Fra le
caratteristiche del Novecento, sicuramente rilevante è la
"nazionalizzazione delle masse", un termine che ha avuto fortuna dopo
essere stato introdotto negli anni settanta da un libro dello storico George
Mosse, scomparso recentemente. E' un termine entrato nell'uso comune a
testimoniare le forme attraverso cui interi popoli diventano "nazione"
e si sentono appartenenti ad una specifica e storica identità con
caratteristiche territoriali e culturali molto precise.
A dimostrare l'attualità del termine
si può citare il caso della Francia, dove il libro di Mosse è appena stato
tradotto e se ne discute come di un grande evento culturale, come se fosse opera
recente.
Alla riflessione
iniziata da Mosse negli anni settanta è seguita una serie di approfondimenti -
che hanno articolato la questione - sulle simbologie, sui comportamenti ed i
riti collettivi. Partendo dallo studio di Mosse, incentrato soprattutto attorno
all'esperienza del nazismo e dei fascismi, il discorso si è allargato a tutte
le società contemporanee di massa. Il nazionalismo e la nazionalizzazione delle
masse rappresentano infatti il legame fra l'Ottocento e il Novecento, l'elemento
di continuità fra un secolo, l'Ottocento, dove, almeno per quanto riguarda la
storia europea,
lo Stato ha costituito l'elemento forse ed il Novecento.
Quindi la
"nazionalizzazione delle masse" può essere un proficuo trait
d'union per leggere la storia sul lungo periodo.
La costruzione di
miti, simboli, credenze collettive, ideologie, o almeno di parte delle ideologie
contemporanee, costituiscono, rispetto a quella faccia
tecnico-economica-scientifica che ha caratterizzato il secolo appena conclusosi,
l'altra faccia della modernità. Nel mezzo, a metà fra queste due realtà,
troviamo la politica, che nel Novecento è stata un intreccio a volte tragico,
altre grottesco, di queste due facce, dell'elemento irrazionale e di quello
razionale, del coinvolgimento collettivo, emotivo e dei tentativi di pianificare
e controllare la storia.
Il processo che ha
accompagnato la nazionalizzazione delle masse ha modificato il modo stesso con
cui l'identità nazionale si crea e si ricrea continuamente. Nell'Ottocento essa
è soprattutto appannaggio di élite che si ampliano, ma solamente con la
nazionalizzazione delle masse diventa patrimonio collettivo.
Il problema
dell'identità si è ulteriormente complicato negli ultimi anni del secolo:
abbiamo assistito con l'89, data simbolica, alla fine delle grandi ideologie, o
di alcune grandi ideologie, di alcune grandi religioni politiche e degli
universalismi del XX secolo che hanno sempre avuto bisogno di miti, di simboli,
di liturgie per poter avere consenso ed efficacia. Parallelamente è avvenuta
una rinascita dei nazionalismi o addirittura di localismi, spesso proprio sul
crollo degli universalismi. Credo che il caso della ex Jugoslavia abbia dato una
palese dimostrazione di questo. Ma possiamo pensare anche alla diffusione in
Italia di fenomeni di tipo culturale, o sottoculturale, come quello leghista,
accompagnati dal fenomeno della globalizzazione che ha marciato con un dinamismo
e con una rapidità impressionanti, soprattutto per quanto riguarda il
linguaggio e le mode della comunicazione. Basti osservare che musica ascoltano o
come si vestono i giovani di ogni latitudine del mondo, sia in circostanze di
ricchezza che di arretratezza, per rendersi conto che questo fenomeno
costituisce una novità e una rottura rispetto al passato.
Sempre in quest'ultimo
ventennio si è moltiplicato anche quello che è stato chiamato da parte di
molti un "abuso della memoria" o anche una "ossessione del
passato". Fenomeni che, paradossalmente, hanno luogo proprio mentre i mezzi
di comunicazione di massa, prima fra tutti la televisione con quel suo effetto
oggettivo prima ancora che soggettivo, tendono ad una continua presentizzazione
della storia, riducendola sempre più all'attualità, proponendola come un fatto
fra i tanti del presente e dell'attualità.
