Quando
devo discorrere con un pubblico di identità nazionale, di appartenenza reale e
simbolica, di una comunità chiamata nazione, faccio spesso ricorso ad alcuni
flash apparentemente aneddotici che tuttavia sono, secondo me, abbastanza
rivelatori.
Il
primo flash è tratto dalle memorie di Vittorio Foa, uomo politico e padre della
patria, uno degli ultimi sopravvissuti della generazione del ‘43/’45, che
nel suo libro di memorie “Il cavallo e la torre” racconta un avvenimento narratogli a sua
volta da un vecchio sindacalista socialista, Fernando Santi: durante la storia
della repubblica partigiana dell’Ossola, ad un certo momento, i responsabili
del governo di quella piccola repubblica partigiana furono costretti a riparare
precipitosamente in Svizzera per sfuggire ai tedeschi che stavano avanzando e
occupando il territorio. Si misero in cammino il presidente della repubblica
dell’Ossola, Ettore Tibaldi, il capo del governo, Umberto Terracini, futuro
presidente dell’assemblea costituente, e il leader dei sindacati, appunto
Fernando Santi.
Santi
si accorse ad un certo punto che, anche se avevano fretta, la marcia era
disordinata, lenta, tutti trovavano in continuazione scuse per fermarsi, uno
voleva guardare il paesaggio, l’altro aveva perso i lacci degli scarponi e
doveva prendere dallo zaino quelli nuovi, insomma, nessuno sembrava decidersi ad
abbandonare l’Italia e, racconta Santi attraverso Foa , sembrava che nessuno
volesse essere il primo ad abbandonare “il sacro suolo della patria”.
Ad
un certo punto ci fu un conciliabolo e fu deciso che si sarebbe proceduto in
ordine di autorità: il capo dei sindacati sarebbe andato per primo, il capo del
governo per secondo e il presidente della Repubblica per ultimo.
Sacro
suolo della patria: queste parole dei partigiani che avevano dato vita ad un
organismo statuale, sia pure transitorio e provvisorio, come la repubblica
dell’Ossola, di uomini che appartenevano alla sinistra e che quindi facevano
riferimento ad una tradizione cosmopolita, internazionalista, usate nel 1944 e
soprattutto riprese, senza nessuna pudicizia linguistica, nel 1991 da Foa,
lasciano pensare a un legame forte di questi uomini e delle culture che
rappresentavano con la tradizione nazionale, con un’idea ben precisa di
patria.
Il
secondo flash è narrato in un libro molto bello, pubblicato in francese e mai
tradotto in italiano per il motivo banale che aveva un titolo intraducibile per
gli editori a cui era stato consegnato in esame: “Voyage en Ritalie”. I
“ritales” in Francia sono gli italiani immigrati, quelli che un tempo si
chiamavano più spregiativamente i “macaroni”. L’autore del libro, Pierre
Milza, è a sua volta un “ritale” e, pur essendo uno dei più grandi storici
francesi, altri non è che Pietro Milza, un parmigiano emigrato in Francia
all’inizio degli anni venti.
Questo
libro alterna storiografia vera e propria, cioè racconto delle condizioni di
vita degli operai metallurgici italiani in Lorena o comunque delle comunità di
“ritales”, e storie di vita presentate in contrappunto: fra queste, quella
dello stesso Milza e quella di un bracciante calabrese di Polistina, un certo
Giovanni Floccari, o Jean Flocari se si preferisce.
Raccontando
di se stesso, Milza dice di essere rimasto orfano da bambino, di essere stato
allevato esclusivamente da donne, tutte francofone, e di essere arrivato fino al
1948 ignorando quasi tutto dell’Italia, soprattutto la lingua; in particolare
fa notare che la sua alfabetizzazione scolastica era avvenuta in francese, e si
sa che il periodo scolastico, quello dell’alfabetizzazione, ma anche quello
della prima socializzazione attraverso la scuola, è importantissimo, non
soltanto per l’apprendimento della lingua madre, ma anche per quello delle
categorie fondamentali dell’interpretazione della realtà.
