Un
evento di grande importanza culturale, in questi ultimi anni, è senz'altro il
ravvivarsi e l'articolarsi dei dibattito e delle ricerche sull'identità e sulle
identità europee, delle singole nazioni come del continente intero. Molti
eventi hanno contribuito a questa focalizzazione dell'interesse, in positivo
come in negativo. In positivo: il crollo del Muro di Berlino e dei blocchi
contrapposti, gli sviluppi dell'Unione Europea, la nascita dell'Euro come
fattore di integrazione irreversibile non solo fra le economie, ma anche fra le
nazioni e i popoli europei. In negativo: i conflitti iugoslavi e balcanici, i
conflitti ancora più vasti che accerchiano l'Europa da ogni parte
(Mediterraneo, Medio Oriente, Caucaso), più in generale le rinascite o
l'indurimento di localismi, nazionalismi, etnicismi, fondamentalismi.
Pur
nella varietà degli approcci, da queste ricerche sull'identità e sulle identità
europee, che vedono oggi impegnati storici, filosofi, politologi, sociologi,
antropologi, e così via, emerge un tratto relativamente costante: l'immagine di
un continente senza confini rigidi, che è sempre stato sede di migrazioni, di
interazioni, di contrasti e di conflitti fra popoli e stirpi differenti, che
della diversità di radici ha fatto un elemento essenziale (anche se spesso
problematico) per i suoi sviluppi culturali e politici. Questa immagine, che
vale per il continente nel suo insieme, vale anche per i singoli stati e per le
singole nazioni: tutti quanti emergono come complesse costruzioni a partire da
una molteplicità e da una diversità di apporti fondativi. In nessun luogo,
nella storia europea, vi è stata una “purezza” etnica e culturale
originaria e assoluta.
Naturalmente,
la gran parte di queste ricerche sull’identità europea si è concentrata sul
nostro secolo e sui secoli immediatamente antecedenti, dell’età moderna o
dell’età medioevale. E’ importante però notare come anche le ricerche sul
mondo antico stiano attualmente sfociando sulla scoperta e sulla valorizzazione
di una pluralità di radici e di matrici, spesso conflittuali e contrastanti, di
quello che era stato assunto in modo abbastanza scontato come un unico mondo
classico, in se stesso conchiuso. Paradigmatico il caso della civiltà della
Grecia “classica”: in tutti i suoi aspetti, dal vocabolario alle
istituzioni, dalle idee alla spiritualità, essa si sta rivelando sempre di più
il risultato di una tormentata ibridazione di apporti culturali delle più
diverse origini, che spaziano dall’Europa all’Africa, dal Medio Oriente alle
steppe dell’Asia Centrale e alla stessa India.
Di più,
si sta delineando una storia dei tempi lunghi del popolamento dell'Europa a cui
prendono parte, in maniera fortemente transdisciplinare, i contributi della
genetica delle popolazioni, della linguistica storica e comparata,
dell'archeologia, della paleobotanica, dello studio comparato dei miti e delle
tradizioni spirituali. Antiche questioni vengono rigenerate e trasfigurate. Oggi
sono all’ordine del giorno feconde controversie sull’origine, sulle
migrazioni e sulle diversificazioni dei popoli indoeuropei; sulle loro relazioni
con i popoli non indoeuropei con cui hanno interagito nel corso dei millenni;
sulle relazioni fra lingue, culture e spiritualità che hanno caratterizzato
questi popoli; sull’enigma della lingua basca e le sue possibili relazioni con
lingue di altre parti del mondo...