Accanto a ciò naturalmente si ha anche quello che si chiama "uso
pubblico della storia". Un uso che non sempre è univoco:
vi è un uso pubblico di tipo divulgativo, educativo, formativo; vi è un
uso pubblico di tipo più dichiaratamente propagandistico, di
strumentalizzazione; vi è, infine, un uso pubblico come volontà di legittimare
delle posizioni, delle storie, dei brandelli di identità che vogliono assumere
una maggiore identità.
Spesso, negli ultimi anni, alcuni processi o
occasioni giudiziarie, sono stati i momenti in cui l’abuso della memoria e
l’uso pubblico della storia hanno fatto le loro prove più interessanti, o
almeno più eclatanti. Secondo questa prospettiva il punto di partenza
non è, però, quello degli ultimi anni, bensì si colloca più indietro:
è il 1961, anno del processo Eichmann, che non costituisce solo un importante
momento di svolta nella coscienza collettiva, europea e mondiale, sulla shoà,
ma anche un momento di svolta fondamentale nell'identità dello stato israeliano
che per la prima volta tenta di far entrare la shoà come elemento determinante,
e non solo vittimistico, della formazione dello stato di Israele.
Negli ultimi anni
la storiografia israeliana è stata oggetto di forti revisionismi che hanno
letteralmente riscritto soprattutto la recente storia degli anni compresi fra la
fine della guerra e la proclamazione dello stato di Israele. Più volte sono
state messe sotto accusa le costruzioni oleografiche, ufficiali o
ufficiose e retoriche che da sempre accompagnano la storia di Israele.
Naturalmente è ovvio che qualsiasi stato, al momento della sua fondazione,
si autorappresenti con una storia in cui difficilmente sono presenti
tanti chiaroscuri: nel caso di Israele vi era il tentativo, riuscito, di
costruire una identità e una memoria storica che nell'immediato servissero a
rafforzare i bisogni collettivi del nuovo stato.
Nei confronti
della shoà questo significava dare un quadro a tutto tondo in cui non
comparivano , per esempio, le differenze di atteggiamento interne ai diversi
ghetti. Differenze che compariranno, invece, dopo il processo Eichmann, nel
corso del quale emerse che, se il ghetto di Varsavia insorse, nel ghetto di Lodz
in Polonia, prevalse invece un atteggiamento addirittura di compromesso con le
autorità naziste per cercare di salvare il maggior numero possibile degli ebrei
residenti.
Un altro esempio
di revisione della storia è l’atteggiamento tenuto nei confronti delle
popolazioni arabe durante la guerra. Gli eventi, nella ricostruzione ufficiale,
avevano avuto una formulazione fortemente retorica e semplificata, mentre
vengono oggi ripercorsi tenendo conto delle diverse spinte esistenti e delle
diverse forze che hanno contribuito alla costruzione dello stato di Israele. Ciò
è stato possibile perché, nel frattempo, la storia di Israele si è modificata
e Israele è divenuto uno stato che non teme più, come in principio, la
possibilità di essere annientato dai paesi vicini. Israele, inoltre, è un
paese che ha visto al suo interno profonde modificazioni da un punto di vista
demografico, per le forti immigrazioni che si sono avute da ogni parte del
mondo, con il risultato di un forte squilibrio - o riequilibrio - fra le diverse
componenti dell'ebraismo della diaspora presenti all'inizio degli anni '40, nel
momento della fondazione dello stato. Una popolazione in cui, ormai, ci sono
anche diverse generazioni che sono nate israeliane e che non conoscono altra
storia se non quella dello stato di Israele. Al contrario, i cittadini dei primi
anni di vita dello stato avevano identità, origini e radici diverse, spesso
conflittuali, che necessitavano di un forte sforzo comune per poter progettare
un futuro insieme.
In altri esempi più
recenti l'aspetto giudiziario ha avuto un ruolo forte di rilancio della
questione identitaria.
