ciclo di incontri - Novembre 1999
Quaderno n. 77
Un'idea di Europa: scenari possibili per l'Europa dopo l'ottantanove
Nazioni e nazionalismi
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Letteratura e storia: il caso dei Balcani fra fiction e dramma

Nicole Janigro
 

“Dramma e fiction nella letteratura della ex-Jugoslavia” è un titolo che necessita assolutamente di qualche ulteriore precisazione. Le precisazioni erano d’obbligo già quando la disgregazione della Jugoslavia non era ancora avvenuta, perché, dal punto di vista letterario, si è sempre parlato di letterature jugoslave al plurale. Immaginiamo quante precisazioni sono necessarie ora che questo spazio è  territorialmente, politicamente, culturalmente e linguisticamente diviso ormai da molti anni. Le guerre inter-jugoslave iniziano nel 1991 e questo, ovviamente, ha effetti, seppur non  meccanici né automatici, anche nel campo letterario. Tanto più in una situazione nella quale la questione della lingua è assolutamente cruciale e la battaglia per la “purezza” della lingua accompagna il risveglio dei nazionalismi della ex-Jugoslavia. Per queste “piccole nazioni” l’elemento distintivo di identità e di riconoscimento è infatti proprio la lingua. Si tratta di piccoli popoli: nel caso della Slovenia ciò è particolarmente chiaro, l’identità slovena non è legata tanto a una formazione statale o a un territorio ma  alla  lingua. Ci si presenta così una situazione per certi versi paradossale, per certi versi tragicomica: abbiamo delle lingue o delle  aggregazioni linguistiche che si scorporano. Quello che una volta era il serbo-croato, la lingua che tutti parlavano in ex-Jugoslavia, ora si è scisso in serbo e croato, nel caso della Bosnia è diventato il bosniaco. Per fare un esempio molto semplice e banale, le nuove generazioni che vanno a scuola a Lubiana non imparano più il serbo-croato. Si incontrano molte difficoltà nel parlare il serbo-croato con i giovani che hanno dai quindici ai vent’anni che preferiscono parlare l’inglese con chi,  come me, non conosce lo sloveno ma conosce il serbo-croato.  Un mutamento è in corso anche nel serbo e nel croato. Nel caso del serbo la riforma della lingua è stata più facile da realizzare poiché è stato sufficiente ritornare al cirillico per differenziarsi – infatti il cirillico fa subito da barriera perché negli altri neo- stati  non si usa più e non si insegna più nelle scuole.[1]

In questo panorama così vario e eterogeneo ho scelto il percorso che il titolo stesso evoca. Le tematiche legate al tema sono però davvero tante. Per esempio, mi è capitato di sfogliare ultimamente un libro sulla nuova prosa bosniaca i cui autori sono nati tra gli anni Cinquanta e Settanta. Oggi sono sparsi in tutto il mondo, producono una prosa ricca e interessante e piena anche, per ovvi motivi, di cronache di guerra. Secondo alcuni lo spazio culturale della Jugoslavia che fu si ritrova e rivive ormai solo nelle pagine della letteratura.

Mi sarebbe piaciuto  di più  intitolare il mio intervento  “La letteratura della ex-Jugoslavia tra fiction e faction”, perché il messaggio sarebbe stato più immediato. In questo modo avrei sottolineato di più il fatto che la fiction, in questo contesto, non può più rimanere tale: il peso della realtà e della storia è troppo forte, impregna le pagine letterarie, si deposita nelle coscienze e nella memoria, trasforma il racconto della fiction in faction. Il termine viene usato da Danilo Kiš, scrittore molto significativo per questa area. Kiš appartiene alla cosiddetta generazione di mezzo:  nato poco prima della Seconda guerra mondiale, muore nel 1989. Poco prima che cominciasse il conflitto Kiš viene accusato di plagio per il suo libro Leoni meccanici, vengono addirittura fatti dei processi (fra le persone che lo difendono c’è Predrag Matvejević). Il plagio consisterebbe nel fatto che i racconti del libro  attingono a fatti reali. I “sette capitoli di una stessa storia” non sono altro che la storia infinita di una persecuzione dove è continuo il rovesciamento tra vittime e carnefici. Non bisogna dimenticare che Kiš era ebreo, e il padre e numerosi parenti svanirono nelle camere a gas. La sua opera è centrale anche per la riflessione sull’oggi; Kiš infatti è un modello per molti giovani scrittori non nazionalisti. È un punto di riferimento ideale per gruppi di ragazzi che decidono di disertare e scrivere poesie e manifesti ispirandosi proprio a questa sua opera. Per quanto riguarda l’accusa di plagio, l’autore stesso si era difeso sottolineando quanto fosse insensato accusarlo perché quel rovesciamento tra vittime e carnefici che lui descrive è il destino di tutti, “é il nostro destino e quindi segna anche la nostra letteratura”. Certo, è un tema che rappresenta un leitmotiv di tutte le letterature dell’area, e soprattutto di quella serba contemporanea attraversata dalla tensione, che ha spesso un esito disperato, fra individuo e storia. Nel senso che l’individuo cerca di sfuggire alla Storia che  lo insegue e rispetto alla quale egli è assolutamente impotente, ma non ci riesce e la Storia ad un certo punto della sua esistenza lo raggiunge. E ciò accade quasi sempre nella forma della guerra o di fenomeni violenti.