Milza
torna in Italia nel 1948 per una sorta di viaggio nei luoghi della memoria, per
ritrovare il paese dove era nato suo padre e, improvvisamente, se ne innamora
alla follia, si innamora degli stili di vita, del costume, delle glorie
sportive, del cinema, della cucina e di quant’altro. Vive così per oltre
quarant’anni, in questa situazione di duplicità identitaria che non gli
provoca però nessun imbarazzo, nessuna forma di frizione o di collisione
interiore percepita come tale. Per i francesi lui è quello che parla
gesticolando troppo, che preferisce il Parma all’Olimpic di Marsiglia, la
Ferrari alla Renault; per gli
italiani quello che, essendo passabilmente giacobino, rimprovera aspramente il
costume politico di questo Paese.
La
storia di Floccari, o Flocari, è più o meno la stessa: emigra in Francia per
antifascismo quando è più adulto di Milza, diventa comunista e di conseguenza
non legge la stampa italiana perché ritiene che sia fascista: l’Italia è
l’avanguardia del fascismo, è l’emblema stesso del fascismo, quindi nessuna
familiarità con la cultura italiana, un po’ frettolosamente identificata con
la cultura fascista, (d’altra parte, ad un bracciante era ben difficile che
arrivasse qualche pur flebile voce dall’Italia che non fosse fascista). Si
arruola volontario nell’esercito francese nel ’39 per combattere i nazisti
pur non avendo ancora terminato le pratiche per il conseguimento della
cittadinanza e viene coinvolto poi nella disfatta del 1940. Torna in Italia
pressappoco negli stessi anni in cui anche Milza vi fa ritorno, e anche lui
rimane incantato da tutto ciò che viene considerato stereotipo dell’italianità
americanizzata o legato a tutte le forme di esterofilia dei paesi amici.
Nonostante questo, rifugge tutto ciò che è legato al potere politico ritenendo
i governanti italiani ancora troppo lontani dal suo modo di pensare.
Come
si può notare, ci si trova dunque di fronte ad un modello di italianità e a un
senso soggettivo di appartenenza molto diverso da quello di Foa e di Santi.
Il
terzo flash riguarda il sindaco di Capri, il quale, dal 1995, rilascia ogni anno
un’intervista al Corriere della sera in cui insiste nel dire che sarebbe
quanto mai necessaria, per lo sviluppo economico della sua città,
l’indipendenza politica e la sua trasformazione in un principato dei casinò
come Montecarlo. E già immaginandosi drappeggiato in guisa di borgomastro, si
lamenta del fatto che le persone che avrebbero avuto la stoffa per
diventare principi, come Alfred Krupp, Porfirio Robirosa o altri playboy
internazionali, sono ormai in via di estinzione.
Eccoci
di fronte, dunque, a tre modelli di appartenenza, che non sono diversi soltanto
per il grado di intensità del sentimento che li anima, ma che sono
intrinsecamente difformi, radicalmente differenti. L’idea di patria che hanno
Foa, Terracini e Santi concepisce l’appartenenza come legata alle memorie,
alle caratteristiche sia fisiche che culturali e in genere morfologiche di un
territorio ben preciso, orlato da confini che vengono definiti sacri. E questo
è, per l’appunto, uno dei modi di concepire l’appartenenza nazionale,
particolarmente importante al giorno d’oggi in cui sembra che non soltanto lo
sviluppo economico ma anche le tendenze culturali prevalenti nel mondo
contemporaneo, tendano a prescindere dal territorio e dalla territorialità
intesa come dimensione esistenziale assolutamente ineliminabile per gli
individui e per i gruppi sociali.
Oggi,
infatti, l’esperienza della cosiddetta globalizzazione è un’esperienza di
perdita della territorialità, perdita di legami con il territorio che è anche
perdita di legami con la memoria, con la tradizione, con il passato.
L’idea
di patria che invece hanno Milza e
il suo bracciante Flocari, è l’idea di una specie di ”Heimat”, come
direbbero i tedeschi, di culla confortevole e sicura, di luogo che si ama e in
cui si sta bene, di cui si riconoscono gli elementi distintivi, che procura un
senso di appagamento e di felicità (per quel tanto che è dato agli uomini di
essere felici), ma che non comporta un’obbligazione politica. Milza è
chiarissimo quando dichiara che, nonostante il suo amore per l’Italia, egli
rimane orgogliosamente un cittadino francese, lealista, che si riconosce nelle
istituzioni repubblicane del suo paese e afferma che questa duplicità non gli
procura nessun fastidio, memore, forse, di quella stupenda frase di Bloch, che
dice: “Perché l’amore per la Patria deve essere in conflitto con
l’internazionalismo di classe? Perché amare la Patria vuol dire che non si
possono amare i propri figli ? E’ un cuore ben povero quello che non riesce a
custodire più di un affetto”.
