ciclo di incontri - Novembre 1999
Quaderno n. 77
Un'idea di Europa: scenari possibili per l'Europa dopo l'ottantanove
Nazioni e nazionalismi
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L’Europa fra identità locali e processi globali

Mauro Ceruti
 

Un evento di grande importanza culturale, in questi ultimi anni, è senz'altro il ravvivarsi e l'articolarsi dei dibattito e delle ricerche sull'identità e sulle identità europee, delle singole nazioni come del continente intero. Molti eventi hanno contribuito a questa focalizzazione dell'interesse, in positivo come in negativo. In positivo: il crollo del Muro di Berlino e dei blocchi contrapposti, gli sviluppi dell'Unione Europea, la nascita dell'Euro come fattore di integrazione irreversibile non solo fra le economie, ma anche fra le nazioni e i popoli europei. In negativo: i conflitti iugoslavi e balcanici, i conflitti ancora più vasti che accerchiano l'Europa da ogni parte (Mediterraneo, Medio Oriente, Caucaso), più in generale le rinascite o l'indurimento di localismi, nazionalismi, etnicismi, fondamentalismi.

Pur nella varietà degli approcci, da queste ricerche sull'identità e sulle identità europee, che vedono oggi impegnati storici, filosofi, politologi, sociologi, antropologi, e così via, emerge un tratto relativamente costante: l'immagine di un continente senza confini rigidi, che è sempre stato sede di migrazioni, di interazioni, di contrasti e di conflitti fra popoli e stirpi differenti, che della diversità di radici ha fatto un elemento essenziale (anche se spesso problematico) per i suoi sviluppi culturali e politici. Questa immagine, che vale per il continente nel suo insieme, vale anche per i singoli stati e per le singole nazioni: tutti quanti emergono come complesse costruzioni a partire da una molteplicità e da una diversità di apporti fondativi. In nessun luogo, nella storia europea, vi è stata una “purezza” etnica e culturale originaria e assoluta.

Naturalmente, la gran parte di queste ricerche sull’identità europea si è concentrata sul nostro secolo e sui secoli immediatamente antecedenti, dell’età moderna o dell’età medioevale. E’ importante però notare come anche le ricerche sul mondo antico stiano attualmente sfociando sulla scoperta e sulla valorizzazione di una pluralità di radici e di matrici, spesso conflittuali e contrastanti, di quello che era stato assunto in modo abbastanza scontato come un unico mondo classico, in se stesso conchiuso. Paradigmatico il caso della civiltà della Grecia “classica”: in tutti i suoi aspetti, dal vocabolario alle istituzioni, dalle idee alla spiritualità, essa si sta rivelando sempre di più il risultato di una tormentata ibridazione di apporti culturali delle più diverse origini, che spaziano dall’Europa all’Africa, dal Medio Oriente alle steppe dell’Asia Centrale e alla stessa India.

Di più, si sta delineando una storia dei tempi lunghi del popolamento dell'Europa a cui prendono parte, in maniera fortemente transdisciplinare, i contributi della genetica delle popolazioni, della linguistica storica e comparata, dell'archeologia, della paleobotanica, dello studio comparato dei miti e delle tradizioni spirituali. Antiche questioni vengono rigenerate e trasfigurate. Oggi sono all’ordine del giorno feconde controversie sull’origine, sulle migrazioni e sulle diversificazioni dei popoli indoeuropei; sulle loro relazioni con i popoli non indoeuropei con cui hanno interagito nel corso dei millenni; sulle relazioni fra lingue, culture e spiritualità che hanno caratterizzato questi popoli; sull’enigma della lingua basca e le sue possibili relazioni con lingue di altre parti del mondo...

In realtà, affrontare la multiforme questione della natura, dell'origine e dell'evoluzione delle identità europee e dei confini europei (a qualunque scala e da qualunque prospettiva ci si collochi: locale, nazionale e/o continentale, interna o esterna, ecc.) ci impone di intrecciare costantemente i tempi brevi della cronaca, i tempi medi della storia, i tempi lunghi dell'evoluzione umana. Ci impone altresì uno sforzo transdisciplinare, di cui i campi disciplinari sopra citati (dalla storia alla filosofia, dalla politologia alla sociologia, dall'antropologia alla genetica delle popolazioni, dalla linguistica storica e comparata all'archeologia, dalla paleobotanica allo studio comparato dei miti e delle tradizioni spirituali) sono alcuni dei principali attori. Nelle brevi note che seguiranno vorremmo semplicemente tratteggiare alcune prospettive introduttive per un programma di ricerca di questo genere.

