte di chi non ha identità e anzi direi, identificarsi con loro.
Questo identificarsi, però, non significa diventare per gli ebrei ciò che gli dei egizi sono per l'Egitto, cioè luogo di identificazione naturale e culturale: Jahvé si identifica con gli Ebrei con un tipo di identificazione che non lo rende organico al popolo ebraico, né ad una terra, ad una cultura, ad una politica. Intanto è un'identificazione che scaturisce da un atto di libera scelta. Jahvé non si trova coinvolto in partenza, per appartenenza naturale, con questo popolo, che appunto non è ancora un popolo. Se Jahvé fosse già in partenza coinvolto con gli Ebrei, anche gli Ebrei avrebbero un’identità, pur essendo in maniera contingente sottoposti all’Egitto in termini semplicemente politico-militari.
Invece va ribadito che sono stranieri, sono appunto i senza identità.
Dio si identifica con loro, dunque, con atto di libera scelta nei loro confronti. Il modo più abituale nella tradizione biblica di chiamare questa identificazione è quello di amore, ma amore è ormai un termine "viziato", carico di diverse e anche contrastanti valenze.
Credo, a questo proposito, che "gratuità” dica forse nel modo migliore l'essenza, l’intenzionalità immanente di questo manifestarsi di Dio come colui che, senza alcuna ragione previa, ama gli Ebrei. Non perché trovi negli Ebrei qualcosa di speciale, né dal punto di vista di una loro particolare creatività, di una loro particolare razza o cultura o merito etico, ma ama questa minoranza, questi stranieri con nessuna altra ragione che il proprio amore.
Ecco la prima definizione, la prima accezione di gratuità: è questa un’adesione che ha in se stessa la propria motivazione. Non solo è un'adesione senza interesse personale (questo è troppo evidente e dunque non insisto), ma neanche trova nell'altro dei valori che attirano in maniera particolare.
La gratuità qui, dunque, è quella di un amore che ha unicamente in se stesso la propria ragione, la libertà di un amore che motiva se stesso, che genera se stesso, di un amore senza origine, potremmo dire, di un amore auto-generato, e proprio per questo allora di un amore che raggiunge l'altro nella sua estraneità, cioè proprio in quanto straniero, il che equivale a dire in quanto non ha ragioni per essere amato.
Le ragioni, in questo senso, stanno tutte nell’amante, che, con un atto di libera scelta, gli va incontro, e, identificandosi con lui, Io identifica.
Questa mi sembra la prima accezione di gratuità.
Direi che c'è una circolarità tra questa gratuità e la manifestazione di Dio.
Ci sono due modi di pensare all'interpretazione che sto sviluppando. Da una parte si potrebbe dire che sto tentando di fare un'elementare fenomenologia dell'amore gratuito, e attraverso di essa di leggere la manifestazione di Dio nell'Esodo. E' vero però anche, d'altra parte, che il tutto può essere rovesciato, se io posso fare una fenomenologia dell’amore gratuito e parlarne non come di un sogno e resistere così alle "filosofie del sospetto", è perché questa è la rivelazione dell'Esodo. La gratuità non è un sogno, ma la suprema possibilità manifestataci nella storia, è il nome più profondo che l'essere, che l'orizzonte dell'essere abbia acquistato nella storia.
Tutto ciò diventa più evidente in Gesù Cristo, ma prima di tutto nell'Esodo in vari episodi, da quello con cui Dio si definisce appunto il, "presente" a quello con cui Dio si definisce operativamente nel gesto di prendere quegli stranieri schiavi e portarli fuori della schiavitù in una situazione di libero cammino.
Il primo punto dell'itinerario dell'Esodo è l'accezione fondamentale di gratuità come un amore che viene dato "gratis", cioè che non trova nell'altro ragioni, di scambio, ragioni interessate, neanche nel senso più sottile che è l'essere motivati da valori, dalla bellezza, da qualche cosa che nell’altro suscita interesse in me.
L'idea di gratuità può essere espressa anche nel termine di dono.
Israele viene dunque liberato, ma per il momento solo nel senso negativo di "tirato fuori da", e viene così immesso nella strada del deserto.
Il tema teologico di questa seconda tappa è appunto il "deserto" .