Si
definisce qui un ulteriore elemento di differenziazione nel modo di vivere la
patria da parte di Milza: l’appartenenza ad un insieme di stili di vita, di
abitudini, di tradizioni che sono un elemento molto importante dell’identità
nazionale (per gli inglesi, per esempio, “essere inglesi” significa guidare
a destra, giocare a cricket, vuol dire rinunciare solo in parte al vecchio
sistema metrico e adottare solo parzialmente il sistema metrico decimale, vuol
dire avere tutta una serie di abitudini tipicamente locali influenzate anche dal
particolare contesto geografico). Milza tende, dunque, a distinguere questa
sfera, che è la sfera dell’appartenenza nazionale per così dire legata alle
tecniche del vivere (e nelle tecniche del vivere possono rientrare non solo le
passioni comuni ma anche i sistemi scolastici o un certo modello di stampa), dal
legame di obbligazione politica che si esprime attraverso il godimento dei
diritti e doveri legati alla cittadinanza.
Milza,
in sostanza, sostiene che l’appartenenza può implicare il riconoscersi in
determinate tecniche del vivere individuabili come nazionali e che queste
possono essere tutt’uno con l’appartenenza politica e con il legame di
obbligazione, ma non necessariamente, tant’è vero che il suo caso e quello di
Flocari dimostrano che è possibile sentirsi parte viva, attiva, partecipe e
operante di un ordinamento politico che dà la cittadinanza e al tempo stesso
lasciarsi cullare dalla Heimat originaria, da un altro paese con cui si
condividono abitudini e tratti culturali.
Il
terzo caso, quello del sindaco di Capri, è il caso in cui il senso di
appartenenza nazionale è praticamente nullo: mentre, cioè, in Milza e Flocari
si possono separare identità e appartenenza culturale e identità e
appartenenza politica (che resta, però, assolutamente fondamentale), per il
sindaco di Capri l’appartenenza e l’obbligazione politica non hanno nessun
significato: per lui una normale identità può essere conservata non al di
fuori di una diversa obbligazione politica, ma al di fuori di qualsiasi
obbligazione politica.
Considerando,
dunque, che questi modelli di identità e di appartenenza sono profondamente
diversi tra loro, non si può ignorare che, nella storia, le comunità residenti
su un certo territorio, in ragione di loro peculiarità, favorite anche da
condizioni particolari di tipo economico, mercantile o geografico, hanno quasi
sempre cercato di costituirsi in stato-nazione, cioè di far combaciare
appartenenza culturale e obbligazione politica.
Certo,
i processi concreti, storicamente determinati, di formazione delle varie
Patrie-Nazioni-Stato sono stati differenti: piuttosto cruenti in Francia, molto
più negoziali in Inghilterra, governate dalla mente acuta di Cavour in Italia
grazie a circostanze diplomatiche fortunate, ma la spinta è stata per tutti il
desiderio di far combaciare appartenenza culturale, identità e obbligazione
politica.
La
storia della formazione degli stati-nazione è legata all’idea dell’habitat
territoriale, dove per territorio si intende il paesaggio fisico, ed è quest’idea
che dal trattato di Westfalia in poi regola la concezione della politica in
tutti gli stati europei e anche negli stati non europei che si sono ispirati
all’esperienza del vecchio continente.
Tuttavia
questo non può farci dimenticare che i concetti di identità e di appartenenza
sono concetti iridescenti, dotati di mille sfaccettature e che difficilmente
possono essere ridotti ad una unità, e questo a dispetto di una riduzione
pubblicistica che spesso è superficiale e grossolana, e che non compie quel
processo di chiarificazione delle categorie e dei concetti necessario per una
buona comprensione e comunicazione. In questo delicatissimo campo in cui si
scandaglia ciò che gli uomini pensano e amano, è invece importantissimo essere
chiari sui concetti, altrimenti si rischia di creare una babele inestricabile in
cui le persone usano le stesse parole intendendo designare cose diverse.
Allora
occorre concordare sul concetto di identità e sul concetto di appartenenza.