Prendiamo le mosse da un fatto sul quale la comunità degli studiosi ha oggi raggiunto una buona uniformità di vedute: l'origine africana della specie umana moderna. Dall'Africa, la specie umana moderna ha preso le mosse per popolare, con un'avventura di grande successo, tutti i continenti e tutte le isole di una certa estensione del nostro pianeta. La prima grande migrazione fuori dall'Africa portò gruppi della nostra specie verso il Medio Oriente, l'India, l'Indocina, l'Indonesia, in una catena di mari e di terre che a grandi linee si snodava orizzontalmente, nella stessa fascia tropicale delle origini. Successivamente dall'Asia sudorientale diversi rami umani iniziarono a prendere direzioni eterogenee: alcuni popolarono la Nuova Guinea e l'Australia, altri si insediarono nell'Asia orientale, altri ancora si spinsero in un'Asia settentrionale dal clima notevolmente rigido. Se l'Africa è stato, cronologicamente, il primo centro di diffusione della specie umana, l'Asia ne è c[1]osì diventato a molti effetti il secondo. Dall'Asia, in verità, sono stati popolati gli altri continenti: l'Australia attraverso il Mare di Timor e gli stretti di Torres; le Americhe attraverso una striscia di terra emersa durante l'ultima glaciazione in corrispondenza dell'attuale stretto di Bering. Molto probabilmente dall'Asia è stata popolata in gran parte anche l'Europa: per vie differenti che coinvolgono il Medio Oriente, il Caucaso, l'Asia centrale, e le steppe a nord del Mar Caspio e del Mar Nero.

I tempi lunghi della storia della specie umana ci aiutano a comprendere talune specificità europee. L'Europa è una terra a ridosso sia del primo che del secondo centro dell'umanità, e il suo popolamento più antico è fatto attraverso una serie di ondate migratorie che provenivano da entrambi questi centri. La componente asiatica è predominante, ma nell'Europa occidentale alcune migrazioni hanno seguito la strada che dall'Africa attraversa la porta di Gibilterra: con tutta probabilità, inoltre, anche  grandi isole del Mediterraneo come la Sardegna o Creta sono state la meta di stirpi di origine nordafricana. In ogni caso, le indagini genetiche di Luca Cavalli Sforza, Paolo Menozzi e Alberto Piazza ci offrono un identikit sintetico dei geni delle popolazioni europee di natura probante: visto su scala planetaria, il bagaglio genetico degli europei è quasi a metà strada fra le popolazioni asiatiche e le popolazioni africane, è una sorta di sovrapposizione di alcuni tratti genetici ad esse caratteristici.

L'Europa, dunque, entra nella storia come crogiolo e sintesi di stirpi e culture dalle origini e dalla natura quanto mai disparata, attraverso un ampio fronte di diffusione e di interazione che va dall'Atlantico all'Asia centrale passando per il Mediterraneo, il Medio Oriente, la Penisola anatolica, il Caucaso, e le steppe ponto-caspiche (situate tra il Mar Nero e il Mar Caspio). In particolare, assai intensa è stata la relazione dell'insieme del continente europeo con la parte centrale di questo fronte, cioè con quella regione che va dall'Egitto all'Anatolia passando dalle coste del Medio Oriente. Questa infatti era già di per sé l'area per antonomasia in cui si ibridavano e si sintetizzavano disparati approcci provenienti dal primo (Africa) e dal secondo (Asia) centro della storia umana. Da qui nuove, radicali sintesi e innovazioni hanno preso le mosse per diffondersi nello spazio europeo, laddove si sono nuovamente mescolate con apporti di origine ancora più disparata, producendo a loro volta nuove sintesi e nuove innovazioni. Di questa dinamica le vicende della diffusione dell'agricoltura e  quelle della diffusione della scrittura sono esempi probanti. Ma gli studi di autori come Walter Burkert e Martin Bernal vanno ancor oltre: ci dicono che anche il miracolo greco, l'emergenza della scienza, della filosofia e dello stesso soggetto occidentale possono essere compresi soltanto se si considera la Grecia come parte  di un sistema di scambi e di innovazioni culturali molto più ampio, di portata europea-asiatica-africana.

