UGUAGLIANZA, UGUALITARISMO, DIFFERENZE- 20 Marzo 1987
Quaderno n. 31
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UGUAGLIANZA, UGUALITARISMO, DIFFERENZE

Rossana Rossanda

La tematica della democrazia diretta è di per sé sconfitta con l’esercizio della democrazia del voto con cui si formano gli organismi parlamentari, perché immediatamente il suffragio universale produce sistemi di delega, che creano a loro volta i loro esecutivi ed apparati non sempre controllabili.
Sono tutte cose che conosciamo, ma per esempio sull’Esercito non esiste, in nessun paese democratico, il diritto di controllo, cioè di andare a vedere come è fatto; anche se esistono una Commissione Difesa, un Comitato parlamentare per i servizi segreti ecc., si va a sbattere di solito con il generale di turno che ribadisce: "Anche se lo vorrei tanto, non posso dire nulla perché c’è il segreto di Stato".
Trovo stupefacente e sostanzialmente scorretto investire una esperienza di lotte, di speranze e naturalmente anche di errori, compiute negli ultimi 15 – 20 anni in Italia, con una specie di grandinata che fa di tutta l’erba un fascio, senza prendere neppure minimamente in esame alcuni dati storicamente elementari, come il diritto di ogni uomo a partecipare alle regole della società, che determinano il suo destino. 
Vorrei sapere dai sostenitori della "società complessa”, se in tale società possiamo, ad esempio, prescindere dal suffragio universale, oppure se ritengono che tale società non debba più esprimere nessuna forma di aggregato partecipativo basato sull'uguaglianza dei diritti. Questa ipotesi del diritto di ciascuno di dire la propria parola nella "polis" in modo uguale è presente, fin dalla Rivoluzione inglese come possibilità di "controllo del potere del Signore” o, in antecedenza, di chi per esso (l’Imperatore, o il "tyrannos" in Grecia) si ponesse a capo della società, per "grazia divina"; dopo il 1640 la sovranità, in teoria, passa ai cittadini, uguali in diritto, salvo poi distinguere secondo il censo e il sesso per questioni di competenza. 
Rousseau, che è stato da Zolo e Cremaschi citato come egualitarista, sia nel "Contratto Sociale" che nel più famoso "Discorso sull’origine dell’uguaglianza degli uomini" dice che: “l’inuguaglianza degli uomini non sta in natura, così come neppure l’uguaglianza", in quanto si tratta di un valore relativo alle convenzioni sociali. 
Dopo l’abbattimento della Rivoluzione Francese, in piena Restaurazione, egli cerca di dare un fondamento filosofico all’idea di uguaglianza, che gli pare l’unica possibile sostenibile a partire dal principio dell’inalienabilità della persona. Non credo i sostenitori della società complessa siano contro questo principio che in teoria è negato solo da nazisti e dai razzisti.
Inalienabilità della persona umana significa che ogni persona, per sé stessa e rispetto agli altri, è un tutto incomparabile e, in quanto tale, in diritto per ciascuno la sua vita ha pari dignità' della vita degli altri. ,
Si può considerare in due modi la vita di un uomo nella sua coscienza, colto o incolto che sia, nella esperienza che egli attraversa dalla nascita alla morte: o secondo il criterio del più forte, oppure secondo il criterio dell’uguaglianza. Se il modo è ineguale, si stabilisce una società gerarchizzata, al cui comando può stare il Superuomo, oppure il più ricco, oppure chi ha ricevuto la grazia divina, o altri ancora; se è uguale, non significa che siamo destinati ad essere identici (anche perché questo non si può nemmeno immaginare), ma che ciascuno ha identica dignità, e deve considerare gli altri con uguale dignità.
A questo proposito io trovo straordinario piuttosto che Rousseau dica che le donne ed i bambini non hanno pari dignità, in quanto questi sono "adulti imperfetti’, mentre nelle donne le passioni prevalgono sul raziocinio: se questo non toglie loro una dignità, tuttavia esclude l’uguaglianza dei diritti nelle convenzioni che reggono la vita collettiva. Lo dice però con una qualche incertezza, perché allora sostiene che un uomo deve anche rappresentare la donna e i figli.

All’epoca della Rivoluzione Inglese Lord Harlington obiettava, come già detto: "se si danno uguali diritti, si arriverà ad essere uguali negli averi".