Quando si parla di letterature jugoslave si citano sempre i tre grandi autori classici: Andrič, Krleža e Crnjanski.

Andrič, nato nel 1892,  muore nel 1975, e viene sempre ricordato per il premio Nobel ricevuto nel 1961, l’unico premio Nobel per queste letterature. Krleža nasce nel 1893 e muore nel 1981, ovvero l’anno dopo la morte di Tito, e proprio per il suo funerale Krleža, anche se già molto malato, scrive un celebre discorso. Invece Crnjanski  nasce nel 1893, quindi nello stesso anno di Krleža, e muore nel 1977.Insisto sulle date, perché per questa riflessione le date sono fondamentali, non solo per la storia degli individui,  ma anche per gli esiti letterari. Le date indicano il fatto di aver vissuto una guerra, oppure di essere riusciti ad evitare un destino storico che ha inseguito varie generazioni. Anche per quanto riguarda questi tre autori e le loro vite, le date sono molto importanti.

Krleža nasce a Zagabria e allo scoppio della Prima guerra mondiale viene mandato sul fronte della Galizia. Il testo che propongo è tratto della raccolta Il dio Marte croato, che Krleža scrive al suo ritorno. Leggendoli, si percepisce lo shock che la Grande guerra ha prodotto, shock dovuto anche al cambiamento delle categorie di spazio e di tempo – sappiamo che la Grande guerra è definita anche una “rivoluzione cubista”. Chi conosce i poeti italiani dell’epoca, come  per esempio Jahier, ricorderà la figura ricorrente del contadino mandato a morire in trincea senza sapere veramente né per chi combatte né perché deve andare incontro a quella terribile fine condivisa con la  maggior parte dei soldati che hanno combattuto nella Prima guerra mondiale. Le descrizioni di Krleža ricordano le grafiche di Otto Dix: Krleža è uno scrittore che ha un profondo rapporto con la pittura, in quegli anni il suo mondo poetico e visivo è espressionista.

Il passo iniziale del racconto  

Il signor caporale di complemento Pesek Mato e i sei eroi di questo nostro racconto, vivevano tutti da principio una vita silenziosa e amara come la vivono milioni di uomini della nostra gente che soffrono da secoli nel nostro fango

è emblematico ed esprime un concetto che torna spessissimo non solo in Krleža: il fango della pianura della Pannonia, che come una sorta di vampiro  succhia le vite umane. Il passo continua

e ad ogni primavera e autunno tornano ad ararlo per poterne tirar fuori un pugno o due di grano e mangiare una fetta di dolce di frumento fatto in casa per Pasqua e per Natale, due chiari giorni, quando non si avverte sulla schiena il carico quotidiano, e si deve solo dar da bere al bestiame nelle stalle e si fuma e si sputacchia davanti alla chiesa tutta la mattina fino a mezzogiorno. Nella secolare nebbia della servitù forzosa e del lavoro tributario, dell’imposta sui camini e della colonia e delle legnate, in quella nebbia feudale che ancora nell’anno millenovecentoquattordici sotto il governo di Francesco Giuseppe Primo continuava a stendersi sul nostro villaggio come un mesto velo, tutti i nostri eroi sentivano quella loro vita come una cosa ancora creata dal Signore Iddio, e anche il loro nonno e bisnonno (sia detto senza loro colpa) vivevano a questo modo e allora che motivo c’è di porsi dei pensieri e, soprattutto, che cosa ci si può fare?[2]

Fino alla fine della sua lunga vita, così ricca di avvenimenti  da rappresentare a tutti gli effetti  un pezzo di storia del Novecento nei Balcani, Krleža verrà sempre considerato dal potere comunista una sorta di  scomodo compagno di strada. Dal passo appena citato si intuisce subito che si tratta di uno scrittore con una forte impronta, oggi diremmo, pacifista. Krleža aderisce al Partito comunista e  negli anni Trenta verrà perseguitato per questo e  le sue opere di quel periodo sono quasi tutte sottoposte alla censura e  messe al bando. Durante la Seconda guerra mondiale vive in uno stato di continua paura, a tratti di vero terrore, nella Zagabria occupata dagli ustascia. Praticamente sta  chiuso in casa,  perché ha paura di uscire. Tiene un diario pieno di spunti di grande attualità, come nelle pagine incentrate sull’analisi del  rapporto tra i mass-media e la guerra. Affronta il tema sperimentando in prima persona il modo in cui le notizie diffuse dalla radio penetrano nella sua quotidianità e soprattutto nei suoi sogni,  e ci regala  pagine estremamente premonitrici. Krleža è considerato un vigliacco a causa di questo suo rintanarsi nella propria abitazione, e teme tanto gli ustascia quanto i comunisti, pur essendo egli stesso comunista. Infatti non si unisce ai partigiani perché teme  rappresaglie a causa dell’atteggiamento critico che ha sempre mantenuto. Sembra che a salvarlo sia stata proprio l’amicizia personale con Tito. Infatti, dopo la guerra, diventerà uno degli intellettuali (quasi) ufficiali del sistema di potere comunista,   sottolineo il “quasi” poiché le sue posizioni saranno comunque fino alla fine quelle di un intellettuale impegnato ma critico. Oggi, in Croazia, i libri di Krleža sono praticamente scomparsi dalle librerie; data la sua identificazione con quelli che erano gli ideali della Jugoslavia di Tito, viene considerato politically uncorrect. Questo è piuttosto assurdo alla luce degli eventi che hanno caratterizzato la sua vita negli anni Settanta, anni in cui Krleža rinuncia alla sua carica all’interno del Comitato centrale e firma il manifesto per il rinnovamento della lingua croata, mostrando in questo modo tutto il suo sostegno per il movimento nazionalista croato, fatto che gli creerà non pochi problemi all’interno della Lega dei comunisti.