Molte vicende decisive del mondo antico e medioevale sono segnate dalle relazioni fra l'Europa e il suo ampio fronte di relazione con le civiltà asiatiche e nordafricane.  Persino il Rinascimento, come è noto, trae molte delle sue radici da un complicato circolo di traduzioni che portò le opere della Grecia classica nella Mesopotamia islamica e di lì fino all'estremo occidente dello stesso mondo islamico (la penisola iberica), da cui furono ricuperate alla cristianità occidentale.

Ma proprio nell'età del Rinascimento, che per molti versi era all'origine un'età di confinamento dell'Europa (l'espansione dei turchi ottomani aveva minacciato molte delle antiche vie di comunicazione tra l'Europa e le altre civiltà del vecchio mondo), si ebbe la proliferazione e la metamorfosi  dell'antica collocazione e dell'antica identità europea. Attorno al 1480 l'Europa cristiana, al di là di orgogliose dichiarazioni di principio, si percepiva come marginale, assediata, internamente scissa, incerta sul suo futuro e sul suo destino. Attorno al 1580, dopo l'età di Colombo e di Magellano, un semplice cittadino europeo si poteva recare da Siviglia a Hong Kong non lasciando mai il territorio e i mezzi di comunicazione della Spagna imperiale, in un circuito che collegava la Spagna ai Caraibi, al Messico, all'Oceano Pacifico, alle Filippine e alla Cina. Il sogno di Colombo di toccare il levante attraverso il ponente si era avverato in forme imprevedibili. L'Europa si era de-marginalizzata e si era liberata dalla pressione ottomana con un strategia di accerchiamento quanto mai inedita, che forse costituisce uno dei migliori esempi di pensiero laterale della storia. L'Europa si era planetarizzata.

Come è noto, nell'età planetaria che ha avuto inizio nel 1492, le interazioni fra l'Europa e il resto del mondo sono state, a grandi linee, di due tipi. In alcune aree del mondo, abitualmente caratterizzate da situazioni climatiche e da potenzialità ecologiche simili a quelle d'origine, la popolazione europea, accompagnata da piante e da animali europei, è dilagata, riducendo di gran lunga e nei peggiori dei casi soppiantando le popolazioni e i tratti degli ecosistemi originari. Si tratta, per dirla con l'espressione forte di Alfred W. Crosby, della costruzione di "Nuove Europe" vere e proprie: ciò ebbe luogo in gran parte dei continenti americani (e in ogni caso soprattutto nelle zone temperate dei continenti americani), nella Siberia e in altre zone dell'Asia settentrionale, in Australia, in Nuova Zelanda, in talune zone del Sudafrica. Le "nuove Europe" hanno rimescolato completamente le identità originarie del suolo europeo; hanno risucchiato milioni di persone rendendole cittadine di mondi che si sono definiti 'nuovi' senza per questo recidere i legami con il 'vecchio'. L'Europa è diventata un sotto-insieme di un civiltà che si auto-definisce come occidentale: per quanto voglia spesso apparire come omogenea, questa civiltà contiene invero al suo interno una notevole diversificazione. Tutto questo, naturalmente, ha assunto caratteri ancora più complessi nel corso dell'ultimo secolo, allorché ha avuto luogo a sua volta un processo di planetarizzazione politica ed economica di una "Nuova Europa" assai particolare: cioè gli Stati Uniti. Una parte dei processi di globalizzazione sono così l'effetto intrecciato della planetarizzazione della vecchia Europa e della planetarizzazione di una nuova Europa.

Ma in tante altre aree del mondo, e in particolare rispetto alle terre di antiche civiltà con cui l'Europa confinava direttamente, gli effetti della planetarizzazione europea sono stati assai differenti. I popoli europei hanno goduto, in molte aree, di fasi più o meno lunghe di predominio politico, ma mai il predominio politico si è tradotto in una consistente presenza etnica. Anzi, è avvenuto l'esatto contrario: le identità più o meno effimere degli imperi coloniali europei hanno posto le precondizioni perché molti abitanti delle aree africane e asiatiche (o caraibiche) di questi imperi scegliessero i paesi europei come loro terra di elezione, vi si radicassero e lasciassero discendenti. Oggi viviamo in una fase storica in cui, ad esempio, i cittadini francesi, inglesi e olandesi sono membri di società in una fase multietnica già piuttosto avanzata, già frutto di sintesi elaborate e stratificate fra l'Europa e molte altre parti del mondo, in cui non sempre gli antichi legami coloniali giocano il ruolo più importante. A questi processi si deve anche aggiungere il fatto che due stati di grande importanza storica e strategica come la Russia e la Turchia si definiscono a tutt'oggi stati euroasiatici, e possiedono, nella loro memoria come nella loro vita politica quotidiana, il senso profondo di una lunghissima storia che accomuna quella che oggi definiamo come Europa Orientale con quella che oggi definiamo come Asia centrale.