In realtà,
affrontare la multiforme questione della natura, dell'origine e dell'evoluzione
delle identità europee e dei confini europei (a qualunque scala e da qualunque
prospettiva ci si collochi: locale, nazionale e/o continentale, interna o
esterna, ecc.) ci impone di intrecciare costantemente i tempi brevi della
cronaca, i tempi medi della storia, i tempi lunghi dell'evoluzione umana. Ci
impone altresì uno sforzo transdisciplinare, di cui i campi disciplinari sopra
citati (dalla storia alla filosofia, dalla politologia alla sociologia,
dall'antropologia alla genetica delle popolazioni, dalla linguistica storica e
comparata all'archeologia, dalla paleobotanica allo studio comparato dei miti e
delle tradizioni spirituali) sono alcuni dei principali attori. Nelle brevi note
che seguiranno vorremmo semplicemente tratteggiare alcune prospettive
introduttive per un programma di ricerca di questo genere.
Prendiamo
le mosse da un fatto sul quale la comunità degli studiosi ha oggi raggiunto una
buona uniformità di vedute: l'origine africana della specie umana moderna.
Dall'Africa, la specie umana moderna ha preso le mosse per popolare, con
un'avventura di grande successo, tutti i continenti e tutte le isole di una
certa estensione del nostro pianeta. La prima grande migrazione fuori
dall'Africa portò gruppi della nostra specie verso il Medio Oriente, l'India,
l'Indocina, l'Indonesia, in una catena di mari e di terre che a grandi linee si
snodava orizzontalmente, nella stessa fascia tropicale delle origini.
Successivamente dall'Asia sudorientale diversi rami umani iniziarono a prendere
direzioni eterogenee: alcuni popolarono la Nuova Guinea e l'Australia, altri si
insediarono nell'Asia orientale, altri ancora si spinsero in un'Asia
settentrionale dal clima notevolmente rigido. Se l'Africa è stato,
cronologicamente, il primo centro di diffusione della specie umana, l'Asia ne è
così
diventato a molti effetti il secondo. Dall'Asia, in verità, sono stati popolati
gli altri continenti: l'Australia attraverso il Mare di Timor e gli stretti di
Torres; le Americhe attraverso una striscia di terra emersa durante l'ultima
glaciazione in corrispondenza dell'attuale stretto di Bering. Molto
probabilmente dall'Asia è stata popolata in gran parte anche l'Europa: per vie
differenti che coinvolgono il Medio Oriente, il Caucaso, l'Asia centrale, e le
steppe a nord del Mar Caspio e del Mar Nero.
I
tempi lunghi della storia della specie umana ci aiutano a comprendere talune
specificità europee. L'Europa è una terra a ridosso sia del primo che del
secondo centro dell'umanità, e il suo popolamento più antico è fatto
attraverso una serie di ondate migratorie che provenivano da entrambi questi
centri. La componente asiatica è predominante, ma nell'Europa occidentale
alcune migrazioni hanno seguito la strada che dall'Africa attraversa la porta di
Gibilterra: con tutta probabilità, inoltre, anche
grandi isole del Mediterraneo come la Sardegna o Creta sono state la meta
di stirpi di origine nordafricana. In ogni caso, le indagini genetiche di Luca
Cavalli Sforza, Paolo Menozzi e Alberto Piazza ci offrono un identikit sintetico
dei geni delle popolazioni europee di natura probante: visto su scala
planetaria, il bagaglio genetico degli europei è quasi a metà strada fra le
popolazioni asiatiche e le popolazioni africane, è una sorta di sovrapposizione
di alcuni tratti genetici ad esse caratteristici.