In Francia il
processo Papon ha, per la prima volta, messo sotto accusa in modo complessivo il
regime di Vichy. Il rapporto della Francia con questo momento della sua storia
ne fa un caso emblematico. Il silenzio sul
regime di Vichy, messo fra parentesi nella coscienza collettiva e nella
memoria storica dell'intero paese, è stata opera progressiva sia di De Gaulle e
del gaullismo, che avevano bisogno di rilanciare nel mondo la propria immagine
di rappresentanti della resistenza antitedesca e del nazionalismo francese, sia,
successivamente, anche del socialismo mitterandiano. Infatti gran parte dei seguaci e dei protagonisti di primo
piano del regime di Mitterand avevano iniziato la loro carriera statuale proprio
durante la Francia di Vichy e, quindi, ne erano in qualche modo coinvolti. Non
era immaginabile il riconoscimento di una continuità, anche a livello
individuale, tra queste due esperienze.
In Italia, il caso
del processo Priebke ha riproposto, come altre volte in passato, la discussione
spesso artificiale e assurda sull'attentato di via Rasella e l'eccidio delle
Fosse Ardeatine. La discussione ha, d’altra parte, permesso che dell'attentato
di via Rasella venisse fatta una ricostruzione storica come quella del
bellissimo libro di Portelli "E l'ordine venne eseguito", edito lo
scorso anno da Donzelli. Il libro non è solo un racconto dell'eccidio delle
Fosse Ardeatine, ma una raccolta delle voci che all'epoca e successivamente si
sono create attorno a questo tragico evento, una costruzione di una memoria
storica spesso decisamente in contraddizione con la realtà di fatti facilmente
ricostruibili.
A proposito di
questi due tragici eventi, il dibattito politico-ideologico è spesso ruotato
attorno ad una sola questione: i tedeschi non avrebbero ucciso e decimato le
persone che poi morirono se i responsabili dell'attentato si fossero consegnati.
Questa leggenda è assolutamente falsa perché le prime notizie riguardo
all'attentato di via Rasella si ebbero, e le diedero i tedeschi stessi, quando
già era avvenuto l'eccidio delle Fosse Ardeatine. Quindi non ci sarebbe stata
nessuna possibilità materiale, temporale e tecnica di evitare questa tragedia.
Nella ricostruzione che Portelli ha fatto della vicenda compaiono addirittura
famigliari di alcune delle vittime delle Fosse Ardeatine che credono o ricordano
di aver sentito per radio il messaggio che invitava i responsabili a
consegnarsi; fatto che risulta non vero da un riscontro effettuato negli stessi
archivi radiofonici. Ciò sottolinea come l'identità e la memoria di un
avvenimento, che possono costituire una tappa importante in un'identità
collettiva, conoscono vicende che sono tutt'altro che lineari e facili.
Un altro caso
giudiziario è giunto di recente a
conclusione: riguarda il generale Pinochet in Cile e ha comportato la
riproposizione di una polemica, anche storiografica, di un giudizio
sull'esperienza cilena che è stata riportata alla luce solo dal processo.
Il rapporto tra
storia e identità collettiva è quindi continuamente rimesso in discussione. La
storia è sempre utilizzata per creare un'identità, per rafforzarla o per
smentirla.
Si pensi, per
uscire dal Novecento, a due date: il 1389, la Battaglia del Campo dei Merli che
costituisce per la Jugoslavia, per
il Kossovo e per la Serbia una data importante su cui si è costruita gran parte
dell'artificiosa contrapposizione nazionalistica degli ultimi anni. L'inizio
della campagna etnico-culturale contro le minoranze non serbe è iniziata
proprio nell'89 con le celebrazioni per il seicentenario di quella battaglia. In
quell'occasione furono gli
Accademici delle Scienze della Serbia a scrivere un documento ponderoso
per giustificare la necessità da parte della Serbia di occupare il
Kossovo e di avere una posizione di egemonia in tutta l'area balcanica.