Nella prima tappa descritta, l'attivo è Dio con la sua scelta e il suo intervento liberatore, mentre Israele sta semplicemente a guardare, segue con una certa riluttanza con un atteggiamento molto passivo il mediatore Mosè.
Ad un certo punto, soprattutto nel momento della grande apoteosi , nel passaggio del Mar Rosso, sta a guardare l’ intervento vittorioso di Dio. Questo è detto esplicitamente in Esodo 14: "Israele grande spettatore”.
Con il tema del deserto inizia invece la reazione di Israele come soggetto.
La prima reazione è quell'attività che è la recettività: Israele accetta di vivere della gratuità con cui Dio lo ha amato e lo ha liberato.
“Tirandolo fuori, non lo ha posto direttamente nella terra promessa, ma nel deserto. Ed il deserto sta proprio ad indicare questa accettazione.
Che cosa significhi vivere della gratuità si può comprendere attraverso il paragone con il suo contrario.
Il suo contrario è vivere di calcolo, che è ciò che accomuna sia l'atteggiamento tecnologico che quello naturalistico.
Che la tecnologia viva di calcolo è fin troppo evidente, è un tema così ricorrente da diventare scontato, mentre mi sembra meno scontato sottolineare come viva di calcolo anche l'uomo che vive dentro la natura.
La differenza qui è che l'uomo della tecnologia interviene sulla natura, mentre il contadino, l'uomo delle tradizioni, delle società premoderne, interviene dentro la natura. Il punto importante è che però entrambi intervengono: seminare al tempo giusto, raccogliere al tempo giusto, significa avere imparato a calcolare i tempi della natura. Non è questo così scontato in altri contesti, le società di raccoglitori e di cacciatori non lo sapevano fare. La cultura agricola è stata la prima grande rivoluzione antropologica, proprio perché ha scoperto la natura nel senso quasi aristotelico del termine, ha scoperto la "grande madre", la totalità vivente e ha scoperto che questa totalità, ha delle regolarità, dei cicli, delle ricorrenze di cui ci si può fidare. Diventano possibili delle previsioni. C' è la percezione di una fidatezza che è data appunto dall’ accumulo di esperienze: questo è calcolo nel senso buono del termine. Anche la tecnologia si basa sul calcolo, con la differenza che è essa stessa che ha prodotto l’oggetto di cui ci si può fidare (l'orologio, per esempio, nel caso di appuntamenti).
Credo che l'aspirazione, il bisogno fondamentale dell'uomo di non soccombere al caso coincida con il bisogno di sicurezza: è il bisogno di trovare dei parametri, dei punti di riferimento. I parametri di riferimento principali riguardano appunto la determinazione del momento opportuno per compiere qualcosa. L'idea della gratuità significa mettere i propri fondamenti al di fuori delle possibilità di calcolo. Questa è proprio la grande lezione del miracolo principale avvenuto nel deserto, il miracolo cioè della manna data giorno dopo giorno in una misura tale da non poter fare alcuna scorta per i tempi futuri: ogni calcolo è precluso. Ogni giorno è miracolo: ogni giorno la manna è data come, se fosse il primo giorno.
Questo lo si può ritrovare in Esodo 16/17: vivere ogni giorno nell'amore di Dio che non si naturalizza, non diventa mai una regolarità in cui poter distendere i propri calcoli.
Invece di avere la terra, con i suoi frutti regolari, la manna cade dal cielo. Questo non sta certo ad indicare uno spostamento "geografico” ma significa quell'altra realtà che non è calcolabile: la manna avviene come miracolo puntuale.
Quello di cui io, allora, posso fidarmi non è ciò su cui poggio, non è più opera delle mie mani, come un manufatto tecnologico, né la regolarità della natura, ma è la parola della promessa, è il credere che questa parola non verrà meno. E‘ credere che quel "sì", quel "sarò con te", frasi con cui Dio si è definito davanti a Mosè consegnandogli un nome che non è un nome da trasmettere agli Ebrei, non sarà disatteso. Vivere oggettivamente della gratuità di Dio è accettare di fare di questo il fondamento del proprio esistere. Questa è la nostra parte, in qualche modo tutte le creature vivono della gratuità del creatore, ma l'uomo è l'unico essere chiamato a vivere della gratuità di Dio nella modalità del soggetto. Vivere della gratuità è dunque quello che normalmente chiamiamo fede, o quello che possiamo anche definire " gratitudine".