Filosoficamente il diritto di proprietà non ha fondamento, se non che la proprietà esiste ed esiste il lavoro ineguale degli uomini. Rousseau dice che nel processo per cui un uomo accumula la sua ricchezza sul lavoro degli altri c’è il senso di una sostanziale ingiustizia. Pur dichiarando di essere i più colti ed i più saggi, i ricchi si sono sempre difesi dal pericolo di dover riconoscere diritti uguali, perché l’ipotesi dell’uguaglianza dei diritti è così forte che pone subito problemi di giustizia e di democrazia economica. Questo è infatti il problema che viene fuori con la Rivoluzione Francese con la famosa "égalité”; ma anche in questo caso nemmeno i più "estremisti" (Filippo Buonarroti o Gracco Babeuf) intendevano dire che ciascuno deve essere identico su misura agli altri.
Per quanto riguarda l’ipotesi marxista, che è quella messa in discussione, Marx parte dalle condizioni della libertà degli uomini (e non dalla giustizia o dall’economia) e sostanzialmente afferma: non è vero che tutti gli uomini siano ugualmente liberi, perché nel rapporto di lavoro l’uguaglianza è apparente. Tra i due contraenti di un contratto di lavoro, il padrone è libero di prendere chi vuole, mentre quello che accetta il lavoro ha bisogno di chi gli dia un salario per sopravvivere. Su questo si basa il capitalismo.
Mi viene in mente un saggio comparso sulla "Rivista di Studi Storici" di Anna Rossi Boria, "Uguali' e diversi", che illustra una situazione paradossale verificatasi nel Parlamento inglese verso la fine dell’800 sul tema del lavoro di uomini e donne.
A "difendere" la dignità delle donne ci furono i conservatori che chiesero una regolamentazione del rapporto di lavoro che impedisse alle donne di scendere in miniera, per motivi di decenza legati a quelle condizioni di vita, o in fabbrica, per la tutela della famiglia tradizionale. Ma questa tutela era rifiutata dalle donne dell’epoca. Sir Robert Till, liberale, affermò che lo Stato non poteva intervenire nei rapporti di lavoro perché avrebbe violato la libera possibilità di contrattare, ma molti nel fatto che i lavoratori "scegliessero" di lavorare dieci ore al giorno, compreso sabato e domenica, cominciavano ad avvertire qualcosa che non andava.
Questo è il problema che è stato affrontato dal marxismo: lo scambio è ineguale, il contratto non è libero. Per diventare liberi occorre che nel rapporto di lavoro lo scambio sia uguale: Marx non ha mai detto che tutti gli uomini debbano essere uguali, ma che la possibilità di essere liberi si fonda sull'uguaglianza nei rapporti di lavoro.
Essere liberi significa avere possibilità di scegliere, che è il terreno sul quale si esercita la nostra diversità di individui.
La cosa che non riesco a capire di questi ragionamenti anti egualitaristi che vanno adesso di moda, è la strana interpretazione secondo la quale fino a dieci anni fa il movimento operaio, il movimento democratico, il movimento di base, il movimento consigliare volesse essere uguale non per essere libero, ma per obbligare ciascuno ad essere uguale all'altro. Ma non è mai stato così: l’impianto stesso del discorso marxista è: "uguaglianza per la libertà”; quindi uguaglianza per la diversità, altrimenti che senso avrebbe la libertà?
Ma la cosa più interessante da sottolineare è che questa uguaglianza in fase di contrattazione non c'è, non c'è ancora. Certo questo può apparire meno rilevante del fiorire delle nostre diversità, ma io sfido chiunque a venirmi a sostenere che sia meglio così, che questa assenza di libertà è filosoficamente fondabile e non è solo una realtà di fatto; che è giusto stabilire un sistema di poteri disuguali.

Nell'introduzione alle conferenze leggo: "assistiamo a una crescente affermazione del valore dell'individuo e delle sue libertà come reazione ai processi di massificazione dei gusti e dei comportamenti". Sono d'accordo, ma preciso che i processi di massificazione sono specificamente sviluppati da queste società complesse per le quali l’ideologia consumista e il fatto che ci arrivi da molte parti sempre la stessa informazione (cosa che è erroneamente scambiata da Zolo per "enorme quantità di informazione "), il lancio dei messaggi e dei modelli, come Luhmann spiega, è centralizzato e contrattato tra le grandi corporazioni sistemiche, è un prodotto dell'industria dell'informazione.