L'Europa,
dunque, entra nella storia come crogiolo e sintesi di stirpi e culture dalle
origini e dalla natura quanto mai disparata, attraverso un ampio fronte di
diffusione e di interazione che va dall'Atlantico all'Asia centrale passando per
il Mediterraneo, il Medio Oriente, la Penisola anatolica, il Caucaso, e le
steppe ponto-caspiche (situate tra il Mar Nero e il Mar Caspio). In particolare,
assai intensa è stata la relazione dell'insieme del continente europeo con la
parte centrale di questo fronte, cioè con quella regione che va dall'Egitto
all'Anatolia passando dalle coste del Medio Oriente. Questa infatti era già di
per sé l'area per antonomasia in cui si ibridavano e si sintetizzavano
disparati approcci provenienti dal primo (Africa) e dal secondo (Asia) centro
della storia umana. Da qui nuove, radicali sintesi e innovazioni hanno preso le
mosse per diffondersi nello spazio europeo, laddove si sono nuovamente mescolate
con apporti di origine ancora più disparata, producendo a loro volta nuove
sintesi e nuove innovazioni. Di questa dinamica le vicende della diffusione
dell'agricoltura e quelle della
diffusione della scrittura sono esempi probanti. Ma gli studi di autori come
Walter Burkert e Martin Bernal vanno ancor oltre: ci dicono che anche il
miracolo greco, l'emergenza della scienza, della filosofia e dello stesso
soggetto occidentale possono essere compresi soltanto se si considera la Grecia
come parte di un sistema di scambi
e di innovazioni culturali molto più ampio, di portata
europea-asiatica-africana.
Molte
vicende decisive del mondo antico e medioevale sono segnate dalle relazioni fra
l'Europa e il suo ampio fronte di relazione con le civiltà asiatiche e
nordafricane. Persino il
Rinascimento, come è noto, trae molte delle sue radici da un complicato circolo
di traduzioni che portò le opere della Grecia classica nella Mesopotamia
islamica e di lì fino all'estremo occidente dello stesso mondo islamico (la
penisola iberica), da cui furono ricuperate alla cristianità occidentale.
Ma
proprio nell'età del Rinascimento, che per molti versi era all'origine un'età
di confinamento dell'Europa (l'espansione dei turchi ottomani aveva minacciato
molte delle antiche vie di comunicazione tra l'Europa e le altre civiltà del
vecchio mondo), si ebbe la proliferazione e la metamorfosi
dell'antica collocazione e dell'antica identità europea. Attorno al 1480
l'Europa cristiana, al di là di orgogliose dichiarazioni di principio, si
percepiva come marginale, assediata, internamente scissa, incerta sul suo futuro
e sul suo destino. Attorno al 1580, dopo l'età di Colombo e di Magellano, un
semplice cittadino europeo si poteva recare da Siviglia a Hong Kong non
lasciando mai il territorio e i mezzi di comunicazione della Spagna imperiale,
in un circuito che collegava la Spagna ai Caraibi, al Messico, all'Oceano
Pacifico, alle Filippine e alla Cina. Il sogno di Colombo di toccare il levante
attraverso il ponente si era avverato in forme imprevedibili. L'Europa si era
de-marginalizzata e si era liberata dalla pressione ottomana con un strategia di
accerchiamento quanto mai inedita, che forse costituisce uno dei migliori esempi
di pensiero laterale della storia. L'Europa si era planetarizzata.
Come
è noto, nell'età planetaria che ha avuto inizio nel 1492, le interazioni fra
l'Europa e il resto del mondo sono state, a grandi linee, di due tipi. In alcune
aree del mondo, abitualmente caratterizzate da situazioni climatiche e da
potenzialità ecologiche simili a quelle d'origine, la popolazione europea,
accompagnata da piante e da animali europei, è dilagata, riducendo di gran
lunga e nei peggiori dei casi soppiantando le popolazioni e i tratti degli
ecosistemi originari. Si tratta, per dirla con l'espressione forte di Alfred W.