Alla gratuità di Dio Israele è chiamato a rispondere con la fede in quanto gratitudine. Alla grazia si risponde con l’azione di grazia, alla gratuità, cioè all’amore liberamente donato, si risponde con la gratitudine che non può riguardare qualcuno che ha fatto un favore perché era interessato. Il grazie che viene dal cuore è quel grazie detto per un intervento che è venuto a sua volta dal cuore, dall’amore, da una libera scelta. Ogni volta che si dice grazie con sincerità e serietà, si deve intravedere, almeno, che quanto è stato ricevuto non aveva di mira alcun interesse, nemmeno poi per una specie di spontanea bontà o per una natura generosa. La gratitudine vera è solo quando vedo che quell'aiuto che l’altro mi ha dato scaturisce da quel qualcosa di così "soggettivo" che non è attribuibile a nessun altro, nemmeno a "madre natura". Si tratta proprio di lui, in maniera tale che nessuno potrebbe essere messo al suo posto. Questa è la definizione di libertà.
Quando quell’intervento è così proprio da impedire ogni sostituzione, quando l’amore è dato in modo tale da precludere a sua volta ogni sostituzione, allora può avvenire quel grazie che chiamo gratitudine.
Mi sembra che la parola teologicamente fondante del cammino nel deserto sia "imparare il grazie", imparare il grazie in una situazione che obbliga a dirlo, perché non c'è altro scampo. Israele impara nel deserto, ma continua la sua gratitudine anche nella terra promessa.
Il cibo ogni giorno è dato da un atto d'amore, da un nuovo intervento di una gratuità.
La terza tappa riguarda il dono dell'alleanza (o legge) sulla montagna.
L'Alleanza e la Legge fanno tutt’uno.
Certo possiamo intendere l’Alleanza come l’insieme della storia di Israele mentre la Legge come un suo momento. Se però si considera meglio e in maniera più formale in che cosa consista il vincolo tra Dio e popolo, e cioè l'alleanza, si scopre che si tratta appunto della Legge. Qui apparentemente sembra che ci spostiamo, almeno semanticamente, in un ambito molto lontano da quello della gratuità, perché la legge è un insieme di norme, di imperativi e niente è più lontano dalla gratuità che l’obbedienza ad un imperativo.
La gratuità è stato "l’indicativo" di Dio, ciò che Dio ha fatto, la fonte della soggettività di Dio che lo ha portato a fare quel che ha fatto.
Questa stessa gratuità, attraverso la legge, diventa l'imperativo di Israele: "sii per lo straniero quello che Dio è stato per te straniero". E' solo più avanti che lo straniero diventa il “prossimo". La formulazione originaria non è dunque: "ama il prossimo tuo come te stesso", ma "ama lo straniero come Dio ha amato te straniero", cioè "ama con un amore che trovi solo in se stesso la propria motivazione".
Ma come è possibile che l'uomo ami con lo stesso amore con cui Dio ha amato?
Evidentemente qui non c'è simmetria, ma c'è un imperativo: l'imperativo pone sul piano della necessità l'amore. Questo significa che l'amore con cui devi amare l'altro non è facoltativo, non è un qualche cosa che tu possa dare o non dare a tua discrezione. E’ "necessario" anche se non si tratta della necessità delle cose e dei sillogismi: è la necessità "morale".
Questo tipo di necessità è quello che connota l’amore biblico come giustizia. Giustizia dice ciò che devo all'altro, ma il fondamento del dovere non è la restituzione ma il suo bisogno e la sua stessa presenza. Il nostro "dovere" nei confronti del Terzo Mondo non riguarda prima di tutto il restituire il mal tolto, ma parte prima di tutto dal fatto che il Terzo Mondo ha bisogno del nostro aiuto. Cioè, il dovere sussisterebbe comunque, anche se non fossero mai avvenute "rapine": la giustizia è in assoluto la necessaria risposta al bisogno dell’altro.
Ciò che Kant chiama imperativo categorico è un modo di dire quello che la Bibbia chiama giustizia ed è la dimensione di necessità dell'amore. Questo stesso amore, però, ha una dimensione di libertà.