In altre parole, questo sguardo sull'Europa ci dice che, visto dal punto di vista dei confini esterni, non è mai esistito nulla di simile a una fortezza Europa o a invalicabili barriere. Al contrario, si è data e si dà una storia quanto mai ricca dei confini esterni dell'Europa, intesi come fascia di sovrapposizione fra le varie culture e civiltà che si sono dette europee (mette subito conto di ricordare come esse stesse siano state quanto mai plurali) e molte altre culture e civiltà dalle varie origini e dalle disparate collocazioni mondiali. Per quanto riguarda i confini esterni dell'Europa, è quanto mai attuale la metafora del confine come di una membrana in cui hanno luogo processi pertinenti di reazione e di filtraggio, e in cui l'accento è posto soprattutto sui flussi ininterrotti in entrambe le direzioni e non tanto su ciò che inevitabilmente si perde o si rallenta. Osservata da questo punto di vista, l'Europa è esistita ed esiste soltanto se inserita in questa dinamica di flussi e di controflussi, come un'entità che costruisce la sua unità (anche forte e stabile, ma sempre problematica e sempre revocabile) attraverso la tensione e i conflitti fra grandi correnti di civiltà mondiali e attraverso l'utilizzazione creativa di innumerevoli diversità di partenza.

Ancora più articolate e intricate sono le questioni relative alle identità e ai confini interni allo spazio culturale europeo. Anche in questo caso uno sguardo di antropologia globale, che mescoli i tempi brevi della cronaca con i tempi medi della storia e i tempi lunghi dell'evoluzione umana, può consentire di delineare taluni modelli, taluni pattern emergenti che  possono risultare utili punti di riferimento nelle incertezze "evenemenziali" del presente.

La prima riflessione al proposito è che l'Europa, alla pari di tutte le altre parti del mondo, è stata popolata per via locale, in seguito alla separazione e alla frammentazione di piccoli gruppi che per millenni hanno convissuto l'uno accanto all'altro, occupando spazi adiacenti con rapporti tutto sommato ridotti. A differenza delle altre parti del mondo, tuttavia, lo spazio geografico di gran parte dell'Europa è aperto, dominato da grandi pianure, senza rigide barriere geografiche o climatiche che lo separino nettamente da altri spazi (ad esempio, dall'Asia centrale). Ciò ha consentito che le migrazioni fossero più frequenti e più a vasto raggio che in altre parti del mondo. E ha prodotto un modello del popolamento in cui stirpi e strati etnici differenti si sovrapponevano in territori ristretti, raggiungendo talvolta una massa critica per dare origine a veri e propri insiemi multiculturali ante litteram. In particolare, questa è stata forse la condizione che ha singolarmente caratterizzato sin da tempi alquanto remoti le grandi penisole dell'Europa mediterranea: la Penisola Iberica, l'Italia, l'Ellade.

L'assoluto primato del locale è stata una costante della storia europea, come del resto della storia planetaria, fino a tempi assai recenti. In verità sarà soltanto la rivoluzione industriale, con le instabilità socio-economiche che ne conseguiranno come pure con le rivoluzioni dei trasporti e delle comunicazioni ad essa conseguente, a strappare il cittadino medio europeo da una condizione legata ai frutti della terra e ai ritmi delle stagioni, una condizione di eterno presente in cui il futuro era la ripetizione ciclica del passato e in cui l'irruzione dell'altro (fosse il sovrano in cerca di tasse o il guerriero in cerca di bottino) veniva percepita alla stessa stregua di una calamità naturale. Ma, molto prima che ciò avvenisse, l'Europa vide il sorgere di compagini politiche e di forme di civiltà più o meno coese che aspirarono a definirsi come universaliste. Soprattutto, le prospettive universaliste stanno alla radice stessa dell'attuale natura ed estensione dello spazio culturale europeo, nato attorno al 1000 in seguito a una rapida e vincente estensione (e metamorfosi) dello spazio della civiltà classica alle stirpi germaniche, slave, baltiche, finniche, magiare, tutte protagoniste dei secoli della grande migrazione dei popoli. Il tratto interessante è, che da allora in poi, non si trattò tanto di universalismo, bensì di universalismi europei, polarizzati essenzialmente attorno a due assi oppositivi. Il primo è quello che riguarda il centro e la lingua di civiltà: quella latina centrata su Roma e, rispettivamente, quella greca centrata su Bisanzio. Il secondo concerne invece le relazioni fra autorità religiosa e autorità politica: meno problematiche in oriente, al contrario esse condussero in occidente a una vera e propria divaricazione, a sua volta, delle forme del potere e delle aree di civiltà. Così il Sacro Romano Impero Germanico, che con Carlo Magno nacque traendo la sua legittimazione dal centro religioso di Roma, ben presto si autonomizzò e diventò un'istanza concorrente piuttosto che complementare al potere religioso. In questo gioco degli universalismi bisogna naturalmente includere anche la presenza dell'universalismo islamico, che ha modellato sin dal suo sorgere le identità di vari spazi del continente europeo.