E’ evidente che sono concetti posti gerarchicamente: è l’appartenenza che
crea l’identità; io mi sento italiano in un modo personalissimo, come può
essere molto particolare il modo in cui mi sento credente, ma, a parte il tasso
di soggettività, è evidente che, trattandosi di un’identità collettiva,
essa può essere prodotta soltanto da un’appartenenza. Poiché l’identità
è un’autoimmagine, e poiché questa autoimmagine è collettiva, essa postula
un’appartenenza.
Nel
mondo contemporaneo esistono una pluralità di identità e una pluralità di
appartenenze che toccano lo stesso individuo come partecipe di gruppi e
collettività diverse: identità sessuale, religiosa, generazionale; esisteva
anche un’identità di classe che si è trasformata oggi in identità di ceto
sociale (legata ovviamente a principi diversi). Per questo motivo il discorso
non vale soltanto per l’identità nazionale, ma anche per tutte le varie forme
di identità che nel mondo contemporaneo condizionano la vita degli uomini. Lo
storico Kosseler, nel descrivere il passaggio alla modernità, sosteneva che la
vita delle persone è formata dalle aspettative e dalle esperienze, le
esperienze che si fanno concretamente e le aspettative nei confronti del futuro,
con la differenza che le esperienze sono ripetibili mentre le aspettative
possono diventarlo solo quando diventano esperienze. La società tradizionale, o
della penuria, era caratterizzata da pochissime esperienze perché aveva
pochissime risorse, la vita degli individui era una costante lotta per la
sopravvivenza e naturalmente, non esistendo la possibilità di effettuare
esperienze, moltissime erano le aspettative. E’ questo il tipo di società in
cui nascono le utopie, i millenarismi, i misticismi e gli spiritualismi più
accesi, mentre nelle società in cui si è compiuto il passaggio alla modernità,
le esperienze si moltiplicano e di conseguenza le aspettative diventano
razionali poiché mirano al miglioramento delle condizioni di vita e sono
comunque legate a premesse che già esistono, solidamente ancorate alle
esperienze.
E’
importante capire, allora, che l’identità nazionale è solo una delle identità
che convivono in un soggetto che intende intrattenere, oltre che relazioni
private, relazioni pubbliche, è dunque solo un elemento della complessità del
mondo in cui viviamo. E’ questo modo di intendere l’identità nazionale che
delimita la linea di demarcazione tra il comune senso della nazione e quello che
Pierre André Tadiev chiama il nazionalismo in senso proprio. Per i nazionalisti
di qualsiasi genere e di qualsiasi luogo, l’identità nazionale e
l’appartenenza sono valori assolutamente preminenti su tutti gli altri.
Il
problema sorge nel momento in cui le prefiche di cui siamo circondati danno voce
ai loro vaticini sulla fine degli stati-nazione, presentandola addirittura come
un passaggio auspicabile. In epoca di globalizzazione i grandi della finanza
internazionale usurpano schegge di potere sovrano ai singoli stati così che
ormai la sovranità come attributo del rapporto tra un popolo e il suo
territorio va svanendo, come se i territori non contassero più nulla, come se
potessero essere annullati dai moderni sistemi di comunicazione.
In
realtà, gli stati-nazione sono gli ultimi baluardi in grado di salvaguardarci
da quei ripiegamenti xenofobi di cui negli ultimi anni si sono avute svariate
manifestazioni: gli avvenimenti in Bosnia, in Serbia, in Croazia, la nascita
delle leghe regionaliste in Italia. Gli stati-nazione sono l’unico antidoto
contro una sorta di semplificazione del mondo in cui ciascuno può alzarsi una
mattina e sostenere di appartenere ad un’etnia protetta, e dichiarare che
questa rappresenta una Patria.
Il
punto che deve essere perciò chiarissimo, non è solo il discrimine tra nazione
e nazionalismo, che è segnato dalla pluralità delle identità e non dalla
preminenza assoluta di un’identità sulle altre, ma soprattutto il fatto che
lo stato–nazione come viene storicamente conosciuto, cioè l’alveo del
liberalismo democratico moderno e delle costituzioni, è ancora il baluardo
contro la semplificazione folklorica del mondo o la temibile boria di razza,
almeno finché non saranno costituiti degli organismi sovranazionali che
soddisfino in maniera superiore i bisogni che oggi sono soddisfatti dalla
nazione.