Crosby, della costruzione di "Nuove Europe" vere e proprie: ciò ebbe
luogo in gran parte dei continenti americani (e in ogni caso soprattutto nelle
zone temperate dei continenti americani), nella Siberia e in altre zone
dell'Asia settentrionale, in Australia, in Nuova Zelanda, in talune zone del
Sudafrica. Le "nuove Europe" hanno rimescolato completamente le
identità originarie del suolo europeo; hanno risucchiato milioni di persone
rendendole cittadine di mondi che si sono definiti 'nuovi' senza per questo
recidere i legami con il 'vecchio'. L'Europa è diventata un sotto-insieme di un
civiltà che si auto-definisce come occidentale: per quanto voglia spesso
apparire come omogenea, questa civiltà contiene invero al suo interno una
notevole diversificazione. Tutto questo, naturalmente, ha assunto caratteri
ancora più complessi nel corso dell'ultimo secolo, allorché ha avuto luogo a
sua volta un processo di planetarizzazione politica ed economica di una
"Nuova Europa" assai particolare: cioè gli Stati Uniti. Una parte dei
processi di globalizzazione sono così l'effetto intrecciato della
planetarizzazione della vecchia Europa e della planetarizzazione di una nuova
Europa.
Ma
in tante altre aree del mondo, e in particolare rispetto alle terre di antiche
civiltà con cui l'Europa confinava direttamente, gli effetti della
planetarizzazione europea sono stati assai differenti. I popoli europei hanno
goduto, in molte aree, di fasi più o meno lunghe di predominio politico, ma mai
il predominio politico si è tradotto in una consistente presenza etnica. Anzi,
è avvenuto l'esatto contrario: le identità più o meno effimere degli imperi
coloniali europei hanno posto le precondizioni perché molti abitanti delle aree
africane e asiatiche (o caraibiche) di questi imperi scegliessero i paesi
europei come loro terra di elezione, vi si radicassero e lasciassero
discendenti. Oggi viviamo in una fase storica in cui, ad esempio, i cittadini
francesi, inglesi e olandesi sono membri di società in una fase multietnica già
piuttosto avanzata, già frutto di sintesi elaborate e stratificate fra l'Europa
e molte altre parti del mondo, in cui non sempre gli antichi legami coloniali
giocano il ruolo più importante. A questi processi si deve anche aggiungere il
fatto che due stati di grande importanza storica e strategica come la Russia e
la Turchia si definiscono a tutt'oggi stati euroasiatici, e possiedono, nella
loro memoria come nella loro vita politica quotidiana, il senso profondo di una
lunghissima storia che accomuna quella che oggi definiamo come Europa Orientale
con quella che oggi definiamo come Asia centrale.
In
altre parole, questo sguardo sull'Europa ci dice che, visto dal punto di vista
dei confini esterni, non è mai esistito nulla di simile a una fortezza Europa o
a invalicabili barriere. Al contrario, si è data e si dà una storia quanto mai
ricca dei confini esterni dell'Europa, intesi come fascia di sovrapposizione fra
le varie culture e civiltà che si sono dette europee (mette subito conto di
ricordare come esse stesse siano state quanto mai plurali) e molte altre culture
e civiltà dalle varie origini e dalle disparate collocazioni mondiali. Per
quanto riguarda i confini esterni dell'Europa, è quanto mai attuale la metafora
del confine come di una membrana in cui hanno luogo processi pertinenti di
reazione e di filtraggio, e in cui l'accento è posto soprattutto sui flussi
ininterrotti in entrambe le direzioni e non tanto su ciò che inevitabilmente si
perde o si rallenta. Osservata da questo punto di vista, l'Europa è esistita ed
esiste soltanto se inserita in questa dinamica di flussi e di controflussi, come
un'entità che costruisce la sua unità (anche forte e stabile, ma sempre
problematica e sempre revocabile) attraverso la tensione e i conflitti fra
grandi correnti di civiltà mondiali e attraverso l'utilizzazione creativa di
innumerevoli diversità di partenza.
Ancora
più articolate e intricate sono le questioni relative alle identità e ai
confini interni allo spazio culturale europeo. Anche in questo caso uno sguardo
di antropologia globale, che mescoli i tempi brevi della cronaca con i tempi
medi della storia e i tempi lunghi dell'evoluzione umana, può consentire di
delineare taluni modelli, taluni pattern emergenti che
possono risultare utili punti di riferimento nelle incertezze
"evenemenziali" del presente.
