“Dramma e fiction nella letteratura della ex-Jugoslavia” è
un titolo che necessita assolutamente di qualche ulteriore precisazione. Le
precisazioni erano d’obbligo già quando la disgregazione della Jugoslavia non
era ancora avvenuta, perché, dal punto di vista letterario, si è sempre
parlato di letterature jugoslave al plurale. Immaginiamo quante precisazioni
sono necessarie ora che questo spazio è territorialmente,
politicamente, culturalmente e linguisticamente diviso ormai da molti anni. Le
guerre inter-jugoslave iniziano nel 1991 e questo, ovviamente, ha effetti,
seppur non meccanici né
automatici, anche nel campo letterario. Tanto più in una situazione nella quale
la questione della lingua è assolutamente cruciale e la battaglia per la
“purezza” della lingua accompagna il risveglio dei nazionalismi della
ex-Jugoslavia. Per queste “piccole nazioni” l’elemento distintivo di
identità e di riconoscimento è infatti proprio la lingua. Si tratta di piccoli
popoli: nel caso della Slovenia ciò è particolarmente chiaro, l’identità
slovena non è legata tanto a una formazione statale o a un territorio ma
alla lingua. Ci si presenta
così una situazione per certi versi paradossale, per certi versi tragicomica:
abbiamo delle lingue o delle aggregazioni
linguistiche che si scorporano. Quello che una volta era il serbo-croato, la
lingua che tutti parlavano in ex-Jugoslavia, ora si è scisso in serbo e croato,
nel caso della Bosnia è diventato il bosniaco. Per fare un esempio molto
semplice e banale, le nuove generazioni che vanno a scuola a Lubiana non
imparano più il serbo-croato. Si incontrano molte difficoltà nel parlare il
serbo-croato con i giovani che hanno dai quindici ai vent’anni che
preferiscono parlare l’inglese con chi, come
me, non conosce lo sloveno ma conosce il serbo-croato.
Un mutamento è in corso anche nel serbo e nel croato. Nel caso del serbo
la riforma della lingua è stata più facile da realizzare poiché è stato
sufficiente ritornare al cirillico per differenziarsi – infatti il cirillico
fa subito da barriera perché negli altri neo- stati
non si usa più e non si insegna più nelle scuole.
In questo panorama così vario e eterogeneo ho scelto il
percorso che il titolo stesso evoca. Le tematiche legate al tema sono però
davvero tante. Per esempio, mi è capitato di sfogliare ultimamente un libro
sulla nuova prosa bosniaca i cui autori sono nati tra gli anni Cinquanta e
Settanta. Oggi sono sparsi in tutto il mondo, producono una prosa ricca e
interessante e piena anche, per ovvi motivi, di cronache di guerra. Secondo
alcuni lo spazio culturale della Jugoslavia che fu si ritrova e rivive ormai
solo nelle pagine della letteratura.
Mi sarebbe piaciuto di
più intitolare il mio intervento
“La letteratura della ex-Jugoslavia tra fiction e faction”,
perché il messaggio sarebbe stato più immediato. In questo modo avrei
sottolineato di più il fatto che la fiction, in questo contesto, non può più
rimanere tale: il peso della realtà e della storia è troppo forte, impregna le
pagine letterarie, si deposita nelle coscienze e nella memoria, trasforma il
racconto della fiction in faction. Il
termine viene usato da Danilo Kiš, scrittore molto significativo per questa
area. Kiš appartiene alla cosiddetta generazione di mezzo:
nato poco prima della Seconda guerra mondiale, muore nel 1989. Poco prima
che cominciasse il conflitto Kiš viene accusato di plagio per il suo libro Leoni
meccanici, vengono addirittura fatti dei processi (fra le persone
che lo difendono c’è Predrag Matvejević). Il plagio consisterebbe nel
fatto che i racconti del libro attingono
a fatti reali. I “sette capitoli di una stessa storia” non sono altro che la
storia infinita di una persecuzione dove è continuo il rovesciamento tra
vittime e carnefici. Non bisogna dimenticare che Kiš era ebreo, e il padre e
numerosi parenti svanirono nelle camere a gas. La sua opera è centrale anche
per la riflessione sull’oggi; Kiš infatti è un modello per molti giovani
scrittori non nazionalisti. È un punto di riferimento ideale per gruppi di
ragazzi che decidono di disertare e scrivere poesie e manifesti ispirandosi
proprio a questa sua opera. Per quanto riguarda l’accusa di plagio, l’autore
stesso si era difeso sottolineando quanto fosse insensato accusarlo perché quel
rovesciamento tra vittime e carnefici che lui descrive è il destino di tutti, “é
il nostro destino e quindi segna anche la nostra letteratura”. Certo,
è un tema che rappresenta un leitmotiv di tutte le letterature dell’area, e
soprattutto di quella serba contemporanea attraversata dalla tensione, che ha
spesso un esito disperato, fra individuo e storia. Nel senso che l’individuo
cerca di sfuggire alla Storia che lo
insegue e rispetto alla quale egli è assolutamente impotente, ma non ci riesce
e la Storia ad un certo punto della sua esistenza lo raggiunge. E ciò accade
quasi sempre nella forma della guerra o di fenomeni violenti.
Quando si parla di
letterature jugoslave si citano sempre i tre grandi autori classici: Andrič,
Krleža e Crnjanski.