Il
rapporto tra nazione ed etnia comprende una lunga tradizione di pensiero che
comincia nell’800 con Fustel de Coulanges e soprattutto trova espressione
nella celebre conferenza alla Sorbona di Ernest Renan (1882) in cui si dice che
una nazione non è un’etnia, non è una razza, ma è il punto d’incontro di
due elementi apparentemente inconciliabili fra loro, ma, in realtà,
perfettamente compatibili. Da una parte bisogna pensare alla appartenenza a una
nazione come a un “plebiscito di tutti i giorni”, nel senso che ad una
nazione non si appartiene per obbligo ma perché quotidianamente si sceglie di
far parte di un gruppo nazionale indipendente dall’etnia che, a sua volta,
occupa un posto sempre meno rilevante nel determinare l’appartenenza e
l’identità nazionale. Dall’altra parte bisogna pensare che, come dice Renan,
l’identità nazionale è un “manufatto storico di lunga durata”, il frutto
dell’incontro di popolazioni diverse che si sono ritrovate insieme per
condividere un progetto politico, economico, religioso e che hanno superato
l’idea che sono le razze a creare le nazioni. Se questo fosse vero, infatti,
tanti stati avrebbero avuto destini diversi: il Portogallo sarebbe spagnolo,
l’Olanda sarebbe tedesca e così via. Dunque, non è la natura, ma la storia
dei popoli che produce le nazioni, sono i contrasti e gli avvicinamenti
politici, economici e religiosi che fanno sì che un popolo continui a stare
insieme, è questo “plebiscito di tutti i giorni” che conferma i legami
sociali che si sono stabiliti sul lungo periodo.
La
questione è molto importante perché oggi, in genere, si ricorre a due
categorie molto diverse fra loro quando si parla di nazione: una è quella
appena descritta e l’altra, che possiamo far risalire allo storico Benedit
Anderson (che tra gli storici inglesi e americani è colui che l’ha formulata
con maggior rigore e chiarezza) è quella di nazione come “comunità
immaginata”.
Il
discorso di Anderson si fonda sul concetto che le patrie non esistono, esistono
i patriottismi, cosa completamente diversa. Gli uomini agitano bandiere,
scrivono inni, combattono fra di loro, muoiono per la patria, dove la patria è
una entità semplicemente immaginata. Le uniche cose concretamente reali sono,
da un lato, lo stato che se ne serve per motivi politici e, dall’altro, i
patrioti che per questa “comunità immaginata” sarebbero disposti anche a
morire. Ciò vuol dire che se la patria è veramente un’entità astratta
e non ha niente di veramente misurabile (come possono esserlo i rapporti
economici o interpersonali o, comunque, i legami sociali certificati), tutto ciò
che concorre a definirne il perimetro appartiene al mondo del simbolico. E,
almeno in parte, nessuno di noi ignora quanto peso abbia il simbolo in qualsiasi
discorso nazionale: la bandiera, l’inno nazionale, persino la squadra di
calcio. Ma, d’altra parte, di fronte a un’affermazione così radicale, è
necessario sottolineare che nessuna comunità, nessun gruppo sociale riesce a
vivere senza simboli, senza un modo di rappresentarsi la propria natura e il
proprio futuro. I gruppi sociali hanno bisogno di immaginare se stessi, il
proprio ruolo nel mondo, il proprio futuro, e molto spesso sono proprio i
simboli la modalità scelta per questo. Certamente siamo consapevoli che i
simboli sono stati spesso scempiati e deturpati dalle culture totalitarie, ma ciò
non significa che il simbolo in quanto tale sia necessariamente compromesso con
il totalitarismo, così come non significa che la nazione sia compromessa con il
nazionalismo. Pertanto si ha diritto di considerare il mondo della
rappresentazione simbolica come altrettanto reale del mondo dei legami
interpersonali, dei rapporti economici, degli scambi contrattuali e così via.