Questi universalismi erano certo appannaggio di ristrette élites, spesso erano indicazioni di orizzonti ideali più che espressione di culture condivise. Tuttavia, hanno esercitato per secoli una funzione decisiva nell'arricchire e nel mettere in relazione le varie identità locali del nostro continente, comprese talune identità locali emergenti assai importanti (perché si differenziavano radicalmente per dinamismo economico, demografico e culturale dai contadi ad esse circostanti): le città e i liberi comuni.

Agli inizi dell'età moderna, il declino degli antichi universalismi e il sorgere della nuova forma istituzionale degli stati nazionali trasforma profondamente il quadro identitario europeo. Di fatto, lo stato nazionale dell'età moderna è stato la risposta vincente della civiltà europea all'enorme ampliamento di orizzonte conseguente alla svolta del 1492. Ha incarnato una strategia per mettere in relazione il locale e il globale, per aprire al gioco delle reciproche interazioni innumerevoli comunità piccole e chiuse su se stesse. Lo stato nazionale europeo si è generato come una sorta di interfaccia selettivo, capace di filtrare, di standardizzare e in qualche modo di ricostruire le identità locali per immergerle in un contesto economico e culturale che stava già vivendo gli antecedenti di un'era planetaria.

Ma se, vista dal basso, la funzione dello stato nazionale moderno è stata indubbiamente coesiva, dal punto di vista degli antichi universalismi lo stato nazionale moderno appare esercitare una funzione di rottura e di dissoluzione di antichi legami, di antiche solidarietà. Ciò che si situa al di fuori di confini nazionali in via di irrigidimento viene percepito sempre di meno come membro di una civiltà comune e sempre più come concorrente in un gioco a somma zero, e quindi da controbilanciare o da confinare con opportune strategie diplomatiche o belliche.

A un'Europa fondata essenzialmente su un dualismo identitario (il locale e l'universale), il progetto di stato nazionale propone di sostituire un'Europa dalle identità compresse ad un unico livello prevalente: quello di un stato che si costituisce per così dire a mezza strada, quale unico garante dei processi che coinvolgono individui e collettività in una rete sempre più globale.

Questo, naturalmente, è un tipo ideale, che tuttavia si è spinto spesso molto avanti nella sua realizzazione compiuta. Pensiamo infatti a come l'omologazione forzata, di tipo linguistico, religioso, culturale od etnico, prodotta dalle politiche meno felici nella storia complessiva degli stati nazionali abbia comportato lo stravolgimento del panorama identitario di buona parte del continente. Tuttavia la "pulizia etnica" (nel senso più ampi del termine) è solo una metà della storia. Lo stato nazionale, in uno stesso tempo, ha contribuito sia a semplificare che a complessificare le identità del nostro continente, a irrigidire e a rendere permeabili i suoi confini interni. Ha annullato antiche identità, ma ne ha anche prodotte di nuove. In questo senso il progetto dello stato nazionale europeo è sfociato in un'ambivalenza storica irriducibile.