Oppure si pensi al
ruolo che ha avuto e che continua ad avere in Francia il 1789, la presa della
Bastiglia. E' un momento rivoluzionario, acquisito come elemento fondante
dell'identità nazionale francese anche nei momenti di maggior conservatorismo e
di rifiuto di qualsiasi tendenza rivoluzionaria. E' diventato un simbolo al di là
di quello che ha effettivamente rappresentato.
Esiste un'identità
di lungo periodo, formata da quelli che vengono chiamati "caratteri di un
popolo", che esistono anche se difficilmente identificabili. Non è una
identità scientificamente verificabile e misurabile, ma sicuramente
è visibile: basta girare il mondo per accorgersene.
Esiste poi
un'altra identità, legata invece ad un'epoca, ad un periodo, a un regime o ad
un governo. Spesso questi due piani, di lungo periodo e di breve periodo, si
intrecciano, si contraddicono, si complicano tra loro. Pensiamo per esempio a
tre momenti storici considerati caratteristici di tre popoli: il trasformismo
italiano, tendenza a servire sempre chi vince e chi è al potere, dai tempi
delle dominazioni spagnole fino al passaggio da Berlusconi a D’Alema; il
razzismo o superomismo tedesco, che si è manifestato in tanti modi e durante il
nazismo in modo esplicito e particolare; lo sciovinismo francese, che porta i
francesi a pensare di avere una cultura talmente superiore agli altri da
guardare dall'alto ogni altra esperienza.
In Italia si è
recentemente parlato di "morte della patria" perché con la crisi
della prima repubblica veniva a chiudersi un periodo in cui tutti
complessivamente avevano accettato l'idea che questo periodo della nostra storia
nazionale era stato segnato dalla Liberazione, dalla Resistenza, dalla
Costituzione che ne era uscita. Su questa base si era creata una retorica,
quella che studiavamo da ragazzini a scuola, una agiografia e un
"modo" ufficiale che ha provocato delle reazioni, degli anticorpi, e
che ha retto quanto il sistema politico che ne era il prodotto.
Scomparso questo sistema, si è potuto parlare anche di guerra civile in opere
storiografiche di altissimo rilievo come quella di Claudio Pavone, per esempio,
lasciando spazio a chi ha potuto proporre il discorso della "morte della
patria" e individuare quindi la data in questo senso significativa della
nostra storia recente nell'8 settembre 1943 invece che nel 25 aprile del '45. Da
ciò si vede che sono le contingenze di un dato periodo che permettono di
guardare a certe date o a certi episodi per ricostruire la propria identità.
Scegliere oggi l'8 settembre del '43 come data cruciale della recente storia
italiana nazionale vuol dire dare un giudizio sostanzialmente negativo di essa,
in cui sono prevalenti le debolezze e le ombre. Al contrario,
chi invece fondava l'Italia repubblicana
sul 25 aprile dava una visione ottimista di quello che la repubblica
aveva costruito. Lo stesso vale per la Francia di Vichy. Lo stesso è stato per
la Russia alla fine degli anni '80: con l'inizio della perestrojka e dell'epoca
di Gorbaciov la discussione sulla storia precedente dell'Unione Sovietica ha
ritrovato un ruolo fondamentale. Il dibattito e le polemiche sulla storia hanno
spesso anticipato i conflitti politici, sono stati gli elementi attorno ai quali
si discuteva per parlare di aspetti più prettamente politici.