Un
altro elemento da valutare è la possibile combinazione del concetto di nazione
come “comunità immaginata” con la visione di Renan secondo cui essa sarebbe
un “manufatto storico di lunga durata”. Di fronte alla apparente
impossibilità di conciliare questi due concetti, si ricorre a una serie di
mediazioni che sono la cultura, le realizzazioni culturali, in gran misura la
lingua, evitando, però, il rischio di cadere in certe semplificazioni
ultraromantiche per cui si arriva a considerare lo spazio linguistico e
culturale come lo spazio proprio della nazione. Occorre recuperare il legame,
molto complesso, ma assolutamente necessario perché agisce nel vivo delle
nostre esperienze quotidiane, tra popolo, territorio, miti, simboli,
costituzione e sistema politico. Quando si ha un gruppo sociale stabilmente
residente in un determinato territorio con una relativa identità culturale, con
un sostrato linguistico e religioso abbastanza riconoscibile, con aspirazioni
condivise e con un’immagine di se stesso, con un sistema politico e una
costituzione di tipo liberale- democratico così da consentire il pluralismo che
è l’altra faccia dell’identità - in altri termini popolo, territorio,
sistema politico, immaginario e cultura - allora si ha una nazione. Ed una
nazione che corrisponde proprio alla visione di Renan,
poiché ognuno dei singoli elementi che la compongono non è stato calato
dall’alto, ma è il frutto delle esperienze e, a volte, dei drammi della
storia.
Per
quanto riguarda l’Italia, le spiegazioni e le attribuzioni di identità che
sono state assegnate agli italiani in questi ultimi anni in cui è rinata la
storiografia su questi temi sono molto stereotipe e grossolane perché vedono
l’identità italiana solo in chiave di passioni comuni, di tecniche del vivere
che, ovviamente, non possono venire considerate come elementi distintivi del
carattere nazionale.
Questo
tipo di lettura ed interpretazione cozza contro l’altra che per molti anni è
stata prevalente, secondo cui il tratto distintivo dell’identità italiana è
dato dall’esistenza di una lingua letteraria e per conseguenza da un’élite
che la perpetuava nelle corti, nelle università, attraverso il servizio reso ai
sovrani, un’élite che ha potuto diventare, in un determinato frangente
storico come quello del Risorgimento, un polo di unificazione.
A
questo proposito è importante ricordare che nell’800, in una fase di
rimescolamento e ricollocazione del potere e della sovranità in Europa, era
molto viva la coscienza dell’importanza delle dimensioni del territorio.
Volere un’Italia unita
e indipendente, non sempre significava l’idea che se ne è avuta
successivamente. Il liberalismo italiano era infatti inizialmente un liberalismo
moderato, costituzionale, di timbro municipale. L’idea iniziale che sostiene
il “Paese Italia”, come è chiamato provocatoriamente da Romano, nel suo
percorso per diventare nazione e poi stato-nazione, più che un tenace lavoro di
bulino attorno al concetto di italianità, è la volontà di creare una serie di
opportunità legate alla costruzione di un moderno stato liberal-costituzionale
dalle dimensioni territoriali sufficienti ad assicurare le economie esterne che
permetteranno di avviare un processo di sviluppo.
Lo
stesso Cavour, che spesso si recava a Ginevra o in Liguria, non era mai stato a
Napoli o a Roma e anche per lui quel paese che si andava costruendo non era
legato all’idea di una peculiarità italiana, di valori e tradizioni magari
ricomposti secondo formule più moderne, ma all’idea di un territorio
abbastanza grande, regolato da uno statuto liberal-costituzionale che gli
permettesse di garantire le infrastrutture per lo sviluppo economico.
In
questo quadro, l’elemento che poteva corroborare una costruzione che
prescindeva del tutto dall’idea di nazionalità, era l’esistenza di una
lingua letteraria che, sia pure in un paese con l’80 % di analfabeti, poteva
produrre un minimo di unità almeno fra la classe dirigente. La riprova di
questo è che la politica linguistica, dopo la morte di Cavour, è quella
fiorentinista sostenuta dal Manzoni, che viene imposta nelle scuole
reggimentali, nell’esercito, è la lingua della tradizione letteraria
trecentesca che viene considerata come l’unico elemento di unificazione di cui
si possa disporre concretamente e che non occorra creare dal nulla.