C’è un altro personaggio che trascorre gli stessi anni della guerra chiuso nella propria abitazione,  questa volta a Belgrado. Si tratta dell’altro grande scrittore della letteratura jugoslava, Ivo Andrič. È  una figura completamente diversa da Krleža, un personaggio di cui in questi anni si è parlato spesso, anche in Italia, sia a proposito che a  sproposito.

Andrič nasce in Bosnia, vicino a Travnik e dedica la maggior parte dei suoi scritti, compresa la tesi di laurea, alla situazione della sua terra d’origine, in particolare al periodo storico della dominazione ottomana. Aderisce al movimento “La Giovane Bosnia”, composto nella maggior parte da serbi. In questi ultimi anni è stato oggetto di revisionismi storici, di critiche, il suo monumento è stato anche danneggiato. Si può dire che è una figura molto contesa da tutte le parti in causa e, avendo lui scritto moltissimo sulla Bosnia, basti pensare ai Racconti di Bosnia o a Il Ponte sulla Drina, è stato spesso riletto secondo una chiave politica. Andrič, che è stato un diplomatico della monarchia jugoslava, per una serie di contingenze finisce a Belgrado dove passa gli anni della guerra, e scrive le  sue tre opere più importanti per le quali poi gli verrà assegnato il premio Nobel. Il racconto che ho scelto, perché mi pare esemplare della sua opera, è I ponti, tratto dalla raccolta I racconti di Bosnia. E’ un racconto, se vogliamo, anche scontato, essendo il ponte una metafora ricorrente nella letteratura di Andrič, però bisogna ricordare sempre che il ponte è anche una struttura fisica, una costruzione reale, molto importante per la Bosnia, una terra ricca di fiumi, impercorribile senza i ponti. Infatti, la prima cosa che si distrugge durante la guerra, in quest’ultima così come nelle precedenti, sono i ponti. Notiamo questo slittamento dalla letteratura alla realtà e viceversa. Il ponte, originariamente semplice struttura necessaria per attraversare i fiumi, diventa il personaggio principale di questo racconto del 1963. A distanza di decenni, ecco il ponte che di nuovo ridiventa realtà nel caso  del ponte di Mostar abbattuto nel 1994. 

Andrič aveva viaggiato molto, e ciò che lo colpiva di più durante i viaggi erano proprio i ponti. Scrive:

 Quando penso ai ponti, mi vengono in mente non quelli che ho attraversato più spesso, ma quelli su cui mi sono soffermato più a lungo, che hanno attirato la mia attenzione e fatto spiccare il volo alla mia fantasia.

I ponti di Sarajevo prima di tutto. Sul fiume Miljacka, il cui letto è una sorta di sua spina dorsale, rappresentano vertebre di pietra: Li vedo e li posso contare uno a uno. Conosco le loro arcate, ricordo i loro parapetti. Fra di loro ce n’è uno che porta il nome fatale di un ragazzo, un ponte minuscolo ma eterno che sembra ritiratosi in se stesso, una piccola e accogliente fortezza che non conosce né resa né tradimento.

Poi ponti visti nei viaggi, di notte, dai finestrini dei treni, sottili e bianchi come fantasmi. (…)

 

Ed ecco che ritroviamo di nuovo un ponte diventato luogo di tragici avvenimenti in tempi recenti, il ponte che divideva la parte assediata e la parte serba, ed è stato uno dei simboli di quell’assedio.

Il racconto prosegue:

Così, ovunque nel mondo il mio pensiero vada e si arresti, trova fedeli e operosi ponti, come eterno e mai soddisfatto desiderio dell’uomo di collegare, pacificare e unire insieme tutto ciò che appare davanti al nostro spirito, ai nostri occhi, ai nostri piedi, perché non ci siano divisioni, contrasti, distacchi... (…)

E termina con questo passo:

E infine, tutto ciò che questa nostra vita esprime - pensieri, sforzi, sguardi, sorrisi, parole, sospiri- tutto tende verso l’altra sponda, come verso una meta, e solo con questa acquista il suo vero senso. Tutto ci porta a superare qualcosa, a oltrepassare: il disordine, la morte o l’assurdo. Poiché, tutto è passaggio, è un ponte le cui estremità si perdono nell’infinito e al cui confronto tutti i ponti di questa terra sono solo giocattoli da bambini, pallidi simboli. Mentre la nostra speranza è su quell’altra sponda. [3]

Siamo  di fronte a un testo letterario che può però essere letto come un manifesto politico. Per i lettori italiani  questo passo di Andrič non ha particolari valenze politiche, perché siamo tutti, almeno formalmente,  d’accordo con i principi da lui espressi in questo racconto e in generale nelle sue opere, ma bisogna pensare alla valenza che può assumere oggi, in un contesto in cui abbiamo per esempio il Kosovo nel quale le  città sono divise, come da un muro, dai ponti o da altre strutture simili, oppure la città di  Mostar dove, anche se il ponte fisico è stato  parzialmente ricostruito, la divisione tra le due sponde rimane irreparabile. Leggere oggi questa pagina di Andrič e condividere il suo pensiero significa essere di una certa idea politica. Della stessa idea politica sono anche quegli scrittori che hanno ripreso oggi alcuni temi centrali di Andrič. E’ il caso di uno scrittore di Sarajevo, Dževad Karahasan, che  in un suo scritto intitolato Elogio delle frontiere, sottolinea come l’individuo riesca a cogliere la propria essenza  solo attraverso l’incontro con l’Altro. Questo tema, anche filosofico, viene riportato da Karahasan nel contesto a lui vicino, quello delle frontiere geografiche e della divisione che ne deriva.