Andrič, nato nel 1892,
muore nel 1975, e viene sempre ricordato per il premio Nobel ricevuto nel
1961, l’unico premio Nobel per queste letterature. Krleža nasce nel 1893 e
muore nel 1981, ovvero l’anno dopo la morte di Tito, e proprio per il suo
funerale Krleža, anche se già molto malato, scrive un celebre discorso. Invece
Crnjanski nasce nel 1893, quindi nello stesso anno di Krleža, e muore
nel 1977.Insisto sulle date, perché per questa riflessione le date sono
fondamentali, non solo per la storia degli individui, ma anche per gli esiti letterari. Le date indicano il fatto
di aver vissuto una guerra, oppure di essere riusciti ad evitare un destino
storico che ha inseguito varie generazioni. Anche per quanto riguarda questi tre
autori e le loro vite, le date sono molto importanti.
Krleža nasce a Zagabria e allo scoppio della Prima guerra
mondiale viene mandato sul fronte della Galizia. Il testo che propongo è tratto
della raccolta Il dio Marte croato, che Krleža scrive al suo ritorno. Leggendoli, si percepisce
lo shock che la Grande guerra ha prodotto, shock dovuto anche al cambiamento
delle categorie di spazio e di tempo – sappiamo che la Grande guerra è
definita anche una “rivoluzione cubista”. Chi conosce i poeti italiani
dell’epoca, come per esempio
Jahier, ricorderà la figura ricorrente del contadino mandato a morire in
trincea senza sapere veramente né per chi combatte né perché deve andare
incontro a quella terribile fine condivisa con la
maggior parte dei soldati che hanno combattuto nella Prima guerra
mondiale. Le descrizioni di Krleža ricordano le grafiche di Otto Dix: Krleža
è uno scrittore che ha un profondo rapporto con la pittura, in quegli anni il
suo mondo poetico e visivo è espressionista.
Il passo iniziale del racconto
Il signor caporale di complemento Pesek Mato e i sei eroi di
questo nostro racconto, vivevano tutti da principio una vita silenziosa e amara
come la vivono milioni di uomini della nostra gente che soffrono da secoli nel
nostro fango
è emblematico ed esprime un concetto che torna spessissimo non
solo in Krleža: il fango della pianura della Pannonia, che come una sorta di
vampiro succhia le vite umane. Il
passo continua
e
ad ogni primavera e autunno tornano ad ararlo per poterne tirar fuori un
pugno o due di grano e mangiare una fetta di dolce di frumento fatto in casa per
Pasqua e per Natale, due chiari giorni, quando non si avverte sulla schiena il
carico quotidiano, e si deve solo dar da bere al bestiame nelle stalle e si fuma
e si sputacchia davanti alla chiesa tutta la mattina fino a mezzogiorno. Nella
secolare nebbia della servitù forzosa e del lavoro tributario, dell’imposta
sui camini e della colonia e delle legnate, in quella nebbia feudale che ancora
nell’anno millenovecentoquattordici sotto il governo di Francesco Giuseppe
Primo continuava a stendersi sul nostro villaggio come un mesto velo, tutti i
nostri eroi sentivano quella loro vita come una cosa ancora creata dal Signore
Iddio, e anche il loro nonno e bisnonno (sia detto senza loro colpa) vivevano a
questo modo e allora che motivo c’è di porsi dei pensieri e, soprattutto, che
cosa ci si può fare?
Fino alla fine della sua lunga vita, così ricca di avvenimenti
da rappresentare a tutti gli effetti
un pezzo di storia del Novecento nei Balcani, Krleža verrà sempre
considerato dal potere comunista una sorta di
scomodo compagno di strada. Dal passo appena citato si intuisce subito
che si tratta di uno scrittore con una forte impronta, oggi diremmo, pacifista.
Krleža aderisce al Partito comunista e negli
anni Trenta verrà perseguitato per questo e
le sue opere di quel periodo sono quasi tutte sottoposte alla censura e
messe al bando. Durante la Seconda guerra mondiale vive in uno stato di
continua paura, a tratti di vero terrore, nella Zagabria occupata dagli ustascia.
Praticamente sta chiuso in casa,
perché ha paura di uscire. Tiene un diario pieno di spunti di grande
attualità, come nelle pagine incentrate sull’analisi del
rapporto tra i mass-media e la guerra. Affronta il tema sperimentando in
prima persona il modo in cui le notizie diffuse dalla radio penetrano nella sua
quotidianità e soprattutto nei suoi sogni,
e ci regala pagine
estremamente premonitrici. Krleža è considerato un vigliacco a causa di questo
suo rintanarsi nella propria abitazione, e teme tanto gli ustascia quanto i
comunisti, pur essendo egli stesso comunista. Infatti non si unisce ai
partigiani perché teme rappresaglie
a causa dell’atteggiamento critico che ha sempre mantenuto. Sembra che a
salvarlo sia stata proprio l’amicizia personale con Tito. Infatti, dopo la
guerra, diventerà uno degli intellettuali (quasi) ufficiali del sistema di
potere comunista, sottolineo
il “quasi” poiché le sue posizioni saranno comunque fino alla fine quelle
di un intellettuale impegnato ma critico. Oggi, in Croazia, i libri di Krleža
sono praticamente scomparsi dalle librerie; data la sua identificazione con
quelli che erano gli ideali della Jugoslavia di Tito, viene considerato
politically uncorrect. Questo è piuttosto assurdo alla luce degli eventi che
hanno caratterizzato la sua vita negli anni Settanta, anni in cui Krleža
rinuncia alla sua carica all’interno del Comitato centrale e firma il
manifesto per il rinnovamento della lingua croata, mostrando in questo modo
tutto il suo sostegno per il movimento nazionalista croato, fatto che gli creerà
non pochi problemi all’interno della Lega dei comunisti.