Detto
questo, è necessario considerare che, nel corso dei secoli, gli unici a
lavorare intorno al concetto di identità sono gli intellettuali, i quali
peraltro, diversamente da quanto accade in tutto il resto del mondo, si sentono
legati alla popolazione della penisola che si chiama Italia non in quanto si
sentono ad essa simili, ma in quanto a quella popolazione si sentono
profondamente estranei e diversi. L’intellettuale Martin Lutero contribuisce
fortemente all’unificazione del popolo germanico perché traduce la Bibbia in
tedesco, e non la traduce solo per gli intellettuali, ma per tutti i fedeli
tedeschi; in Italia, invece, per lunghi secoli, essere italiani significa essere
spregiatori della massa bruta, degli incolti. Le testimonianze letterarie di
questo atteggiamento sono innumerevoli: Giorgio Bocca, giornalista partecipe di
questo spirito, tiene una rubrica intitolata l’Antitaliano, secondo una
tradizione che viene da Machiavelli: il vero italiano è colui che denuncia i
vizi, la bassezza, l’amoralità dei suoi connazionali. Leopardi sosteneva che
la libertà non è da intendersi come elemento positivo e propulsivo di
trasformazione, ma è indisciplina sociale, volontà di non ubbidire alle leggi,
“familismo amorale” come avrebbero detto più avanti i sociologi.
A
mano a mano che l’élite degli intellettuali si riconosce come elemento di
coesione che va da Torino a Palermo, soprattutto nel ‘700, nell’epoca delle
riforme, si rinforza il sentimento che si può essere italiani soltanto essendo
antitaliani.
Ancora
Machiavelli professa un’idea dell’Italia che ebbe molto corso nel ‘500 e
che contribuì notevolmente al rallentamento della formazione di una coscienza
nazionale, idea secondo cui il valore politico più importante da preservare è
la libertà d’Italia intesa come libertà dei singoli stati che componevano la
penisola e come non ingerenza delle grandi monarchie europee nelle faccende
italiane. Secondo Machiavelli, il concetto di libertà degli stati italiani
rispetto a quelli stranieri è diametralmente opposto a quello di monarchia
d’Italia, a suo dire, auspicata dai veneziani.
Peraltro
il concetto di monarchia d’Italia risulta essere diametralmente opposto, anche
se speculare, a quello di libertà d’Italia legata ad un pluralismo statuale
dinastico che frena molto il processo di unificazione politica del paese almeno
fino all’800, quando un’idea di patria è ancora fondamentalmente estranea
al liberalismo costituzionale.
E’
dunque nel corso degli eventi che i patrioti di Parma, di Modena, di Bologna,
diventano fautori dell’unità d’Italia, poiché la tradizione politica che
arriva loro è quella machiavelliana della libertà d’Italia,
dell’indipendentismo slegato dall’unitarismo.
Solo
quando si costituisce finalmente, in virtù di circostanze politiche fortunate,
il Regno d’Italia, quando si riesce a far diventare Roma capitale, quando
prende corpo questo stato liberal-costituzionale dalla grandezza sufficiente per
garantire un’economia esterna per una politica di sviluppo, chi assiste alla
sua nascita si rende conto di quanto sia povera la sua sostanza nazionale e di
quanto sia lontana la possibilità di trovare un consenso diffuso attorno alle
nuove istituzioni liberali, proprio per la fragilità delle sue origini sul
piano identitario. Per questo motivo viene diffusa dalle classi dirigenti
un’immagine dell’Italia che non è più quella dei principi, dei guerrieri,
dei navigatori e dei santi, non è più l’Italia delle arti, delle lettere e
delle scienze, ma un’Italia che diventa improvvisamente, in armonia con uno
sforzo di industrializzazione ritardata, una
sintesi delle forze produttive e sociali.
Un
capovolgimento così vertiginoso non sarebbe stato possibile se il Risorgimento
avesse consegnato alle generazioni successive un’idea forte dell’Italia. Ciò
che gli studi oggi stanno dimostrando è che il processo risorgimentale è stato
un processo di costruzione di uno stato moderno al quale la sostanza nazionale
è stata profondamente estranea.
E ciò spiega il motivo della profonda debolezza del senso di sé da cui la
storia del nostro paese è costantemente attraversata.