Per quanto riguarda l’uso scorretto di Andrič, il problema è sorto dall’interpretazione volutamente esagerata di alcuni suoi testi. Uno di questi è Lettera del 1920, che descrive l’ultimo incontro alla stazione di due amici dopo la fine della prima guerra mondiale. Uno ha deciso di partire, l’altro di rimanere in Bosnia. Quello che sta partendo pronuncia alla fine del racconto una frase che suona più o meno così e che ha dato il via a  numerose interpretazioni superficiali: Tuttavia, se dovessi proprio dare un nome a ciò che mi spinge a fuggire dalla Bosnia, direi: l’odio. Questa frase è stata spesso citata come fosse il centro dell’analisi storica e politica di Andrič. Credo che questo rappresenti un grande problema interpretativo, poiché non dobbiamo mai confondere i diversi piani del discorso, bisogna distinguere la letteratura dalla storia. Una cosa, infatti, è dire che questa letteratura “gronda” storia, un’altra leggere singole frasi come se si trattasse di dichiarazioni politiche pronunciate ora. Certo, colpisce il fatto che i grandi scrittori del passato sembrano capaci di parlarci della situazione storica e politica con maggiore efficacia di  numerose analisi sociologiche o storiche (locali).

Affinché si possa fare un confronto, introduco il terzo scrittore classico della letteratura jugoslava, Miloš Crnjanski. Scrittore belgradese, anche lui come Andrič un diplomatico della monarchia jugoslava, anche se in perenne contrasto e lotta con quelle che oggi chiameremmo istituzioni. Trascorre, infatti, l’epoca comunista in  una sorta di esilio, a Londra. Le sue opere, però, non sono proibite, e a Londra scrive una delle sue opere più belle, Il romanzo di Londra, purtroppo non tradotta in italiano. Torna a Belgrado poco prima di morire. In italiano sono tradotte invece le monumentali Migrazioni I e Migrazioni II. Vorrei  citare le frasi che chiudono  Migrazioni II:

(il contesto storico è la fine del Seicento)

Gli anni passano, oggi come ieri, passa l’estate e le foglie cadono, e presto tutto verrà ricoperto dalla neve. Ma in primavera il Dnepr convoglierà di nuovo allegramente le sue acque, attraverso questa terra di morti, fino al mare, fra i canti e le danze dei vivi.

Gli anni si succederanno. Chi potrà contare gli uccelli migratori o i raggi del sole che si spostano da est a ovest, da nord a sud? Chi potrà pronosticare quali popoli migreranno, e dove, nei prossimi cento anni, così come ha migrato la nazione serba? Chi potrà contare i semi di frumento che germineranno nella prossima primavera in Europa, in Asia, in America, in Africa?

Tutte cose impossibili per la mente umana,

Là dove gli Isakovič e il Soldatenvolk serbo arrivavano portandosi dietro, come le chiocciole, la loro casa sulle spalle, non c’è più traccia di loro, tranne due o tre nomi di località.

Sempre vi furono e sempre vi saranno le migrazioni, così come vi saranno sempre le nascite a continuare la vita..

Le migrazioni esistono.

La morte non esiste! [4]

 

Per la presenza del tema delle migrazioni e  del mito del “popolo celeste”, quello serbo, oggi si è tentati di leggere queste pagine pensando soprattutto alla  situazione attuale. Sembra di capirne di più anche per la presenza in quest’opera di un altro elemento: la guerra. I soldati serbi e croati devono combattere in nome delle grandi potenze, come la Francia e l’Austria. Infatti i serbi ed i croati vengono usati per secoli dai diversi imperi come i soldati più fedeli, i migliori e i più resistenti. Tra l’altro, la maggior parte di questi soldati abitavano tradizionalmente nella regione della Vojna Krajina, il Confine Militare istituito dagli asburgici, considerato come l’antemurale della cristianità rispetto al pericolo turco, ed è proprio la zona intorno a Knin quella dove comincia la guerra nel 1991. Resta il fatto che il tema cardine dell’opera sono, per l’appunto, le migrazioni. Questo è un elemento storico di questa terra, fondamentale anche per la storia più recente. Dopo il 1945  nel territorio jugoslavo è avvenuto un enorme spostamento della popolazione, il maggiore che si sia avuto in Europa. E per le sue dimensioni è un fenomeno abbastanza singolare, ancora in gran parte da studiare. Oggi, come risultato dell’ultimo conflitto avvenuto in ex-Jugoslavia, abbiamo un’altra migrazione drammatica  della popolazione, il pellegrinaggio eterno dei profughi. Ecco allora che, anche con Crnjanski, si è colti dalla tentazione di leggere le sue opere alla luce dei fatti odierni.