Pensiamo ad esempio come molti universalismi (il panslavismo, il panturchismo, o il richiamo alla comune matrice ortodossa) siano stati intesi quasi come parte costitutiva di molti stati dell'Europa centro-orientale e abbiano guidato in molte occasioni le loro strategie politiche. Pensiamo che nell'età moderna siano di fatto nati nuovi universalismi, come quello comportato dal razionalismo settecentesco, che nel giro di pochi decenni fece convergere visoni e modi di vita delle élites politiche ed intellettuali di molte aree di Europa. Pensiamo, inoltre, ai molti modi in cui gli stati nazionali, al fine di generalizzare a tutti i loro cittadini l'appartenenza a un'identità coesa, abbiano utilizzato un eterogeneo repertorio di miti, di eroi, di narrazioni, appartenenti a molteplici tempi e a molteplici spazi delle loro comunità locali. Tutti gli elementi di questo repertorio, in qualche modo, sono stati ripresentificati e riautonomizzati, diventando spesso il cardine delle rivendicazioni delle comunità locali, in difesa di una loro specificità contro le spinte omologanti e livellanti del potere nazionale.

Ma, soprattutto, il tipo ideale dello stato nazionale deriva da una fusione niente affatto facile e diretta di due ordini di idee e di esperienze all'origine del tutto eterogenee: quello statale e quello nazionale, appunto; l'ordine giuridico-amministrativo da un lato e quello etnico-comunitario dall'altro; da un lato la dimensione della "patria" e dall'altro la dimensione della "matria". Se oggi osserviamo la mappa d'Europa questa fusione ci sembra realizzata e generalizzata: quasi tutti gli stati sono basati su una comunità nazionale ben definita, e quasi tutte le nazioni possiedono un loro stato oppure, talvolta, godono di forme di autogoverno all'interno di stati più ampi. Ma se poniamo mente alle vie molteplici, piene di tanti conflitti e contraddizioni, attraverso le quali questa fusione si è realizzata, ci rendiamo conto di come lo stato e la nazione abbiano mantenuto una tensione e una divergenza che moltiplica, piuttosto che appiattire, la pluralità delle relazioni identitarie fra gli individui, le collettività e le forme di autorità del nostro continente. Muovendoci su scale paneuropea, vedremo che molte volte sono stati gli stati a forgiare le nazioni, e molte altre volte sono state le nazioni a forgiare gli stati (via francese versus via tedesca); che i processi che vanno dall'alto in basso (per opera, ad esempio, delle dinastie regnanti francese, spagnola, inglese, portoghese...) sono stati altrettanto importanti dal basso all'alto (per opera, ad esempio, dei cantoni svizzeri o delle province unite dei Paesi Bassi); che anche nel caso delle nazioni preesistenti talvolta è stata la lingua comune a forgiare un senso di appartenenza comune, ma altre volte è successo esattamente il contrario, per cui un senso di appartenenza comune ha potuto costituire il retroterra per la costruzione di una lingua comune (è il caso italiano). Soprattutto, l'idea di nazione è sempre restata duplice, polarizzata fra la prospettiva dell'appartenenza per nascita a una comunità linguistico-culturale (è la concezione di Herder) e la prospettiva di appartenenza elettiva a una comunità, da confermare col “plebiscito di tutti i giorni” (è la concezione di Renan). Superficialmente si può parlare di via tedesca e di via francese alla nazione: ma se dall'universo dei tipi ideali scendiamo alla vita delle pratiche è chiaro come questi due tipi si siano in realtà mescolati persino nei casi originari tedesco e francese, e come la loro mescolanza abbia dato molte altre varianti in un contesto paneuropeo (comprendendo, anche e soprattutto, gli stati nazionali dell'Europa centro-orientale di nascita recente).

Oggi che i vincoli imposti agli stati nazionali dalle esigenze economiche, ecologiche, sociali, tecnologiche, persino spirituali del pianeta (vincoli che è invalso comprimere in modo forse semplificato ma comodo sotto l'etichetta di globalizzazione) stanno relativizzando le loro funzioni, non dobbiamo credere che questa relativizzazione equivalga necessariamente a un depotenziamento del loro potere identitario. Soltanto che, andando a vedere più da vicino questo potere identitario, questo si rivela quanto mai ricco, molteplice, duttile, ambivalente, ambiguo, pronto a essere utilizzato per il peggio o per il meglio. E oggi, evidentemente, la ricchezza delle matrici, delle radici e dei simboli identitari del nostro continente promette di generare una fitta rete di nuove narrazioni, a seconda delle connessioni attuate con la ri-emergenza delle comunità locali (siano esse di tipo cittadino, di tipo regionale, di tipo etnico...), con l'emergenza di un nuovo universalismo europeo e con l'emergenza di un nuovo universalismo planetario.

Conversazione tenuta presso la Fondazione "Serughetti La Porta"  il 26 novembre 1999 

Testo rivisto dall’Autore



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