Ma
la “comunità immaginata” si ricompone con
il “manufatto storico di lunga durata” e l’italianità comincia a
significare qualcosa sul piano delle esperienze, in un primo momento, durante la
I guerra mondiale, non solo per la ragione che vede uniti èlite e popolo, masse
e intellettuali, ma anche perché attorno ai campi di battaglia si gioca
consapevolmente, prima di un ordinamento politico, l’esperienza su cui si
fondano i concetti di Patria
–Territorio – Comunità – Gerarchia - Ordine Sociale. E in un secondo
momento, durante la lotta antifascista, nel’44, quando nelle formazioni
combattenti, tra i partigiani, fu chiaro fin dall’inizio che non sarebbe mai
stato possibile ottenere la facoltà di decidere del proprio futuro, di darsi un
sistema consono ai propri desideri, se non si riscattava lo stato-nazione
italiano governato da Mussolini dal baratro di vergogna in cui era caduto. Il
discorso nazionale durante la Resistenza è legato proprio alla necessità di
riscattare l’Italia, non soltanto singoli gruppi, singole fette del paese, ma
tutta l’Italia e gli italiani, e questo per sfuggire alle più pesanti
conseguenze di una sconfitta rovinosa e di una colonizzazione politica simile a
quella che subì la Germania.
Ma
anche nei momenti di guerra civile, mentre fascisti e antifascisti si combattono
e rappresentano due modi molto diversi di essere italiani, il tema
dell’appartenenza ritorna prepotente proprio perché fra i partigiani stessi,
all’interno dei partiti politici e nella società civile non c’è accordo
sul nucleo del loro essere, cioè sulla nazionalità. Per questo possiamo dire
che lo stato-nazione Italia, nel ‘43/’45, si trova al centro della contesa
politica, civile e militare.
Conversazione tenuta presso la
Fondazione "Serughetti La Porta" il 10 febbraio 2000. Registrazione
non rivista dall’Autore
A questo proposito ricordo
che una volta chiesi esplicitamente a Bruno Trentin, l’ex segretario della
CGIL e mio caro amico, se pensasse in francese o in italiano. Mi rispose che
sia lui che sua sorella pensano in francese perché hanno frequentato le
scuole in Francia e parlato francese fino a 16 anni.
Tocqueville diceva che l’uomo contemporaneo, l’uomo della modernità è
un uomo che non riconosce più i suoi antenati e che non immagina i suoi
discendenti, che mette da parte ogni anello della catena che unisce il
passato al presente e al futuro. Una parte rilevante in questa operazione di
oblio, è sicuramente la perdita dei legami con il territorio, che non è
mera natura ma paesaggio costruito, fitto di protesi che rappresentano il
vissuto collettivo, l’anima culturale di una comunità.
Trovo così significativa
questa frase di Bloch che l’ho posta ad epigrafe del mio libro “Patria
circumnavigazione di un’idea controversa” edito da Marsilio
Il libro di Anderson “Comunità Immaginata” non ha avuto fortuna
editoriale in Italia, è stato stampato in una edizione semi clandestina da
Manifesto libri quando altri storici pubblicavano da Einaudi.
La
casa editrice Il Mulino pubblica da qualche anno una collana di libri
diretta da Ernesto Galli Della Loggia dal titolo “Identità italiana”
che raccoglie titoli del tipo: “La pasta e la pizza”, “Coppi e Bartali”,
“Il santuario della Madonna di Loreto” e altre amenità del genere.
Anche Ruggero Romano nel suo libro “Paese Italia”, in modo
un po’ più provocatorio, afferma che ciò che fa gli italiani
relativamente uniformi sono elementi come il canto, il gioco delle carte, la
cucina, persino la bestemmia e
certe forme di religiosità superstiziosa.
Nel 1765 un illuminista lombardo del gruppo del Caffè, Gianrinaldo Carli,
scrive il saggio ”Della Patria e degli Italiani” in cui afferma che
è compito degli intellettuali rischiarare anche le menti degli umili
in modo che possa nascere in loro l’attaccamento al loro paese, alla loro
cultura e alle loro tradizioni. Questo fa sì che Alessandro Verri
lo redarguisca aspramente sostenendo che tra gli italiani c’è solo
cinismo, volgarità, sporcizia e ignoranza.
Recentemente è uscito un libro di Roberto Banti “La nazione del
Risorgimento”, che non tiene per nulla in conto l’immensa pubblicistica
sul Risorgimento, ma si rifà direttamente ai libri, alle letture private,
alle poesie degli uomini di quel periodo e scopre che l’idea di Italia è
legata a tutta una serie di stereotipi mentali e luoghi comuni della
coscienza che non si avvicinano ad una moderna idea di nazione. Temi
ricorrenti sono l’eroe, la vergine di cui deve essere vendicato l’onore,
la fedeltà, il tradimento, come se la Patria fosse una palestra in cui si
esercitano al meglio gli istinti antropologici più profondi e radicali.
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