C’è un altro personaggio che trascorre gli stessi anni della
guerra chiuso nella propria abitazione, questa
volta a Belgrado. Si tratta dell’altro grande scrittore della letteratura
jugoslava, Ivo Andrič. È una
figura completamente diversa da Krleža, un personaggio di cui in questi anni si
è parlato spesso, anche in Italia, sia a proposito che a
sproposito.
Andrič nasce in Bosnia, vicino a Travnik e dedica la
maggior parte dei suoi scritti, compresa la tesi di laurea, alla situazione
della sua terra d’origine, in particolare al periodo storico della dominazione
ottomana. Aderisce al movimento “La Giovane Bosnia”, composto nella maggior
parte da serbi. In questi ultimi anni è stato oggetto di revisionismi storici,
di critiche, il suo monumento è stato anche danneggiato. Si può dire che è
una figura molto contesa da tutte le parti in causa e, avendo lui scritto
moltissimo sulla Bosnia, basti pensare ai Racconti
di Bosnia o a Il Ponte
sulla Drina, è stato spesso riletto secondo una chiave politica. Andrič,
che è stato un diplomatico della monarchia jugoslava, per una serie di
contingenze finisce a Belgrado dove passa gli anni della guerra, e scrive le
sue tre opere più importanti per le quali poi gli verrà assegnato il
premio Nobel. Il racconto che ho scelto, perché mi pare esemplare della sua
opera, è I ponti, tratto dalla
raccolta I racconti di
Bosnia. E’ un racconto, se vogliamo, anche scontato, essendo il ponte una
metafora ricorrente nella letteratura di Andrič, però bisogna ricordare
sempre che il ponte è anche una struttura fisica, una costruzione reale, molto
importante per la Bosnia, una terra ricca di fiumi, impercorribile senza i
ponti. Infatti, la prima cosa che si distrugge durante la guerra, in quest’ultima
così come nelle precedenti, sono i ponti. Notiamo questo slittamento dalla
letteratura alla realtà e viceversa. Il ponte, originariamente semplice
struttura necessaria per attraversare i fiumi, diventa il personaggio principale
di questo racconto del 1963. A distanza di decenni, ecco il ponte che di nuovo
ridiventa realtà nel caso del
ponte di Mostar abbattuto nel 1994.
Andrič aveva viaggiato molto, e ciò che lo colpiva di più
durante i viaggi erano proprio i ponti. Scrive:
Quando penso ai ponti,
mi vengono in mente non quelli che ho attraversato più spesso, ma quelli su cui
mi sono soffermato più a lungo, che hanno attirato la mia attenzione e fatto
spiccare il volo alla mia fantasia.
I
ponti di Sarajevo prima di tutto. Sul fiume Miljacka, il cui letto è una sorta
di sua spina dorsale, rappresentano vertebre di pietra: Li vedo e li posso
contare uno a uno. Conosco le loro arcate, ricordo i loro parapetti. Fra di loro
ce n’è uno che porta il nome fatale di un ragazzo, un ponte minuscolo ma
eterno che sembra ritiratosi in se stesso, una piccola e accogliente fortezza
che non conosce né resa né tradimento.
Poi
ponti visti nei viaggi, di notte, dai finestrini dei treni, sottili e bianchi
come fantasmi. (…)
Ed ecco che ritroviamo di nuovo un ponte diventato luogo di
tragici avvenimenti in tempi recenti, il ponte che divideva la parte assediata e
la parte serba, ed è stato uno dei simboli di quell’assedio.
Il racconto prosegue:
Così,
ovunque nel mondo il mio pensiero vada e si arresti, trova fedeli e operosi
ponti, come eterno e mai soddisfatto desiderio dell’uomo di collegare,
pacificare e unire insieme tutto ciò che appare davanti al nostro spirito, ai
nostri occhi, ai nostri piedi, perché non ci siano divisioni, contrasti,
distacchi... (…)
E termina con questo passo:
E
infine, tutto ciò che questa nostra vita esprime - pensieri, sforzi, sguardi,
sorrisi, parole, sospiri- tutto tende verso l’altra sponda, come verso una
meta, e solo con questa acquista il suo vero senso. Tutto ci porta a superare
qualcosa, a oltrepassare: il disordine, la morte o l’assurdo. Poiché, tutto
è passaggio, è un ponte le cui estremità si perdono nell’infinito e al cui
confronto tutti i ponti di questa terra sono solo giocattoli da bambini, pallidi
simboli. Mentre la nostra speranza è su quell’altra sponda.
Siamo di fronte a
un testo letterario che può però essere letto come un manifesto politico. Per
i lettori italiani questo passo di
Andrič non ha particolari valenze politiche, perché siamo tutti, almeno
formalmente, d’accordo con i
principi da lui espressi in questo racconto e in generale nelle sue opere, ma
bisogna pensare alla valenza che può assumere oggi, in un contesto in cui
abbiamo per esempio il Kosovo nel quale le
città sono divise, come da un muro, dai ponti o da altre strutture
simili, oppure la città di Mostar
dove, anche se il ponte fisico è stato parzialmente
ricostruito, la divisione tra le due sponde rimane irreparabile. Leggere oggi
questa pagina di Andrič e condividere il suo pensiero significa essere di
una certa idea politica. Della stessa idea politica sono anche quegli scrittori
che hanno ripreso oggi alcuni temi centrali di Andrič. E’ il caso di uno
scrittore di Sarajevo, Dževad Karahasan, che
in un suo scritto intitolato Elogio
delle frontiere, sottolinea come l’individuo riesca a cogliere la propria
essenza solo attraverso
l’incontro con l’Altro. Questo tema, anche filosofico, viene riportato da
Karahasan nel contesto a lui vicino, quello delle frontiere geografiche e della
divisione che ne deriva.