Il fatto che il "debba" non significa che io abbia una coazione interiore o qualcosa che mi spinge irresistibilmente: rimane libera scelta.
Noi siamo chiamati, ad un amore che ha la dimensione di necessità e di gratuità, di libertà e di giustizia che sono due facce dello stesso atto d’amore.
Mentre in Dio è solo gratuità per noi è anche giustizia, ed è giustizia perché Dio si è messo dalla parte dell'altro, si è identificato con l'altro. Quindi io devo a lui e devo all'altro in quanto Dio si è messo dalla sua parte. Questa è la logica dell’imperativo dell'Esodo "ama lo straniero perché Dio ha amato lo straniero".
Di per sé se gratuità è amore liberamente donato, non è certo amore; spontaneo, perché appunto spontaneo è ciò che scaturisce come atto generoso di una natura a ciò predisposta.
Tuttavia possiamo pensare anche che la necessità dell'amore assuma le movenze della spontaneità.
Qui inserisco brevemente un testo di Luca (10, 30-55) , la parabola del buon samaritano, che potrebbe essere letta esattamente nei termini in cui sto leggendo la terza parte dell'Esodo.
Il dottore della legge chiede che cosa deve fare per la vita. Il maestro Gesù dà della legge ebraica, la legge dell'Esodo, l’interpretazione originaria, dove cioè l'amare è amare lo straniero e non il prossimo, dove invece la prossimità è quella da parte di chi si fa vicino allo straniero. In quel testo c'è però proprio il verbo che esprime la sorgente soggettiva del comportamento, dell’atto di prossimità attiva del samaritano. E’ un verbo che non appartiene all’ordine del dovere, ma all’ordine della spontaneità del sentimento: "gli passò accanto, lo vide e ne ebbe compassione" (Luca 10, 33). Credo che non si possa isolare questa espressione dall’imperativo che la contiene: "va e fa’ lo stesso". L’imperativo attraversa il gesto perché è la dimensione di trascendenza del Dio che chiama e tuttavia non si può cancellare la dimensione affettivo-sentimentale, che è come la maturità della gratuità.
La gratuità è libera scelta e nello stesso tempo necessità. La gratuità è presente anche quando dà l’impressione (oppure forse lo è anche davvero) di uno sforzo estremo. Per un altro verso però la gratuità è come se tendesse di natura sua a fiorire in spontaneità. Non si tratta però della spontaneità di chi è stato "fatto bene da madre natura", ma la spontaneità di chi ha esercitato la gratuità fino a farne una seconda natura.
Un'ultima osservazione, sempre per quanto riguarda questa terza figura: lo scopo della legge è di istituire i rapporti giusti per l’israelita, che però rappresenta l’uomo in quanto tale, quindi di istituire i rapporti giusti con Dio e i rapporti giusti nelle relazioni reciproche, e quindi di istituire la politica di Dio dentro la coesistenza dell'uomo. C’è un bellissimo testo rabbinico che dice: "Quante alleanze ha fatto Dio sul Sinai? Non una, ma 603.505", cioè tante quanti erano, secondo il racconto, gli israeliti. Potremmo continuare e dire: non una ma 603.505 x 603.505, perché all’alleanza di Dio con ognuno si aggiungono le alleanze di ognuno con ognuno, come quando ci si scambia il segno della pace nella liturgia.
L’alleanza fatta significa che Israele, interlocutore di Dio, per quanto sia popolo, per quanto sia comunità, non è però un collettivo dove il soggetto è l’insieme, ma rimane una comunità proprio perché ognuno è singolarmente interlocutore nei confronti di Dio, è interlocutore nella reciprocità.
Questo avviene per la ragione che dicevo poc’anzi, e cioè che la gratuità può essere soltanto qualcosa di mio, dove io non sono delegabile, dove io sono la intrascendibile totalità che dice "sì" e lo dice ad ognuno degli altri.
La quarta tappa è quella della terra promessa.
E’ evidente che la terra promessa è la prima configurazione dell'utopia per Israele. Quando vi sarà il fallimento della terra promessa, sorgeranno le visioni messianiche. Le utopie messianiche saranno una ripresa al futuro della terra promessa (cfr. il mio volume "Il messianismo nella vita quotidiana", pubblicato una decina di anni fa).