Se si guarda agli
avvenimenti di quegli anni, si vede che il primo periodo a essere messo sotto
processo pubblicamente, non solo in opere storiche, ma per esempio in
romanzi, in film, in opere
teatrali, è stato lo stalinismo dell'epoca cruciale di Stalin, quella che va
dal 1934 al 1953, poi si è messo sotto accusa anche il periodo precedente,
attorno alla fine degli anni venti, quindi si sono messi in discussione lo
stesso Lenin e la stessa rivoluzione bolscevica. Infine si è addirittura, anche
se solo da parte di alcuni, tentato di ricreare una simbologia e una mitologia
dello zarismo: chiaramente difficile da realizzarsi, data la debolezza
intrinseca da un punto di vista politico e culturale che aveva avuto lo zar
Nicola II in tutta la sua vita. In questo caso la storia è diventata veramente
un serbatoio per cercare di ricreare una identità che, con la crisi del
comunismo, bisognava in qualche modo inventarsi perché non c'era più quella
identità solida in cui tutti, volenti o nolenti, si erano riconosciuti ed
avevano accettato nel passato.
Negli anni
successivi però progressivamente il peso della storia svanisce sempre più così
che mentre alla fine degli anni ottanta ogni giornale dedicava almeno un quinto delle proprie pagine a dibattiti o a notizie di
carattere in qualche modo storico, oggi per trovare nei giornali russi
riferimenti alla storia bisogna aspettare giorni e giorni, e difficilmente
questo costituisce un argomento di interesse pubblico.
L'uso pubblico
della storia non è quindi continuo, ma, a seconda delle fasi diverse, può
costituire un grande momento di ricostruzione, di rivisitazione della propria
identità, o invece qualche cosa che è meglio accantonare. Perché oggi è
meglio accantonarlo? Per fare una discussione storica oggi bisognerebbe operare
dei confronti tra le aspettative sul dopo comunismo, in gran parte non
realizzate, ed elementi di continuità che si sono palesati più del normale.
Per esempio, in Russia la corruzione è forse aumentata rispetto all'epoca di
Breznev, quando era già ben forte. Quindi, il timore della storia fa sì che il
silenzio costituisca in questo caso una scelta, ma la scelta del silenzio è a
sua volta un uso pubblico della storia, così come lo sono un monumento, una
piazza dedicata ad un personaggio storico. La memoria collettiva è quasi sempre
una ricostruzione del passato in funzione della visione che si ha del mondo
presente. Ogni nazione, ma anche ogni comunità, ogni partito, ogni gruppo
tecnico, religioso o, addirittura, professionale, ha bisogno di una identità
condivisa in cui la storia sia certa, semplice e a forti tinte. Per avere questa
caratteristica di entrare a far parte della identità, la storia deve essere così;
non può essere una storia piena di dubbi, di complicazioni e di distinguo; deve
essere una storia ben chiara, come era ben chiaro che il 25 aprile del 1945
l'Italia diventa finalmente libera. Il fatto
poi che questa liberazione abbia comportato una serie di contraddizioni passa,
in questo momento, in secondo piano.
Vi è quindi una
contraddizione di fondo, che siamo destinati a portarci dietro, tra le necessità
della storia insegnata e l'uso pubblico della storia, tra lo storico che è alla
ricerca delle verità della storia, che cioè cerca di articolarle, capirle,
analizzarle e verificarle continuamente, e invece l'ideologo, il quale piega la
storia alle esigenze della propria identità o dell'identità di una parte. Che
l’ideologia pieghi la storia non significa, peraltro, necessariamente che la
verità venga distorta. In alcuni casi è solo un fare silenzio su alcuni
aspetti, sottolineandone o enfatizzandone altri.
Ecco allora i due
ruoli della storia, quello della storia intesa
come magistra vitae, e quello della storia come momento di identità.
Insegnare la
storia significa educare ad un senso critico, a vedere le cose continuamente da
punti di vista differenti e ad unire ottiche ed esperienze a volte
contraddittorie, per giungere a conclusioni provvisorie. Diverso è invece
l'atteggiamento di chi deve utilizzare certezze storiche per costruirci
un'identità.
Come intervenire
allora quando si manifesta l'uso politico, più che pubblico, della storia?
Bisogna prenderne le distanze? Bisogna invece cercare di approfondire, facendo
un po' la parte del grillo parlante, contraddicendo i mass media? O invece è
necessario prendere una posizione, la meno dogmatica di tutte, quella un po' più
aperta, per entrare in questa battaglia che spesso viene intrapresa su certezze
storiografiche che si confrontano tra loro?