Per quanto riguarda l’uso scorretto di Andrič, il
problema è sorto dall’interpretazione volutamente esagerata di alcuni suoi
testi. Uno di questi è Lettera del 1920,
che descrive l’ultimo incontro alla stazione di due amici dopo la fine della
prima guerra mondiale. Uno ha deciso di partire, l’altro di rimanere in
Bosnia. Quello che sta partendo pronuncia alla fine del racconto una frase che
suona più o meno così e che ha dato il via a
numerose interpretazioni superficiali:
Tuttavia, se dovessi proprio dare un nome a ciò che mi spinge a fuggire dalla
Bosnia, direi: l’odio. Questa frase è stata spesso citata come fosse il
centro dell’analisi storica e politica di Andrič. Credo che questo
rappresenti un grande problema interpretativo, poiché non dobbiamo mai
confondere i diversi piani del discorso, bisogna distinguere la letteratura
dalla storia. Una cosa, infatti, è dire che questa letteratura “gronda”
storia, un’altra leggere singole frasi come se si trattasse di dichiarazioni
politiche pronunciate ora. Certo, colpisce il fatto che i grandi scrittori del
passato sembrano capaci di parlarci della situazione storica e politica con
maggiore efficacia di numerose
analisi sociologiche o storiche (locali).
Affinché si possa fare un confronto, introduco il terzo
scrittore classico della letteratura jugoslava, Miloš Crnjanski. Scrittore
belgradese, anche lui come Andrič un diplomatico della monarchia jugoslava,
anche se in perenne contrasto e lotta con quelle che oggi chiameremmo
istituzioni. Trascorre, infatti, l’epoca comunista in
una sorta di esilio, a Londra. Le sue opere, però, non sono proibite, e
a Londra scrive una delle sue opere più belle, Il
romanzo di Londra, purtroppo non tradotta in italiano. Torna a Belgrado poco
prima di morire. In italiano sono tradotte invece le monumentali Migrazioni I e Migrazioni II.
Vorrei citare le frasi che chiudono
Migrazioni II:
(il contesto storico è la fine del Seicento)
Gli anni passano, oggi come ieri,
passa l’estate e le foglie cadono, e presto tutto verrà ricoperto dalla neve.
Ma in primavera il Dnepr convoglierà di nuovo allegramente le sue acque,
attraverso questa terra di morti, fino al mare, fra i canti e le danze dei vivi.
Gli
anni si succederanno. Chi potrà contare gli uccelli migratori o i raggi del
sole che si spostano da est a ovest, da nord a sud? Chi potrà pronosticare
quali popoli migreranno, e dove, nei prossimi cento anni, così come ha migrato
la nazione serba? Chi potrà contare i semi di frumento che germineranno nella
prossima primavera in Europa, in Asia, in America, in Africa?
Tutte
cose impossibili per la mente umana,
Là
dove gli Isakovič e il Soldatenvolk serbo arrivavano portandosi dietro,
come le chiocciole, la loro casa sulle spalle, non c’è più traccia di loro,
tranne due o tre nomi di località.
Sempre
vi furono e sempre vi saranno le migrazioni, così come vi saranno sempre le
nascite a continuare la vita..
Le
migrazioni esistono.
La
morte non esiste!
Per la presenza del tema delle migrazioni e
del mito del “popolo celeste”, quello serbo, oggi si è tentati di
leggere queste pagine pensando soprattutto alla
situazione attuale. Sembra di capirne di più anche per la presenza in
quest’opera di un altro elemento: la guerra. I soldati serbi e croati devono
combattere in nome delle grandi potenze, come la Francia e l’Austria. Infatti
i serbi ed i croati vengono usati per secoli dai diversi imperi come i soldati
più fedeli, i migliori e i più resistenti. Tra l’altro, la maggior parte di
questi soldati abitavano tradizionalmente nella regione della Vojna Krajina, il
Confine Militare istituito dagli asburgici, considerato come l’antemurale
della cristianità rispetto al pericolo turco, ed è proprio la zona intorno a
Knin quella dove comincia la guerra nel 1991. Resta il fatto che il tema cardine
dell’opera sono, per l’appunto, le migrazioni. Questo è un elemento storico
di questa terra, fondamentale anche per la storia più recente. Dopo il 1945
nel territorio jugoslavo è avvenuto un enorme spostamento della
popolazione, il maggiore che si sia avuto in Europa. E per le sue dimensioni è
un fenomeno abbastanza singolare, ancora in gran parte da studiare. Oggi, come
risultato dell’ultimo conflitto avvenuto in ex-Jugoslavia, abbiamo un’altra
migrazione drammatica della
popolazione, il pellegrinaggio eterno dei profughi. Ecco allora che, anche con
Crnjanski, si è colti dalla tentazione di leggere le sue opere alla luce dei
fatti odierni.
I tre autori appena citati sono i tre classici del Novecento di
questa letteratura e sono,
casualmente, uno serbo, uno croato e uno, tralasciando la sua eredità contesa,
bosniaco.