La terra promessa è una figura utopica, ma di un'utopia che si suppone realizzata. Noi sappiamo che la Palestina è ben poca cosa, che storicamente il popolo ebreo non è mai vissuto nell'abbondanza, che la pienezza di cui parla la scrittura non risponde all’ effettività delle condizioni di vita di Israele. Eppure ogni volta che Israele parla della terra promessa noi sentiamo l’afflato utopico: c’è qualcosa in più nelle parole, non rispetto alla vita vissuta, ma rispetto alle condizioni oggettive di quella vita. Queste parole rappresentano quella vita che aveva appena il necessario, più un di più, che è la dimensione della gratuità.
Qui propriamente si tratterebbe dell'accezione di gratuità come di quel tipo di beni e quel tipo di attività che non appartengono alla necessità, ma non si può nemmeno dire che appartengano al superfluo.
Credo che l’unica definizione corretta di gratuito resti quella data da Aristotele e poi ripresa dalla scolastica: il "gratuito" si definisce per antitesi al "funzionale", al "necessario in quanto funzionale". Funzionale è un oggetto o un'attività che servono ad altro, mentre gratuito è un oggetto o attività che non serve a nulla.
Questo non significa che si tratti di cose vane, superflue, in quanto fini a se stesse. Non hanno il loro senso in qualcosa da raggiungere, ma hanno un senso immanente.
Se si tratta di oggetti, allora si tratta di quelli che noi chiamiamo oggetti "belli”, nell’accezione più ampia del termine. In questo senso credo, anzi, che la definizione migliore di "bello" sia proprio quella che fa riferimento a questa dimensione di auto-finalità. A questo proposito ci si può riferire a Kant: il fiore che si racchiude in se stesso, che non serve a nulla, ma che proprio nel suo non servire a nulla, nel suo conchiudersi in sé, dà visivamente l'idea più elementare, più originaria, di che cosa è appunto il gratuito. La Bibbia, sia in alcune pagine che parlano della terra promessa, sia poi soprattutto in quella terra promessa universalizzata che è il mondo creato da Dio (Genesi 1), parla del mondo come di necessità e gratuità insieme: “e Dio vide che era buono", dove buono vuol dire che funziona, che va bene, che era tutto a posto, ma vuol dire anche bello. Le due dimensioni vanno insieme.
Dunque, se da una parte la terra promessa è piena di questa gratuità che è il "di più" di beni assolutamente necessari, elementari, la terra promessa è tale anche perché ha due fonti da cui derivano bellezza e gratuità.
La prima è, per eccellenza, il dono che la gratuità di Dio ha dato. Qui c'è allora la connessione tra gratuità del soggetto, cioè la libertà dell’amore, e la gratuità dell'oggetto, l'avere cioè in se stesso il proprio fine. Il mondo è bello perché in esso si riflette, si riverbera una luce che non solo lo sostiene, ma lo avvolge e lo accarezza. Il mondo è bello perché scaturisce dalla libera gratuità divina: al senza origine della gratuità come libertà risponde il senza fine, senza scopo. All’auto-origine dell'amore che dona risponde l’auto-finalità dell’oggetto prodotto da questo amore, il mondo.
Io credo che i salmi dicano questo, rappresentano il mondo vissuto e gustato in quanto gratuito, cioè dono del libero amore di Dio. Aldilà della sua bellezza e fruibilità immanente, il mondo possiede quell'altra bellezza che è ricordare questo Dio come colui che dona.
L’altra fonte, o l’altra condizione della terra promessa, è la gratuità di Israele, quella gratuità-giustizia che è sempre l’essere fedeli alla Legge.
Il tema ebraico per eccellenza, su cui Carmine di Sante ha impostato il suo ultimo libro "Teologia di Israele, ontologia ebraica", sta proprio qui.
Dove avviene questa idea fondamentale, il titolo può essere "la parola e la terra": la parola accolta e consentita è la giustizia della gratuità.
E’ quello che si può chiamare la connessione essenziale per Israele fra bontà del cuore e bontà del mondo.