I tre autori appena citati sono i tre classici del Novecento di questa letteratura e  sono, casualmente, uno serbo, uno croato e uno, tralasciando la sua eredità contesa, bosniaco.

C’è un’altra generazione , quella nata tra gli anni Venti e Trenta, alla quale appartengono figure molto importanti. Uno di questi è Tišma, autore molto interessante. Tišma nasce nel 1924 a Oros, in Vojvodina, una regione della Serbia che confina con l’Ungheria. Infatti quello della frontiera è un tema molto presente nelle sue opere. Tišma arriva a dire addirittura una frase del genere “Senza una frontiera io  non sarei mai nato”. Anche lui, come Kiš, è di famiglia ebrea, vive un periodo molto difficile durante il comunismo perché è l’esempio tipico dell’intellettuale non schierato, e per questo non riesce ad avere i documenti e ha vari problemi. I temi  intorno ai quali ruota tutta la sua produzione letteraria sono il  senso di colpa del sopravvissuto e il  rovesciamento continuo tra vittima e carnefice. Per esempio, in un suo libro racconta la storia di una vittima per eccellenza, ovvero un  ebreo reduce dal campo di concentramento, a cui, una volta tornato in città, viene assegnato un appartamento nel quale vivono già altre persone,  le quali non necessariamente sono state dei carnefici durante la guerra. Egli caccia via queste persone e in questo modo innesca quel meccanismo del rovesciamento e costringe il lettore alla riflessione. Un altro tema del quale Tišma è uno specialista e che affronta in moltissimi suoi romanzi, è quello del gusto dell’uccidere. Nei suoi romanzi, definiti da alcuni “realisti” e da altri “antropologici”, Tišma si interroga sull’essere dell’uomo nelle situazioni estreme, quando è un dettaglio a decidere la vita o la morte, quando la morte del vicino significa la propria salvezza, quando i molti tacciono e i pochi reagiscono. I temi trattati - il senso di colpa, il rovesciamento di ruoli tra vittima e carnefice, il gusto di uccidere - farebbero supporre un tono grave e angosciante, ma è così solo in parte. Non dobbiamo dimenticare la notevoli capacità narrative di Tišma che fanno sì che la narrazione sia estremamente appassionante e intensa. 

Di poco più anziano di lui è Bora Ćosić. E’ uno scrittore di cui in italiano è stato tradotto un solo libro, Il ruolo della mia famiglia nella rivoluzione mondiale, uno dei rari testi comici. Si tratta di una sorta di quaderno di appunti di un ragazzo nel quale viene descritta la Belgrado prima della Seconda guerra mondiale, e poi quella che segue, la Belgrado comunista. E’ la storia vista dal basso, filtrata dallo sguardo di un ragazzino. La particolarità di Ćosić sta soprattutto nell’ironia che attraversa il romanzo e che pone su basi “surreali”, e non tragiche, il rapporto tra la grande Storia e la storia individuale.

Questo elemento è, invece,  molto presente nella letteratura ceca, per esempio in Kundera.  È celebre l’episodio di un suo romanzo, riassunto poi dall’espressione “La marmellata di pere o il socialismo”, in cui si narra della situazione vissuta dal protagonista durante l’invasione sovietica. Proprio quel giorno lui va fuori porta perché era quello il giorno in cui le sue zie facevano la marmellata di pere. Quando la mattina dopo bussano alla sua porta e lo informano dell’ingresso dei carri armati russi a Praga, il protagonista risponde: “ Sì, ma io sono qui e sto facendo la marmellata di pere”.

Ćosić è uno dei pochi autori jugoslavi che affronta con toni simili questo stesso tema.

Un altro autore che non posso fare a meno di ricordare e di cui in italiano è stato tradotto un solo libro, La vita  di Malvina Trifković, è Mirko Kovač. Ci tengo in modo particolare a nominare questo libro perché è uno dei pochissimi libri di questa letteratura che ha per protagonista un personaggio femminile. Il titolo del brano scelto  è già molto interessante: “L’odio incontenibile come ragione di rottura del matrimonio”. Il brano è significativo per il quadro sociale che delinea e per l’analisi dell’animo femminile che ci regala, elemento estremamente raro in questa letteratura.

Cara Katarina - Approfitto dell’occasione per ricordarmi in questa circostanza della rottura del matrimonio fra la serba Malvina Trifković, di religione ortodossa, e Tomislav Parčić, croato, di confessione cattolica romana, che viene annullato per ragioni di incontenibile odio e ripugnanza fra i coniugi, che ai sensi di legge viene chiamata Abneigung.(…) Peraltro non viene richiesto che l’incontenibile avversione debba essere reciproca (Wechselseitig), cioè che il marito e la moglie si odino nella stessa misura, mentre è sufficiente che uno dei due odi l’altro pur non nutrendo l’altro in sé alcun analogo sentimento. Perciò questa avversione non doveva essere in alcun modo dimostrata, come invece sembrano richiedere le disposizioni canoniche della chiesa ortodossa. E del resto, diciamo la verità, Katarina, quest’odio non sarebbe neppure tale se potesse in qualche modo essere dimostrato, esso rientra sostanzialmente nell'ambito di quelle cose inconcepibili e preesisteva al momento in cui venne contratto il vincolo matrimoniale fra i coniugi, e il matrimonio non ha potuto che farlo venire alla luce del sole, visto che noi siamo afflitti da tali sentimenti solo fino a che essi restano allo stato inconscio, mentre nel momento in cui riusciamo a trovarne le cause che li riconducano nell’ambito delle questioni tangibili, ebbene proprio in quello stesso istante la bellezza di quest’odio viene meno e svanisce.(…)[5]