C’è un’altra generazione , quella nata tra gli anni Venti
e Trenta, alla quale appartengono figure molto importanti. Uno di questi è Tišma,
autore molto interessante. Tišma nasce nel 1924 a Oros, in Vojvodina, una
regione della Serbia che confina con l’Ungheria. Infatti quello della
frontiera è un tema molto presente nelle sue opere. Tišma arriva a dire
addirittura una frase del genere “Senza una frontiera io
non sarei mai nato”. Anche lui, come Kiš, è di famiglia ebrea, vive
un periodo molto difficile durante il comunismo perché è l’esempio tipico
dell’intellettuale non schierato, e per questo non riesce ad avere i documenti
e ha vari problemi. I temi intorno
ai quali ruota tutta la sua produzione letteraria sono il
senso di colpa del sopravvissuto e il
rovesciamento continuo tra vittima e carnefice. Per esempio, in un suo
libro racconta la storia di una vittima per eccellenza, ovvero un
ebreo reduce dal campo di concentramento, a cui, una volta tornato in
città, viene assegnato un appartamento nel quale vivono già altre persone, le quali non necessariamente sono state dei carnefici durante
la guerra. Egli caccia via queste persone e in questo modo innesca quel
meccanismo del rovesciamento e costringe il lettore alla riflessione. Un altro
tema del quale Tišma è uno specialista e che affronta in moltissimi suoi
romanzi, è quello del gusto dell’uccidere. Nei suoi romanzi, definiti da
alcuni “realisti” e da altri “antropologici”, Tišma si interroga
sull’essere dell’uomo nelle situazioni estreme, quando è un dettaglio a
decidere la vita o la morte, quando la morte del vicino significa la propria
salvezza, quando i molti tacciono e i pochi reagiscono. I temi trattati - il
senso di colpa, il rovesciamento di ruoli tra vittima e carnefice, il gusto di
uccidere - farebbero supporre un tono grave e angosciante, ma è così solo in
parte. Non dobbiamo dimenticare la notevoli capacità narrative di Tišma che
fanno sì che la narrazione sia estremamente appassionante e intensa.
Di poco più anziano di lui è Bora Ćosić. E’ uno
scrittore di cui in italiano è stato tradotto un solo libro,
Il ruolo della mia famiglia nella rivoluzione mondiale, uno dei rari testi
comici. Si tratta di una sorta di quaderno di appunti di un ragazzo nel quale
viene descritta la Belgrado prima della Seconda guerra mondiale, e poi quella
che segue, la Belgrado comunista. E’ la storia vista dal basso, filtrata dallo
sguardo di un ragazzino. La particolarità di Ćosić sta soprattutto
nell’ironia che attraversa il romanzo e che pone su basi “surreali”, e non
tragiche, il rapporto tra la grande Storia e la storia individuale.
Questo elemento è, invece,
molto presente nella letteratura ceca, per esempio in Kundera. È celebre l’episodio di un suo romanzo, riassunto poi
dall’espressione “La marmellata di pere o il socialismo”, in cui si narra
della situazione vissuta dal protagonista durante l’invasione sovietica.
Proprio quel giorno lui va fuori porta perché era quello il giorno in cui le
sue zie facevano la marmellata di pere. Quando la mattina dopo bussano alla sua
porta e lo informano dell’ingresso dei carri armati russi a Praga, il
protagonista risponde: “ Sì, ma io sono qui e sto facendo la marmellata di
pere”.
Ćosić è uno dei pochi autori jugoslavi che affronta
con toni simili questo stesso tema.
Un altro autore che non posso fare a meno di ricordare e di cui
in italiano è stato tradotto un solo libro, La
vita di Malvina Trifković,
è Mirko Kovač. Ci tengo in modo particolare a nominare questo libro perché
è uno dei pochissimi libri di questa letteratura che ha per protagonista un
personaggio femminile. Il titolo del brano scelto
è già molto interessante: “L’odio
incontenibile come ragione di rottura
del matrimonio”. Il brano è significativo per il quadro sociale che
delinea e per l’analisi dell’animo femminile che ci regala, elemento
estremamente raro in questa letteratura.
Cara
Katarina - Approfitto dell’occasione per ricordarmi in questa circostanza
della rottura del matrimonio fra la serba Malvina Trifković, di religione
ortodossa, e Tomislav Parčić, croato, di confessione cattolica romana,
che viene annullato per ragioni di incontenibile odio e ripugnanza fra i
coniugi, che ai sensi di legge viene chiamata Abneigung.(…) Peraltro non viene
richiesto che l’incontenibile avversione debba essere reciproca (Wechselseitig),
cioè che il marito e la moglie si odino nella stessa misura, mentre è
sufficiente che uno dei due odi l’altro pur non nutrendo l’altro in sé
alcun analogo sentimento. Perciò questa avversione non doveva essere in alcun
modo dimostrata, come invece sembrano richiedere le disposizioni canoniche della
chiesa ortodossa. E del resto, diciamo la verità, Katarina, quest’odio non
sarebbe neppure tale se potesse in qualche modo essere dimostrato, esso rientra
sostanzialmente nell'ambito di quelle cose inconcepibili e preesisteva al
momento in cui venne contratto il vincolo matrimoniale fra i coniugi, e il
matrimonio non ha potuto che farlo venire alla luce del sole, visto che noi
siamo afflitti da tali sentimenti solo fino a che essi restano allo stato
inconscio, mentre nel momento in cui riusciamo a trovarne le cause che li
riconducano nell’ambito delle questioni tangibili, ebbene proprio in quello
stesso istante la bellezza di quest’odio viene meno e svanisce.(…)
Un altro scrittore di questo gruppo, serbo anche lui come i due
precedenti, è Borislav Pekić, di cui in italiano è stato tradotto un
libro di non facile lettura: Come placare
il vampiro. Anche lui ha una posizione non proprio anticomunista, ma
sicuramente di non adesione, di presa di distanza dal potere. Infatti
vive a Londra e lavora per la BBC: anche lui torna a Belgrado poco prima di
morire, pochi anni fa. Cito un passo del libro molto significativo, poiché qui
abbiamo di nuovo l’individuo
davanti al quale si presenta il compito di placare il vampiro:
Il
passato è un vampiro ed il vero problema consiste nel placarlo. L’uomo non ha
una terza possibilità: o gli conficca una paletta nel cuore o il suo sangue
verrà ben presto succhiato.