La
prima riflessione al proposito è che l'Europa, alla pari di tutte le altre
parti del mondo, è stata popolata per via locale, in seguito alla separazione e
alla frammentazione di piccoli gruppi che per millenni hanno convissuto l'uno
accanto all'altro, occupando spazi adiacenti con rapporti tutto sommato ridotti.
A differenza delle altre parti del mondo, tuttavia, lo spazio geografico di gran
parte dell'Europa è aperto, dominato da grandi pianure, senza rigide barriere
geografiche o climatiche che lo separino nettamente da altri spazi (ad esempio,
dall'Asia centrale). Ciò ha consentito che le migrazioni fossero più frequenti
e più a vasto raggio che in altre parti del mondo. E ha prodotto un modello del
popolamento in cui stirpi e strati etnici differenti si sovrapponevano in
territori ristretti, raggiungendo talvolta una massa critica per dare origine a
veri e propri insiemi multiculturali ante
litteram. In particolare, questa è stata forse la condizione che ha
singolarmente caratterizzato sin da tempi alquanto remoti le grandi penisole
dell'Europa mediterranea: la Penisola Iberica, l'Italia, l'Ellade.
L'assoluto
primato del locale è stata una costante della storia europea, come del resto
della storia planetaria, fino a tempi assai recenti. In verità sarà soltanto
la rivoluzione industriale, con le instabilità socio-economiche che ne
conseguiranno come pure con le rivoluzioni dei trasporti e delle comunicazioni
ad essa conseguente, a strappare il cittadino medio europeo da una condizione
legata ai frutti della terra e ai ritmi delle stagioni, una condizione di eterno
presente in cui il futuro era la ripetizione ciclica del passato e in cui
l'irruzione dell'altro (fosse il sovrano in cerca di tasse o il guerriero in
cerca di bottino) veniva percepita alla stessa stregua di una calamità
naturale. Ma, molto prima che ciò avvenisse, l'Europa vide il sorgere di
compagini politiche e di forme di civiltà più o meno coese che aspirarono a
definirsi come universaliste. Soprattutto, le prospettive universaliste stanno
alla radice stessa dell'attuale natura ed estensione dello spazio culturale
europeo, nato attorno al 1000 in seguito a una rapida e vincente estensione (e
metamorfosi) dello spazio della civiltà classica alle stirpi germaniche, slave,
baltiche, finniche, magiare, tutte protagoniste dei secoli della grande
migrazione dei popoli. Il tratto interessante è, che da allora in poi, non si
trattò tanto di universalismo, bensì di universalismi europei, polarizzati
essenzialmente attorno a due assi oppositivi. Il primo è quello che riguarda il
centro e la lingua di civiltà: quella latina centrata su Roma e,
rispettivamente, quella greca centrata su Bisanzio. Il secondo concerne invece
le relazioni fra autorità religiosa e autorità politica: meno problematiche in
oriente, al contrario esse condussero in occidente a una vera e propria
divaricazione, a sua volta, delle forme del potere e delle aree di civiltà. Così
il Sacro Romano Impero Germanico, che con Carlo Magno nacque traendo la sua
legittimazione dal centro religioso di Roma, ben presto si autonomizzò e diventò
un'istanza concorrente piuttosto che complementare al potere religioso. In
questo gioco degli universalismi bisogna naturalmente includere anche la
presenza dell'universalismo islamico, che ha modellato sin dal suo sorgere le
identità di vari spazi del continente europeo.
Questi
universalismi erano certo appannaggio di ristrette élites,
spesso erano indicazioni di orizzonti ideali più che espressione di culture
condivise. Tuttavia, hanno esercitato per secoli una funzione decisiva
nell'arricchire e nel mettere in relazione le varie identità locali del nostro
continente, comprese talune identità locali emergenti assai importanti (perché
si differenziavano radicalmente per dinamismo economico, demografico e culturale
dai contadi ad esse circostanti): le città e i liberi comuni.