Leggo ancora: "non si tratta solo della ripresa del vecchio individualismo conservatore, ma del riconoscimento che la realizzazione di sé non è esauribile in processi soltanto collettivi”.
Qui mi pare implicita, ma forse mi sbaglio, una critica ai gruppi storici della sinistra e della nuova sinistra che chiedono un processo collettivo come momento indispensabile per la liberazione da quelle ineguaglianze di cui parlavo prima. Io però sono stata per anni, dal '43 al *69, in un partito formato sul modello staliniano; poi nella Nuova Sinistra, poi ho frequentato moltissime persone della nuova Sinistra, comprese quelle con cui non ero assolutamente d'accordo, come i gruppi marxisti - leninisti milanesi che, a mio avviso, esagerarono nel sostenere costumi puritani ed egualitari e cose del genere. Conosco inoltre abbastanza la rivoluzione culturale cinese; sulla base della mia esperienza sostengo che quel famoso "collettivo" dei "processi" sviluppa un forte momento di ugualitarismo (del resto spesso contraddetto dalle gerarchie di partito) che non era altro che una accentuazione, una forzatura dell’uguaglianza dei diritti e delle dignità e mai fu una affermazione di uniformità o di esclusività. Certo, quando si crea un gruppo, qualunque esse sia, tendono ad instaurarsi dei comportamenti comuni, ma questo tipo di conformizzazione, anche nel momento cruciale dei movimenti emergenti, non è certo più forte di quella a cui siamo spinti oggi. 
Che oggi non si possa più dire la parola "rivoluzione" senza che la gente sorrida, non è forse un modello di conformismo? Per quella che è poi la mia esperienza personale, posso dire che, pur non essendo patita del "libretto rosso" di Mao, pur crescendo formata da una cultura individualista, non avendo mai voluto frequentare una scuola di partito, essendomi vestita come volevo, sono rimasta nel partito e ho fatto carriera, e sono stata cacciata solo quando ho detto che non mi piaceva la politica del partito. 
Che la realizzazione di sé sia esauribile in processi soltanto collettivi è una cosa che neppure "Servire il Popolo" ha mai detto, e parlo del movimento più insopportabile che la sinistra abbia mai prodotto.
Continuo a leggere: "la frantumazione dei vecchi schieramenti ideologici e politici produce la nascita di nuove identità collettive parziali, che rivendicano il diritto alla propria diversità; pensiamo alle minoranze etniche". Ma le minoranze etniche esistono da sempre; se avessero aspettato la frantumazione degli schieramenti ideologici per esprimersi, sarebbe grave. Quello delle minoranze etniche, comunque, è un problema che, essendo io una ìnternazionalista, avverto solo quando c’è una oppressione. Cremaschi ha detto bene; "il diritto all’uguaglianza viene fuori dalla negazione della medesima", e questo è vero. In genere a parte la questione ebraica che è più complessa, un’etnia è oppressa non in quanto etnia diversa ma in quanto qualcuno si serve di questo pretesto per soggiogare una parte della popolazione. L'oppressione poi crea un bisogno di affermazione di sé, che è una rivendicazione di uguaglianza.
Si parla spesso di "povertà post materialistiche" e le si identifica con parametri che riguardano le disuguaglianze nella possibilità di decidere sull’uso del tempo, nel disporre o meno di luoghi adatti ad una serie di necessità e nella facilità o meno ad avere rapporti sociali. Io credo però che noi siamo in presenza di povertà ancora pre-materialistiche; in questa società complessa, dove abbiamo informazione su scala planetaria, mi sembra strano che ci dimentichiamo che a distanza di qualche ora di volo esistano persone che vivono al di sotto di ogni livello umano; d’altra parte la questione del tempo libero ha sempre fatto parte del discorso dell’emancipazione. La parola stessa significava e significa "non essere più schiavi", cioè ridotti nelle proprie possibilità, e non è vero che la critica della disuguaglianza sociale e politica sia stata accompagnata da un modello livellatore, di appiattimento: affermazioni del tipo "in Russia sono tutti uguali", "in Cina sono tutte formichine blu” sono sempre state fatte dai nemici della sinistra, e nessuno che sia stato e stia dalla parte in cui sto l’ha mai pensata. 