La generazione successiva, nata durante o dopo la Seconda
guerra mondiale, sviluppa un tipo di letteratura che, pur trattando questi temi
che sono una sorta di inevitabile leitmotiv, non vuole più essere impegnata.
Sappiamo che durante il comunismo, pur con tutte le differenze interne al caso
jugoslavo, si insiste sul fatto che lo scrittore lanci attraverso i suoi libri
dei messaggi chiari e forti. Questa generazione - alla quale appartiene anche
Danilo Kiš che è nato nel 1939 - dichiara di non volere che la letteratura abbia necessariamente un messaggio politico
chiaro e preciso. Segue a questa presa
di posizione una produzione letteraria molto più vicina a noi, potremmo
definirla “disimpegnata”. Un altro fenomeno è la nascita della scrittura
femminile, in italiano è stato tradotto Seta,
forbici di Irene Vrkljan, il primo libro che può essere definito come prosa
femminile. Appartiene a questo filone anche
Slavenka Drakulić, giornalista e scrittrice nata nel 1949, molto
nota in Italia, della quale sono state tradotte
quasi tutte le opere. Ci sono anche
altre scrittrici che si richiamano a questo filone, delle quali ricordo
una in particolare, anche lei di Zagabria, Dubravka Ugresić.
Segue, tra gli anni Sessanta e Settanta, il fenomeno della
cosiddetta “prosa in jeans”. Ciò che caratterizza questa nuovo fenomeno
letterario è il totale disinteresse per le grandi tematiche che
ho citato e che sono state invece il nucleo della letteratura precedente.
E’ una prosa che fugge e rifugge da queste tematiche. Siamo di fronte ad un
rifiuto assoluto di tutto quello che ha a che fare con la guerra, con la
politica. Si tratta di un rifiuto anche generazionale, perché quella era la
storia dei loro padri, e si tratta
anche di un rifiuto politico da parte di una generazione profondamente apolitica
che ha voglia di costruire i propri libri intorno alle realtà urbane, intorno agli amori che nascono
in queste realtà, intorno ai concerti dei Rolling Stones, ai viaggi
all’estero, alle fughe in India. Questa generazione mostra una profonda volontà
di rottura rispetto al passato e alle tematiche che caratterizzavano la
letteratura del passato. Questo è anche il periodo in cui la vicinanza con
tutto quello che viene dall’Occidente è molto forte in tutta la ex-Jugoslavia.
Basti pensare al fatto che i film americani della fine degli anni Settanta e
degli anni Ottanta arrivano prima a
Zagabria e Belgrado che a Milano, o
al fatto che nelle librerie si
trovano tutti i libri delle classifiche occidentali; infine si deve anche
ricordare il fatto che l’inglese è una lingua molto diffusa. Ci troviamo di
fronte ad una realtà per la quale un punto di riferimento molto importante è
rappresentato dagli USA, più che dagli altri paesi dell’Occidente. (A questo
proposito è significativo ricordare la battuta pronunciata da un ragazzo di
Belgrado durante i raid aerei della Nato:” A casa ho solo magliette con slogan
e scritte americane, per uscire oggi che cosa mi metto?”)
Vorrei terminare con una riflessione sul periodo più recente e
sull’oggi. Per gli anni Ottanta si usa l’espressione apocalyptic
culture, perché tutto quello che prima sembrava sicuro e certo, non solo
nella tradizione politica ma più in generale, viene azzerato. Quello che una
volta si presentava con i colori rosa confetto, ora si presenta a tinte fosche.
Poi c’è la guerra e non è un caso che per
trovare delle pagine che ci parlino di quello che accade dobbiamo di nuovo
tornare indietro. Infatti da questo punto di vista ci parlano di più le pagine
di Tišma, di Krleža o di
Crnjanski. In questo nuovo contesto la cosiddetta “prosa in jeans”
ammutolisce. Infatti, in questi dieci anni molti scrittori non hanno scritto più
nulla, molti altri si sono espressi nella forma del diario, molto diffusa,
oppure scrivono cronache di guerra. Alcuni dicono che queste sono guerre dei
padri contro i figli, perché i figli
non avrebbero immaginato nemmeno nel peggiore dei loro incubi di poter
assistere ad un’altra guerra nel corso delle loro vite, essendo cresciuti in
un’epoca di pace, in una
Jugoslavia uscita dalla Seconda guerra mondiale con un bilancio pesantissimo di
vittime. Invece, si trovano
improvvisamente trascinati dai banchi di scuola, dalle aule universitarie, dai
vari Mac Donald’s, verso una nuova guerra e spediti nel “fango pannonico”.