Agli
inizi dell'età moderna, il declino degli antichi universalismi e il sorgere
della nuova forma istituzionale degli stati nazionali trasforma profondamente il
quadro identitario europeo. Di fatto, lo stato nazionale dell'età moderna è
stato la risposta vincente della civiltà europea all'enorme ampliamento di
orizzonte conseguente alla svolta del 1492. Ha incarnato una strategia per
mettere in relazione il locale e il globale, per aprire al gioco delle
reciproche interazioni innumerevoli comunità piccole e chiuse su se stesse. Lo
stato nazionale europeo si è generato come una sorta di interfaccia selettivo,
capace di filtrare, di standardizzare e in qualche modo di ricostruire le
identità locali per immergerle in un contesto economico e culturale che stava
già vivendo gli antecedenti di un'era planetaria.
Ma
se, vista dal basso, la funzione dello stato nazionale moderno è stata
indubbiamente coesiva, dal punto di vista degli antichi universalismi lo stato
nazionale moderno appare esercitare una funzione di rottura e di dissoluzione di
antichi legami, di antiche solidarietà. Ciò che si situa al di fuori di
confini nazionali in via di irrigidimento viene percepito sempre di meno come
membro di una civiltà comune e sempre più come concorrente in un gioco a somma
zero, e quindi da controbilanciare o da confinare con opportune strategie
diplomatiche o belliche.
A
un'Europa fondata essenzialmente su un dualismo identitario (il locale e
l'universale), il progetto di stato nazionale propone di sostituire un'Europa
dalle identità compresse ad un unico livello prevalente: quello di un stato che
si costituisce per così dire a mezza strada, quale unico garante dei processi
che coinvolgono individui e collettività in una rete sempre più globale.
Questo,
naturalmente, è un tipo ideale, che tuttavia si è spinto spesso molto avanti
nella sua realizzazione compiuta. Pensiamo infatti a come l'omologazione
forzata, di tipo linguistico, religioso, culturale od etnico, prodotta dalle
politiche meno felici nella storia complessiva degli stati nazionali abbia
comportato lo stravolgimento del panorama identitario di buona parte del
continente. Tuttavia la "pulizia etnica" (nel senso più ampi del
termine) è solo una metà della storia. Lo stato nazionale, in uno stesso
tempo, ha contribuito sia a semplificare che a complessificare le identità del
nostro continente, a irrigidire e a rendere permeabili i suoi confini interni.
Ha annullato antiche identità, ma ne ha anche prodotte di nuove. In questo
senso il progetto dello stato nazionale europeo è sfociato in un'ambivalenza
storica irriducibile.
Pensiamo
ad esempio come molti universalismi (il panslavismo, il panturchismo, o il
richiamo alla comune matrice ortodossa) siano stati intesi quasi come parte
costitutiva di molti stati dell'Europa centro-orientale e abbiano guidato in
molte occasioni le loro strategie politiche. Pensiamo che nell'età moderna
siano di fatto nati nuovi universalismi, come quello comportato dal razionalismo
settecentesco, che nel giro di pochi decenni fece convergere visoni e modi di
vita delle élites politiche ed
intellettuali di molte aree di Europa. Pensiamo, inoltre, ai molti modi in cui
gli stati nazionali, al fine di generalizzare a tutti i loro cittadini
l'appartenenza a un'identità coesa, abbiano utilizzato un eterogeneo repertorio
di miti, di eroi, di narrazioni, appartenenti a molteplici tempi e a molteplici
spazi delle loro comunità locali. Tutti gli elementi di questo repertorio, in
qualche modo, sono stati ripresentificati e riautonomizzati, diventando spesso
il cardine delle rivendicazioni delle comunità locali, in difesa di una loro
specificità contro le spinte omologanti e livellanti del potere nazionale.