 

Un altro scrittore di questo gruppo, serbo anche lui come i due precedenti, è Borislav Pekić, di cui in italiano è stato tradotto un libro di non facile lettura: Come placare il vampiro. Anche lui ha una posizione non proprio anticomunista, ma  sicuramente di non adesione, di presa di distanza dal potere. Infatti vive a Londra e lavora per la BBC: anche lui torna a Belgrado poco prima di morire, pochi anni fa. Cito un passo del libro molto significativo, poiché qui abbiamo  di nuovo l’individuo davanti al quale si presenta il compito di placare il vampiro:

Il passato è un vampiro ed il vero problema consiste nel placarlo. L’uomo non ha una terza possibilità: o gli conficca una paletta nel cuore o il suo sangue verrà ben presto succhiato.

La generazione successiva, nata durante o dopo la Seconda guerra mondiale, sviluppa un tipo di letteratura che, pur trattando questi temi che sono una sorta di inevitabile leitmotiv, non vuole più essere impegnata. Sappiamo che durante il comunismo, pur con tutte le differenze interne al caso jugoslavo, si insiste sul fatto che lo scrittore lanci attraverso i suoi libri dei messaggi chiari e forti. Questa generazione - alla quale appartiene anche Danilo Kiš che è nato nel 1939 - dichiara di non volere che la  letteratura abbia necessariamente un messaggio politico chiaro e preciso. Segue a questa  presa di posizione una produzione letteraria molto più vicina a noi, potremmo definirla “disimpegnata”. Un altro fenomeno è la nascita della scrittura femminile, in italiano è stato tradotto  Seta, forbici di Irene Vrkljan, il primo libro che può essere definito come prosa femminile. Appartiene a questo filone anche  Slavenka Drakulić, giornalista e scrittrice nata nel 1949, molto  nota in Italia, della quale sono state tradotte  quasi tutte le opere. Ci sono anche  altre scrittrici che si richiamano a questo filone, delle quali ricordo una in particolare, anche lei di Zagabria, Dubravka Ugresić.

Segue, tra gli anni Sessanta e Settanta, il fenomeno della cosiddetta “prosa in jeans”. Ciò che caratterizza questa nuovo fenomeno letterario è il totale disinteresse per le grandi tematiche che  ho citato e che sono state invece il nucleo della letteratura precedente. E’ una prosa che fugge e rifugge da queste tematiche. Siamo di fronte ad un rifiuto assoluto di tutto quello che ha a che fare con la guerra, con la politica. Si tratta di un rifiuto anche generazionale, perché quella era la storia dei loro padri,  e si tratta anche di un rifiuto politico da parte di una generazione profondamente apolitica che ha voglia di costruire i propri libri  intorno alle realtà urbane, intorno agli amori che nascono in queste realtà, intorno ai concerti dei Rolling Stones, ai viaggi all’estero, alle fughe in India. Questa generazione mostra una profonda volontà di rottura rispetto al passato e alle tematiche che caratterizzavano la letteratura del passato. Questo è anche il periodo in cui la vicinanza con tutto quello che viene dall’Occidente è molto forte in tutta la ex-Jugoslavia. Basti pensare al fatto che i film americani della fine degli anni Settanta e degli anni Ottanta  arrivano prima a Zagabria e Belgrado che a  Milano, o al fatto che nelle  librerie si trovano tutti i libri delle classifiche occidentali; infine si deve anche ricordare il fatto che l’inglese è una lingua molto diffusa. Ci troviamo di fronte ad una realtà per la quale un punto di riferimento molto importante è rappresentato dagli USA, più che dagli altri paesi dell’Occidente. (A questo proposito è significativo ricordare la battuta pronunciata da un ragazzo di Belgrado durante i raid aerei della Nato:” A casa ho solo magliette con slogan e scritte americane, per uscire oggi che cosa mi metto?”)

Vorrei terminare con una riflessione sul periodo più recente e sull’oggi. Per gli anni Ottanta si usa l’espressione apocalyptic culture, perché tutto quello che prima sembrava sicuro e certo, non solo nella tradizione politica ma più in generale, viene azzerato. Quello che una volta si presentava con i colori rosa confetto, ora si presenta a tinte fosche. Poi c’è la guerra e non è un caso che  per trovare delle pagine che ci parlino di quello che accade dobbiamo di nuovo tornare indietro. Infatti da questo punto di vista ci parlano di più le pagine di Tišma, di Krleža o  di Crnjanski. In questo nuovo contesto la cosiddetta “prosa in jeans” ammutolisce. Infatti, in questi dieci anni molti scrittori non hanno scritto più nulla, molti altri si sono espressi nella forma del diario, molto diffusa, oppure scrivono cronache di guerra. Alcuni dicono che queste sono guerre dei padri contro i figli, perché i figli   non avrebbero immaginato nemmeno nel peggiore dei loro incubi di poter assistere ad un’altra guerra nel corso delle loro vite, essendo cresciuti in un’epoca di pace,  in una Jugoslavia uscita dalla Seconda guerra mondiale con un bilancio pesantissimo di vittime. Invece,  si trovano improvvisamente trascinati dai banchi di scuola, dalle aule universitarie, dai vari Mac Donald’s, verso una nuova guerra e spediti nel “fango pannonico”. Questa volta senza nemmeno avere gli ideali dei padri.