Questa volta senza nemmeno avere gli ideali dei padri.
Per capire l’importanza di questo elemento, basti pensare al
fatto che, durante la Seconda guerra mondiale, in Jugoslavia c’era la
possibilità di fare una scelta politica: come un italiano poteva scegliere se
arruolarsi con i partigiani o
essere del partito fascista, così anche un croato o un serbo o una persona di
famiglia mista
poteva decidere se stare con i partigiani o con gli ustascia o, nel caso
dei serbi, con i cetnici, oppure non prendere nessuna posizione, rimanere
insomma in “zona grigia”. La scelta questa volta non è stata possibile, in
quanto la provenienza, il legame familiare o semplicemente il luogo di residenza
hanno segnato l’appartenenza e, automaticamente, uno schieramento politico.
L’individuo, nella maggior parte dei casi, non ha avuto alcuna scelta: dalla
sera alla mattina si è ritrovato , come scrive Slavenka Drakulić,
“inchiodato alla nazionalità”. Per questo motivo abbiamo delle situazioni
estreme, come quella di alcuni intellettuali ma anche di molte persone comuni
che inorridiscono di fronte alle persecuzioni che i “nostri” infliggono agli
“altri”. Tutte queste persone sono considerate “traditori” della loro
nazione. E se pensiamo alla Serbia, bisogna sempre ricordare l’altissimo
numero di persone che hanno lasciato questo paese proprio per gli stessi motivi,
per impossibilità di scelta politica.
Gli scrittori che fanno parte di questa generazione che di
nuovo si trova nel “fango pannonico”, danno alla luce opere nelle quali
ritroviamo alcuni motivi di quella prosa impegnata, caratteristica della
letteratura del passato. Si tratta, ovviamente, di scrittori non nazionalisti, e
il caso più significativo è quello di Miljenko Jergović di Sarajevo,
autore di Le Marlboro di Sarajevo e I
Karivan. Questo autore, giovanissimo, nato alla fine degli anni Sessanta, è
notissimo a Sarajevo. Scrive di rock, di cinema, usa un
codice linguistico molto gergale, giovanile, e attraverso la guerra, di
fatto, si trova a riscoprire
l’impegno. Così come l’ha riscoperto anche Karahasan. Nel suo libro Il
centro del mondo descrive il dialogo
con un amico francese venuto a trovarlo durante l’assedio. Il tema del dialogo
è espresso in modo esplicito nel momento in cui l’autore dice una cosa del
tipo: siamo ormai diventati un fenomeno estetico che il mondo intero osserva. E
si chiede: noi, dove abbiamo sbagliato? Forse nel non aver combattuto abbastanza
contro certe tendenze nella cultura e nell’esserci illusi che la letteratura,
e quindi l’arte, fosse solo un fenomeno estetico e non avesse un peso etico.
Noi abbiamo rifiutato talmente quello che ci volevano imporre, una letteratura
impegnata e con chiari messaggi politici, da preferire altre correnti
letterarie, francesi soprattutto. Così anche noi abbiamo perso
il senso del nostro fare intellettuale. Emblematico è il brano che
segue:
Vengo da un paese distrutto.
Quindici anni fa avrei considerato una tale
dichiarazione impossibile o almeno insensata all’inizio di un discorso sulla
letteratura, perché prendevo sul serio i vari formalismi, strutturalismi,
costruttivismi, decostruttivismi e altri innumerevoli –ismi con cui mi sono
confrontato nel corso della mia formazione: li avevo presi sul serio e mi ero
convinto che la letteratura crea “forme pulite”, che non ha rapporto con
l’immediatezza della realtà, che è del tutto indifferente quel che si
racconta perché è importante solo come si racconta, che il materiale è
funzione della forma e che solamente in quanto tale lo si deve prendere in
considerazione, mentre le tesi che interpretano l’opera d’arte in base ai
suoi contenuti sono basse insinuazioni di un pensiero ideologizzato che è ormai
sconveniente persino deridere.
Lavorando con gli studenti, lavorando sui
miei testi, cercando di comprendere la letteratura sia dall’esterno sia
dall’interno, mi sono convinto di aver avuto torto perché la letteratura ha
rapporto, eccome con la realtà data e ha anche grandi responsabilità circa il
comportamento degli uomini in questa realtà data. L’opera letteraria si
costruisce con due tipi di materiale: con la lingua e con il materiale
metalinguistico costituito di sensazioni, pensieri, avvenimenti, che
caratterizzano personaggi e azioni, da quell’insieme di fatti determinanti che
segnano i comportamenti, le convinzioni, il vissuto del mondo dei personaggi, la
natura, l’andamento e le leggi interne degli avvenimenti, e che ne rendono così
logico e necessario il risultato finale, l’esito ultimo. Il complesso dei
fattori che determinano il comportamento di un personaggio non può essere
ridotto solo all’insieme delle sue motivazioni. L’opera letteraria è fatta
di materiale, forma, contenuto e funzione (che sono ugualmente importanti, si
determinano reciprocamente e, si potrebbe quasi dire, nascono l’uno
dall’altro). Ciascuna di queste dimensioni dell’opera articola il senso
e crea i valori o almeno, grazie alla natura della conoscenza estetica,
determina il modo in cui gli uomini vivono i valori, regolando così anche il
loro comportamento nella realtà. Il che significa che l’opera è legata, a
diversi livelli e in diversi modi, al vissuto dell’uomo nella realtà
quotidiana e al suo modo di agire in essa.