Esaminiamo ancora
alcuni esempi. Il primo viene dal processo Papon, in Francia, dove sono stati
chiamati a testimoniare alcuni storici: alcuni hanno accettato, altri, più
consapevoli del proprio mestiere, hanno rifiutato.
E' stato chiesto loro se un funzionario di grado elevato della
prefettura di Parigi, come Pierre Battiston, avrebbe avuto la possibilità
teorica di collaborare con i nazisti per stendere le liste degli ebrei da
deportare. Un interrogativo a cui non si può rispondere che affermativamente,
dato che gli storici hanno dimostrato che le prefetture francesi sono state
coinvolte e hanno collaborato con i nazisti. Ma alcuni storici hanno rifiutato
di testimoniare poiché la loro testimonianza avrebbe significato decidere se il
singolo individuo Papon avesse collaborato a preparare le liste. In questo caso
un singolo individuo sarebbe stato giudicato utilizzando come strumento di prova
un giudizio storico e non una prova valevole dal punto di vista giudiziario per
una vicenda che riguarda invece una intera categoria. Questi storici, pur
essendo consapevoli che Papon era un farabutto, non hanno ritenuto di poter
intervenire, portando un discorso da storico, in un giudizio con
caratteristiche, linguaggio e modalità proprie di un processo giuridico. E’
evidente che si tratta di una questione complessa. Non è un caso che alcuni
abbiano rifiutato.
Come si risponde,
quindi, quando l'uso della storia può diventare una questione così influente
per le vicende private di qualcuno, o comunque per la storia politica del
proprio paese?
Altro esempio: il
massacro di Katyn, località dove, nel corso della seconda guerra mondiale, i
sovietici massacrarono alcune migliaia di ufficiali polacchi arrestati nel
periodo in cui l'Unione Sovietica conquistò la parte orientale della Polonia,
dopo che la Germania ebbe conquistato, in base agli accordi segreti e al
trattato dell'agosto del '39, la parte occidentale.
Del massacro di
Katyn, già scoperto verso la fine della guerra, i sovietici avevano sempre
accusato i nazisti. All'epoca del processo di Norimberga fu discusso a lungo se
ammettere quel massacro fra le prove a carico dei nazisti. I russi,
probabilmente temendo ciò si sarebbe potuto scoprire, si rifiutarono di
accusare i tedeschi. Inoltre le voci che quel massacro era stato compiuto dai
sovietici e non dai nazisti circolavano da tempo (una delle testimonianze del
tempo era proprio quella di un italiano che era stato uno dei medici legali
chiamati per esaminare i corpi degli ufficiali). Ma solamente dopo l'89, con
l'apertura degli archivi sovietici e dopo una serie di
ricerche promosse dai governi di Gorbaciov e di Eltsin, è stato
possibile arrivare alla verità. In questo caso si sono sovrapposte differenti
menzogne: quelle dei sovietici, ovviamente, e quelle dei governanti polacchi
comunisti. Questi ultimi, però, hanno sempre sostenuto di non averne mai saputo
niente rivendicando, come Gomulka, una adesione nazionale forte e cercando di
contrapporre il proprio comunismo nazionale ai comunismi più ossequiosi nei
confronti di Mosca (come quello cecoslovacco). Da una parte si trattava di
ricostruire la verità dei fatti, dall'altra, in Polonia e in Russia, si è
innescato un processo di semplificazioni in base al quale si considerava falso
tutto quello che era stato detto dai comunisti.
In Polonia questa
questione si era intrecciata con un'altra. Negli anni settanta un generale
polacco si trasferì negli Stati Uniti dove era stato assunto dai servizi
segreti con il ruolo di generale. Egli raccontò tutto quello che sapeva e in
premio lo pagarono profumatamente, gli regalarono una bella plastica facciale e
gli diedero una nuova identità. In patria venne considerato per tutti gli anni
‘70 e ‘80 un traditore, il suo nome stesso fu simbolo del tradimento.