Una piccola sintesi delle varie accezioni di gratuità si può trovare in quel momento reale, e allo stesso tempo simbolico, fondamentalmente biblico, che è la “tavola”, il mettersi a tavola. Mettersi a tavola è riconoscere la gratuità originaria: "Signore ti ringraziamo di tutti i frutti del tuo amore". Mettersi a tavola è appunto riconoscere questa gratuità, e quindi è la gratitudine. Sulla tavola sono anche i frutti del lavoro dell’uomo, come oggettivazione della partecipazione alla giustizia della gratuità originaria.
Il banchetto è allora la distribuzione, il luogo per eccellenza dove si condivide.
Quello che si condivide è il pane, cioè qualche cosa che è allo stesso tempo elemento necessario per sopravvivere, ma che è avvolto di tutti questi livelli di ulteriorità di significato che è la gioia di stare insieme, che è la bontà divina che si manifesta, che è il nostro lavoro.
Quello che ho compiuto è una lettura della pagina biblica, una lettura teologica, ciò che mi era stato chiesto, ma non voglio affatto sostenere che al difuori della tradizione ebraica e cristiana non ci sia il Dio della gratuità e non sia possibile all’uomo vedere la gratuità.
Non è la pagina dell’ Esodo che fonda la gratuità nel mondo, semmai la dichiara e la racconta. Ci sono poi anche i grandi racconti della modernità che dicono qualche cosa che riposa sulla natura umana, che parlano di un uomo fatto per comunicare con gli altri e cose di questo tipo. 
La forma non è certo esattamente uguale a quella dell’Esodo, ma a loro modo aprono uno spazio aldilà del "tecnico", dell’oggettivo", dello "strumentale", e aldilà anche di tutto l’ordine del naturale. 
Sono convinto che la pagina religiosa narrazione di un evento sia aldilà della differenza tra religioso e laico, che abbia una sua extraterritorialità rispetto alle narrazioni che pure parlano di Dio.
Vorrei concludere con una parola sul rapporto tra gratuità e politica.
Credo che la politica non possa essere né identificarsi con la gratuità, né però sganciarsi dalla fonte della gratuità. Identificare la politica con lo spazio della gratuità significherebbe pretendere di riprodurre quella unità, quella omogeneità tra cultura politica, etica e religione del mondo antico.
La politica è una sezione del nostro esistere e del nostro coesistere, non è il nostro coesistere. Invece la gratuità è il fondamento del nostro coesistere come proprio nostro "esistere giusto”. Affermo anche che non può esserci politica, specie se buona politica, sganciata dal principio della gratuità, cioè semplicemente basata su convenzioni e regole del gioco.
Infatti la gratuità ha diverse espressioni. La prima è quella appunto di chi la vive come sua ragione di essere, singolare, personale, soggettiva. Questa ha un suo luogo preferenziale nelle relazioni dirette, in quella che si chiama la prassi evangelica, una prassi che fa, cioè che annuncia, la buona notizia (l"evangelion") la fonte del bene. Non solo dunque io sono vicino al tuo bisogno, ma lo sono con una motivazione che è quella più propria. In questo senso non ti sono vicino avendo in mente che tu domani mi aiuterai a tua volta, e nemmeno perché in questo modo mi sento buono, o perché così faccio piacere a Gesù Cristo. Lo sono perché ho colto l'appello che grida dentro il tuo bisogno e che mi chiama a quella giustizia-gratuita che è il farmi prossimo a te.
Al secondo livello troviamo la gratuità come fatto culturale (per esempio la "cultura della pace”). Qui avviene l’oggettivazione della gratuità come fonte soggettiva, nell’ordine del linguaggio verbale, dei comportamenti, dei costumi. Questa è ciò che chiamo cultura in senso antropologico. La gratuità si oggettiva in figure comportamentali che hanno una certa efficacia: non normativa, ma, direi, persuasiva.
Al terzo livello troviamo la politica, nel senso moderno, cioè in senso statale.
Anche le leggi sono oggettivazione della gratuità, con una funzione che non è più quella semplicemente di modello persuasivo, ma di norma coercitiva. Questi sono la legge, lo stato, il potere "buoni”. Il potere "buono" è quello in cui la gratuità è diventata non solo oggettivazione nel modo del comportamento dei più, e quindi con un certo influsso, ma è diventata legge, cioè oggettivazione coercitiva, e istituti statali.

 

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