Per capire l’importanza di questo elemento, basti pensare al fatto che, durante la Seconda guerra mondiale, in Jugoslavia c’era la possibilità di fare una scelta politica: come un italiano poteva scegliere se arruolarsi con i  partigiani o essere del partito fascista, così anche un croato o un serbo o una persona di famiglia  mista  poteva decidere se stare con i partigiani o con gli ustascia o, nel caso dei serbi, con i cetnici, oppure non prendere nessuna posizione, rimanere insomma in “zona grigia”. La scelta questa volta non è stata possibile, in quanto la provenienza, il legame familiare o semplicemente il luogo di residenza hanno segnato l’appartenenza e, automaticamente, uno schieramento politico. L’individuo, nella maggior parte dei casi, non ha avuto alcuna scelta: dalla sera alla mattina si è ritrovato , come scrive Slavenka Drakulić, “inchiodato alla nazionalità”. Per questo motivo abbiamo delle situazioni estreme, come quella di alcuni intellettuali ma anche di molte persone comuni che inorridiscono di fronte alle persecuzioni che i “nostri” infliggono agli “altri”. Tutte queste persone sono considerate “traditori” della loro nazione. E se pensiamo alla Serbia, bisogna sempre ricordare l’altissimo numero di persone che hanno lasciato questo paese proprio per gli stessi motivi, per impossibilità di scelta politica.

Gli scrittori che fanno parte di questa generazione che di nuovo si trova nel “fango pannonico”, danno alla luce opere nelle quali ritroviamo alcuni motivi di quella prosa impegnata, caratteristica della letteratura del passato. Si tratta, ovviamente, di scrittori non nazionalisti, e il caso più significativo è quello di Miljenko Jergović di Sarajevo, autore di Le Marlboro di Sarajevo e I Karivan. Questo autore, giovanissimo, nato alla fine degli anni Sessanta, è notissimo a Sarajevo. Scrive di rock, di cinema, usa un  codice linguistico molto gergale, giovanile, e attraverso la guerra, di fatto, si trova  a riscoprire l’impegno. Così come l’ha riscoperto anche Karahasan. Nel suo libro Il centro del mondo descrive il  dialogo con un amico francese venuto a trovarlo durante l’assedio. Il tema del dialogo è espresso in modo esplicito nel momento in cui l’autore dice una cosa del tipo: siamo ormai diventati un fenomeno estetico che il mondo intero osserva. E si chiede: noi, dove abbiamo sbagliato? Forse nel non aver combattuto abbastanza contro certe tendenze nella cultura e nell’esserci illusi che la letteratura, e quindi l’arte, fosse solo un fenomeno estetico e non avesse un peso etico. Noi abbiamo rifiutato talmente quello che ci volevano imporre, una letteratura impegnata e con chiari messaggi politici, da preferire altre correnti letterarie, francesi soprattutto. Così anche noi abbiamo perso  il senso del nostro fare intellettuale. Emblematico è il brano che segue:

Vengo da un paese distrutto.

     Quindici anni fa avrei considerato una tale dichiarazione impossibile o almeno insensata all’inizio di un discorso sulla letteratura, perché prendevo sul serio i vari formalismi, strutturalismi, costruttivismi, decostruttivismi e altri innumerevoli –ismi con cui mi sono confrontato nel corso della mia formazione: li avevo presi sul serio e mi ero convinto che la letteratura crea “forme pulite”, che non ha rapporto con l’immediatezza della realtà, che è del tutto indifferente quel che si racconta perché è importante solo come si racconta, che il materiale è funzione della forma e che solamente in quanto tale lo si deve prendere in considerazione, mentre le tesi che interpretano l’opera d’arte in base ai suoi contenuti sono basse insinuazioni di un pensiero ideologizzato che è ormai sconveniente persino deridere.

     Lavorando con gli studenti, lavorando sui miei testi, cercando di comprendere la letteratura sia dall’esterno sia dall’interno, mi sono convinto di aver avuto torto perché la letteratura ha rapporto, eccome con la realtà data e ha anche grandi responsabilità circa il comportamento degli uomini in questa realtà data. L’opera letteraria si costruisce con due tipi di materiale: con la lingua e con il materiale metalinguistico costituito di sensazioni, pensieri, avvenimenti, che caratterizzano personaggi e azioni, da quell’insieme di fatti determinanti che segnano i comportamenti, le convinzioni, il vissuto del mondo dei personaggi, la natura, l’andamento e le leggi interne degli avvenimenti, e che ne rendono così logico e necessario il risultato finale, l’esito ultimo. Il complesso dei fattori che determinano il comportamento di un personaggio non può essere ridotto solo all’insieme delle sue motivazioni. L’opera letteraria è fatta di materiale, forma, contenuto e funzione (che sono ugualmente importanti, si determinano reciprocamente e, si potrebbe quasi dire, nascono l’uno dall’altro). Ciascuna di queste dimensioni dell’opera articola il senso  e crea i valori o almeno, grazie alla natura della conoscenza estetica, determina il modo in cui gli uomini vivono i valori, regolando così anche il loro comportamento nella realtà. Il che significa che l’opera è legata, a diversi livelli e in diversi modi, al vissuto dell’uomo nella realtà quotidiana e al suo modo di agire in essa.[6]

Infine vorrei ricordare dei testi di particolare interesse per i giovani.  Due libri che io consiglierei ai ragazzi di leggere sono Non è la mia guerra di Vladimir Jokanović e Sottocoperta di Vladimir Arsenijević. I due autori hanno in comune vari elementi. Entrambi nella vita facevano tutt’altro. Arsenijević per esempio lavorava in un’agenzia di viaggi. In Non è la mia guerra Jokanović racconta come un normalissimo ragazzo serbo di Osijek, città vicino a Vukovar, impercettibilmente, viene trascinato dalle sbronze giovanili nel vortice della guerra, ovvero sul fronte di battaglia.