Nell'89 qualcuno propose di riabilitarlo perché aveva intuito prima degli altri
che bisognava cambiare regime e passare dalla parte dell'occidente. Anche in
questo caso si aprì una grande discussione: è un traditore o è un eroe? È un
traditore, perché comunque non si tradisce la patria anche quando questa è
retta da un regime che si rifiuta, o è un eroe, poiché in nome dei propri
principi ha cercato di salvare la patria quando era sotto il tallone sovietico?
Si può solo dire
che ora quel generale si è rifiutato di tornare in Polonia e vive con la faccia
nuova e con il falso nome negli Stati Uniti, non si sa dove.
L’ultimo caso
che vorrei ricordare è relativo agli Armeni. Il genocidio degli Armeni, non
tanto come fatto storiografico, data la grande quantità di studi già esistente
sulla vicenda, ma come caso di uso pubblico della storia, ha avuto tappe
diverse. Il governo turco ne ha fatto un certo uso pubblico: i turchi negano che
vi sia stato un genocidio degli Armeni, negano che ci siano stati dei massacri,
se non quelli giustificati come reazione a tentativi di rivolta degli Armeni,
quinta colonna dei russi di cui
sarebbero stati alleati. Infatti durante la prima guerra mondiale gli Armeni
vivevano metà in Russia e metà in Turchia : una parte combatteva con l'Impero
Ottomano e una parte con quello russo. Secondo i turchi, però, anche il primo
gruppo di Armeni aveva una fedeltà sentimentale verso i russi. L'uso politico
della storia è palese. Si è avuta negli anni tutta una serie di prese di
posizione internazionali, dell'ONU e della Comunità Europea, in cui si
dichiarava che, finché la Turchia non avesse riconosciuto il genocidio degli
Armeni, non sarebbe stata ammessa in Europa. Decisione che è stata poi
accantonata quando le questioni sono diventate di altra natura o quando il
problema kurdo è diventato più attuale. Negli anni ‘70, quando alcuni gruppi
di Armeni hanno dato vita ad un terrorismo internazionale particolarmente
significativo e continuato, con una serie di dirottamenti aerei, era in nome di
quell'uso pubblico della storia che essi compivano i loro attentati. Non
chiedevano, come altri, la liberazione di prigionieri, ma volevano solo attirare
l'attenzione del mondo su un episodio accaduto cinquant'anni prima. Un uso
pubblico della storia più forte e inusuale di questo non si era mai visto.
E' dunque evidente
come nella storia ci siano dei momenti di crisi e di rottura in cui più
facilmente e con più forza le verità storiche di comodo o ufficiali vengono
usate per la costruzione dell'identità. Sono situazioni in cui è difficile
opporre solo la risposta del richiamo ad un senso critico. Quando i Serbi usano
la vicenda della battaglia del Campo dei Merli reinventandola, gli storici o gli
intellettuali che possibilità hanno di dimostrare che la storia è diversa, se
quella vicenda, così come è stata narrata, in modo arbitrario e falso, ottiene
consensi sempre maggiori, perché divulgata dalla televisione, perché
raccontata in modo semplice e accattivante nelle scuole? Nei momenti difficili
c'è bisogno di modelli positivi, di condanne senza attenuanti, di risposte
nette.
Sicuramente non è
facile far sentire un’altra voce perché, in quelle occasioni, può esserci
una spinta a contrapporre ad alcune verità di comodo che risultano perònauseanti
altre che lo sono un po’ meno. Uno storico non può che
essere comunque a favore
della ricerca della verità, anche se, nel tentativo di far comprendere la
complessità e le articolazioni della realtà, rimane in minoranza e
inascoltato. In alcuni momenti, che il nostro Paese fortunatamente non vive, non
è facile, soprattutto per chi abbia un ruolo educativo, tenere un tale
atteggiamento. In altri Paesi, anche vicini, si combattono conflitti nazionali e
quello dell'identità è un forte motivo di scontro, il più forte forse. Da noi
le cose sono diverse: polemiche ci sono state, per esempio, per quello che nei
libri di scuola si è scritto di Berlusconi
perché, spesso, quando si parla di Berlusconi, viene usato un linguaggio
politico di tipo cronachistico e giornalistico. Varrebbe la pena, invece, di
parlare di altri personaggi che, come Mandela, hanno fatto la storia del
Novecento.