Ma,
soprattutto, il tipo ideale dello stato nazionale deriva da una fusione niente
affatto facile e diretta di due ordini di idee e di esperienze all'origine del
tutto eterogenee: quello statale e quello nazionale, appunto; l'ordine
giuridico-amministrativo da un lato e quello etnico-comunitario dall'altro; da
un lato la dimensione della "patria" e dall'altro la dimensione della
"matria". Se oggi osserviamo la mappa d'Europa questa fusione ci
sembra realizzata e generalizzata: quasi tutti gli stati sono basati su una
comunità nazionale ben definita, e quasi tutte le nazioni possiedono un loro
stato oppure, talvolta, godono di forme di autogoverno all'interno di stati più
ampi. Ma se poniamo mente alle vie molteplici, piene di tanti conflitti e
contraddizioni, attraverso le quali questa fusione si è realizzata, ci rendiamo
conto di come lo stato e la nazione abbiano mantenuto una tensione e una
divergenza che moltiplica, piuttosto che appiattire, la pluralità delle
relazioni identitarie fra gli individui, le collettività e le forme di autorità
del nostro continente. Muovendoci su scale paneuropea, vedremo che molte volte
sono stati gli stati a forgiare le nazioni, e molte altre volte sono state le
nazioni a forgiare gli stati (via francese versus
via tedesca); che i processi che vanno dall'alto in basso (per opera, ad
esempio, delle dinastie regnanti francese, spagnola, inglese, portoghese...)
sono stati altrettanto importanti dal basso all'alto (per opera, ad esempio, dei
cantoni svizzeri o delle province unite dei Paesi Bassi); che anche nel caso
delle nazioni preesistenti talvolta è stata la lingua comune a forgiare un
senso di appartenenza comune, ma altre volte è successo esattamente il
contrario, per cui un senso di appartenenza comune ha potuto costituire il
retroterra per la costruzione di una lingua comune (è il caso italiano).
Soprattutto, l'idea di nazione è sempre restata duplice, polarizzata fra la
prospettiva dell'appartenenza per nascita a una comunità linguistico-culturale
(è la concezione di Herder) e la prospettiva di appartenenza elettiva a una
comunità, da confermare col “plebiscito di tutti i giorni” (è la
concezione di Renan). Superficialmente si può parlare di via tedesca e di via
francese alla nazione: ma se dall'universo dei tipi ideali scendiamo alla vita
delle pratiche è chiaro come questi due tipi si siano in realtà mescolati
persino nei casi originari tedesco e francese, e come la loro mescolanza abbia
dato molte altre varianti in un contesto paneuropeo (comprendendo, anche e
soprattutto, gli stati nazionali dell'Europa centro-orientale di nascita
recente).
Oggi
che i vincoli imposti agli stati nazionali dalle esigenze economiche,
ecologiche, sociali, tecnologiche, persino spirituali del pianeta (vincoli che
è invalso comprimere in modo forse semplificato ma comodo sotto l'etichetta di
globalizzazione) stanno relativizzando le loro funzioni, non dobbiamo credere
che questa relativizzazione equivalga necessariamente a un depotenziamento del
loro potere identitario. Soltanto che, andando a vedere più da vicino questo
potere identitario, questo si rivela quanto mai ricco, molteplice, duttile,
ambivalente, ambiguo, pronto a essere utilizzato per il peggio o per il meglio.
E oggi, evidentemente, la ricchezza delle matrici, delle radici e dei simboli
identitari del nostro continente promette di generare una fitta rete di nuove
narrazioni, a seconda delle connessioni attuate con la ri-emergenza delle
comunità locali (siano esse di tipo cittadino, di tipo regionale, di tipo
etnico...), con l'emergenza di un nuovo universalismo europeo e con l'emergenza
di un nuovo universalismo planetario.
Conversazione tenuta presso la Fondazione "Serughetti La
Porta" il 26 novembre 1999
Testo
rivisto dall’Autore
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