L'appiattimento in senso polemico può essere pensato solo come' una delegittimazione delle forze che domandano ancora una democrazia politica piena attraverso una trasformazione sociale che permetta la contrattazione libera, la scelta libera di ciascuno del proprio lavoro e del proprio tempo, che è un’idea comunista. 
Se si vuole sostenere che questa idea e questo diritto, è un diritto che gli uomini non devono più chiedere, che non vogliono più sperare di essere uguali in diritti e in possibilità, diciamolo senza circonlocuzioni; diciamo allora che le battaglie per una liberazione totale sono sconfitte, che c’è il "riflusso", e che siamo di fronte al riorganizzarsi di un’ideologia della disuguaglianza dei diritti sociali, che equivale all’ideologia dell’appiattimento, della conformazione delle persone ai modelli di consumo o di comportamento della classe dominante. Luhmann dice queste cose e parla di "sistemi di poteri tra loro confliggenti ed equilibrantesi tra l’alto e il basso della piramide, ma sistemi ineguali rispetto al resto della piramide sociale".
Questo svuota di significato il suffragio universale.
C’è una sola grande diversità, novità, che nasce all’interno delle lotte della sinistra e se ne distacca perché non sta dentro quelle categorie ideologiche, ed è la diversità di sesso: si è sviluppata l’idea che la donna non è uguale all’uomo, ma anche che non chiede, come realizzazione di sé, di entrare nella storia così come, è concepita dall’uomo. Si dà per scontata, ovviamente l’uguaglianza politica. Prendiamo atto della straordinaria, millenaria diversità che si riscontra, per esempio, guardando la storia dei diritti dell’uomo e della donna: da Gaio a Rousseau, dopo tutta la civiltà occidentale, le donne hanno acquisito una dignità soltanto nell’ultimo secolo, nonostante gli infiniti esempi di donne protagoniste, in tutti i campi. 
Non è quindi possibile, mettono oggi in evidenza le femministe, limitarsi ad "allargare" quelle regole, quella stessa cultura, ora che abbiamo voce in capitolo, come se si trattasse di allargare una cosa: io, che ho vissuto una vita da uomo, pur sostenendo l’uguaglianza della persona con una carica, diciamo, "neutra", dico che questa rivendicazione di diversità è profondamente giusta: e oggi vedo anche me stessa in un altro modo. Capisco che la "storia" umana dietro di noi è strettamente mono sessuale, maschile, mentre le donne hanno avuto come funzione la riproduzione sociale; ma questa funzione non è un nulla, non è un’inesistenza da cui, finalmente, veniamo salvate, magari per accedere in quota pari al Parlamento della Repubblica o per divenire managers di successo, ma è un pezzo d’umanità di cui noi abbiamo conoscenze, sofferenze, saperi specifici, che stanno nella nostra "memoria genetica" e che ogni madre trasmette, che lo voglia o no, alle figlie, e che deve funzionare come un "altro" principio ordinatore di un mondo che deve diventare bisessuale come è bisessuale la natura. 
Io, personalmente, credo che la sessualità abbia una percentuale di ambivalenza, di unicità, di neutralità che va recuperata, ma è un altro discorso. Questa diversità, non come oppressione, ma come storia, come giudizio diverso sulle cose, è qualcosa di nuovo e fa parte della società complessa. Anche se non entra nel "sistema" Luhmanniano, Luhmann non pensa certo alle donne, come a uno dei tanti sistemi, perché noi siamo molto più e molto meno di un gruppo sociale: siamo un sesso, siamo metà dell'umanità, quella che soprattutto riproduce la specie.
Insomma mi interessa ogni analisi della complessità sociale e della diversificazione dei bisogni che non parta da una mistificazione dell'idea di libertà politica e dell’ipotesi rivoluzionaria comunista. Uno può dirsi che è diventato liberale, è un suo diritto: ma non può' dire che chi ha pensato, sperato, lottato, sbagliato per un’idea di trasformazione sociale che renda gli uomini liberi, “free agents” in tutti i loro rapporti sociali, era qualcuno che voleva il loro appiattimento. Questa non è un'idea politica bensì una mistificazione storica ed i dibattiti politici possono cominciare solo quando si abbattono le mistificazioni

 

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