Altre situazioni
si presentano come più complicate: un esempio è il caso accaduto qualche anno
fa in California. Qui ci fu una
grande polemica nel mondo della scuola quando, nel comitato che adotta i libri
di testo di storia (negli Stati Uniti, paese di libero mercato, la scelta dei
libri non è libera: viene adottato un libro uguale per tutte le scuole), il
board degli insegnanti della California decise di commissionare un nuovo libro
di storia ad uno storico americano democratico e decisamente aperto, di nome
Gary Nash. Costui aveva scritto, a detta di chi l'ha letto, un libro fra i più
equilibrati che esistano. Il libro, dopo incontri e riunioni durati tutto un
anno, fu rifiutato da tutti quanti i comitati delle minoranze (quella nera,
quella ispanica, quella cinese, quella coreana) perché ritenevano che in quel
libro di storia le vicende del paese e le radici di quella appartenenza non
fossero rappresentate in modo tale da rendere i bambini orgogliosi di
appartenere ad una determinata etnia o popolazione. Quindi è rimasto adottato
il vecchio libro razzista che si usava precedentemente in tutte le scuole
americane. A noi italiani questa questione può anche far sorridere perché
nella nostra società non abbiamo ancora il problema di una forte presenza di
comunità strutturate, con culture, lingue e storie diverse alle spalle, anche
se qualche accenno si intravede, nel modo di vestire, nelle pratiche religiose.
E' un problema delicato,
soprattutto se si pensa che la storia è un elemento fondamentale per la
crescita dell'identità e della coscienza individuale, specie quando ci si
rivolge ai bambini alle prime fasi di apprendimento. Tutte le storie nazionali
sono state descritte come storie eroiche in qualche modo. Quindi perché ad
alcuni, per rispetto della verità, bisognerebbe negare questo diritto? E' una
questione estremamente delicata.
Penso che le
risposte agli interrogativi posti da un discorso come il mio, possano venire
solo da uno sforzo collettivo; non saranno certo delle invenzioni individuali
che potranno risolvere i dubbi.
Nel campo della
costruzione dell'identità, forse, adesso la scuola, che ha sempre avuto un
ruolo privilegiato e fondamentale, ha un'influenza molto ridotta rispetto a
quella, per esempio, della televisione. Ciò non comporta minori responsabilità,
anzi, comporta un impegno non solo come educatori, ma come cittadini tout
court che devono capire come utilizzare anche lo strumento dei media. Il
problema dell'identità non è solo una questione di contenuti di verità
storica, aspetto relativamente facile da affrontare, che con un certo sforzo si
può arrivare ad illustrare e a far condividere, ma è anche un problema che
riguarda il contesto in cui certe polemiche avvengono, il linguaggio che viene
usato, i momenti di contingenza spesso politica che fanno sì che la storia
emerga in primo piano. Spesso chi dà le risposte più semplici ottiene il
risultato più efficace anche se non
è il più vicino alla verità.
Conversazione tenuta presso la Fondazione "Serughetti La Porta"
il 13 gennaio 2000. Registrazione non rivista dall’Autore
Al contrario avviene nella
storia dell'Asia, ma soprattutto dell'Africa, dove l'invenzione di
stati-nazione è stata costruita sulla distruzione di realtà ed identità
sia territoriali che culturali più importante precedentemente insediate.
Inoltre le relazioni
internazionali tra gli USA e la Turchia hanno sempre come punto critico la
questione degli Armeni, perché negli Stati Uniti vive una forte minoranza
armena che vota, costituisce lobby e quindi possiede una certa rilevanza
politica.
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