Infine vorrei ricordare dei testi di particolare interesse per
i giovani. Due libri che io
consiglierei ai ragazzi di leggere sono Non
è la mia guerra di Vladimir Jokanović e Sottocoperta
di Vladimir Arsenijević. I due autori hanno in comune vari elementi.
Entrambi nella vita facevano tutt’altro. Arsenijević per esempio lavorava
in un’agenzia di viaggi. In Non è la
mia guerra Jokanović racconta come un normalissimo ragazzo serbo di
Osijek, città vicino a Vukovar, impercettibilmente, viene trascinato dalle
sbronze giovanili nel vortice della guerra, ovvero sul fronte di battaglia.
Arsenijević vince il NIN, un premio molto prestigioso in
Jugoslavia. Scrive questo libro tra il 1993-94,
gli anni peggiori per Belgrado, città che anche se non è stata fino a
quel momento fisicamente toccata dalla guerra, ha avuto il suo pesante bilancio
quotidiano di morti e feriti su un imprecisato fronte. Arsenijević descrive
una Belgrado in cui i protagonisti del romanzo dormono ogni notte in un altro
posto perché temono l’arrivo della cartolina di convocazione dall’esercito.
Moltissimi sono i fatti che avvengono dalla mattina alla sera, nel libro,
accompagnati da questo stato di ebbrezza, come in tutte le guerre, e in questo
caso è ebbrezza da alcol e da ogni tipo di sostanza.
Belgrado rimane in questa situazione
fino ai bombardamenti della Nato. L’eroe, o per meglio dire
l’antieroe di questo romanzo, non fa niente per cambiare questa situazione e
trascina anche la moglie in questo stato di sospensione in cui si fa sesso e si
sniffa per sfuggire alla realtà. Anche Arsenijević, pur non essendo
scrittore di professione, riesce a dare quest’idea della guerra come qualcosa
da cui si cerca di sfuggire, la
guerra come qualcosa di avvicinabile ad un fenomeno naturale al quale si sfugge
per puro caso. Nel libro di
Arsenijević non succede nulla di drammatico, l’autore riesce però a
rappresentare la vita di quella che si autodefinisce la “gioventù perduta”
di Belgrado.
Bibliografia:
AA.VV., Accadde a
Sarajevo. Storie di una vicina storia, (a cura di N. Janigro), Edizioni
Scolastiche B.Mondadori, Milano 1996.
AA.VV., Dizionario del
paese che scompare (a cura di N.Janigro), il manifesto libri, Roma 1994.
Ivo Andrič, Racconti
di Bosnia, a cura di D.Badnjević Orazi, Newton Compton, Roma 1995.
Vladimir Arsenijević, Sottocoperta,
Mondadori, Milano 1997.
Bora Ćosić, Il
ruolo della mia famiglia nella rivoluzione mondiale, trad. di N.Janigro,
edizioni e/o, Roma 1996.
Miloš Crnjanski, Migrazioni
I, trad. di L.Costantini, Adeplhi,
Milano 1992.
Miloš Crnjanski, Migrazioni
II, trad. di L.Costantini, Adelphi, Milano 1998.
Slavenka Drakulić, Balkan Express, trad. di I.Vay, il Saggiatore, Milano 1993.
Slavenka Drakulić, Come se io non ci fossi, trad. di M.R.Leto, Rizzoli, Milano 2000.
Miljenko Jergović, Le Marlboro di Sarajevo, trad. di L.Avirovic, Quodlibet, Macerata
1995.
Miljenko Jergović, I
Karivani, trad. di L.Avirovic, Einaudi, Torino 1997.
Vladimir Jokanović, Non
è la mia guerra, trad. di D. Badnjević Orazi, Guanda, Parma 1999.
Dževad Karahasan, Il
centro del mondo, a cura di N.Janigro, il Saggiatore, Milano 1995.
Dževad Karahasan, Elogio
della frontiera, in MicroMega, 5/95.
Danilo Kiš, I leoni
meccanici, trad. di M.Suffada, postfazione di N.Janigro, Feltrinelli, Milano
1990.
Mirko Kovač, La vita
di Malvina Trifković, trad. di S.Ferrari, Anabasi, Milano 1994.
Miroslav Krleža, Il dio
Marte croato, trad. di S.Ferrari, Edizioni Studio Tesi Pordenone, 1982.
Borislav Pekić, Come
placare il vampiro, trad. di A.Parmeggiani, De Martinis & C, Milano
1992.
Aleksandar Tišma, Il
libro di Blam, trad. di I.Olivari Venier, Feltrinelli, Milano 2000.
Conversazione tenuta presso la Fondazione "Serughetti La
Porta" il 9 dicembre
1999.
Registrazione rivista dall’Autrice.
L’assurdo è che i
giornali e le riviste in cirillico appaiono in caratteri latini via
internet.
in Miroslav Krleža,
La battaglia di Bistrica Lesna, in Il dio Marte croato, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1982, pag.
29-30
in Ivo Andrič, Racconti
di Bosnia, Newton Compton, Roma, 1995, pag. 157
in Miloš Crnjanski, Migrazioni
(II), Adelphi, Milano, 1998, pag. 868
in Mirko Kovač, La
vita di Malvina Trifković, Anabasi, Milano, 1994, pag.36,37
in Dževad Karahasan, La
guerra, la religione, l’arte, in Il
centro del mondo, a cura di N.Janigro, il Saggiatore, Milano 1995, pag.81,82
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