Arsenijević vince il NIN, un premio molto prestigioso in Jugoslavia. Scrive questo libro tra il 1993-94,  gli anni peggiori per Belgrado, città che anche se non è stata fino a quel momento fisicamente toccata dalla guerra, ha avuto il suo pesante bilancio quotidiano di morti e feriti su un imprecisato fronte. Arsenijević descrive una Belgrado in cui i protagonisti del romanzo dormono ogni notte in un altro posto perché temono l’arrivo della cartolina di convocazione dall’esercito. Moltissimi sono i fatti che avvengono dalla mattina alla sera, nel libro, accompagnati da questo stato di ebbrezza, come in tutte le guerre, e in questo caso è ebbrezza da alcol e da ogni tipo di sostanza.  Belgrado rimane in questa situazione  fino ai bombardamenti della Nato. L’eroe, o per meglio dire l’antieroe di questo romanzo, non fa niente per cambiare questa situazione e trascina anche la moglie in questo stato di sospensione in cui si fa sesso e si sniffa per sfuggire alla realtà. Anche Arsenijević, pur non essendo scrittore di professione, riesce a dare quest’idea della guerra come qualcosa da cui si  cerca di sfuggire, la guerra come qualcosa di avvicinabile ad un fenomeno naturale al quale si sfugge per puro caso. Nel libro  di Arsenijević non succede nulla di drammatico, l’autore riesce però a rappresentare la vita di quella che si autodefinisce la “gioventù perduta” di Belgrado.

Bibliografia:

AA.VV., Accadde a Sarajevo. Storie di una vicina storia, (a cura di N. Janigro), Edizioni Scolastiche B.Mondadori, Milano 1996.

AA.VV., Dizionario del paese che scompare (a cura di N.Janigro), il manifesto libri, Roma 1994.

Ivo Andrič, Racconti di Bosnia, a cura di D.Badnjević Orazi, Newton Compton, Roma 1995.

Vladimir Arsenijević, Sottocoperta, Mondadori, Milano 1997.

Bora Ćosić, Il ruolo della mia famiglia nella rivoluzione mondiale, trad. di N.Janigro, edizioni e/o, Roma 1996.

Miloš Crnjanski, Migrazioni I, trad. di L.Costantini, Adeplhi, Milano 1992.

Miloš Crnjanski, Migrazioni II, trad. di L.Costantini, Adelphi, Milano 1998.

Slavenka Drakulić, Balkan Express, trad. di I.Vay, il Saggiatore, Milano 1993.

Slavenka Drakulić, Come se io non ci fossi, trad. di M.R.Leto, Rizzoli, Milano 2000.

Miljenko Jergović, Le Marlboro di Sarajevo, trad. di L.Avirovic, Quodlibet, Macerata 1995.

Miljenko Jergović, I Karivani, trad. di L.Avirovic, Einaudi, Torino 1997.

Vladimir Jokanović, Non è la mia guerra, trad. di D. Badnjević Orazi, Guanda, Parma 1999.

Dževad Karahasan, Il centro del mondo, a cura di N.Janigro, il Saggiatore, Milano 1995.

Dževad Karahasan, Elogio della frontiera, in MicroMega, 5/95.

Danilo Kiš, I leoni meccanici, trad. di M.Suffada, postfazione di N.Janigro, Feltrinelli, Milano 1990.

Mirko Kovač, La vita di Malvina Trifković, trad. di S.Ferrari, Anabasi, Milano 1994.

Miroslav Krleža, Il dio Marte croato, trad. di S.Ferrari, Edizioni Studio Tesi Pordenone, 1982.

Borislav Pekić, Come placare il vampiro, trad. di A.Parmeggiani, De Martinis & C, Milano 1992.

Aleksandar Tišma, Il libro di Blam, trad. di I.Olivari Venier, Feltrinelli, Milano 2000.

Conversazione tenuta presso la Fondazione "Serughetti La Porta" il   9 dicembre 1999.

Registrazione rivista dall’Autrice.



[1] L’assurdo è che i giornali e le riviste in cirillico appaiono in caratteri latini via internet.

[2] in Miroslav Krleža,  La battaglia di Bistrica Lesna, in Il dio Marte croato, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1982, pag. 29-30

[3] in Ivo Andrič, Racconti di Bosnia, Newton Compton, Roma, 1995, pag. 157

[4] in Miloš Crnjanski, Migrazioni (II), Adelphi, Milano, 1998, pag. 868

[5] in Mirko Kovač, La vita di Malvina Trifković, Anabasi, Milano, 1994, pag.36,37

[6] in Dževad Karahasan, La guerra, la religione, l’arte, in Il centro del mondo, a cura di N.Janigro, il Saggiatore, Milano 1995, pag.81,82

 

 

 

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