Giovanni Miccoli
Il testo “Noi ricordiamo:
una riflessione sulla Shoah” è, in primo luogo, un documento rivolto ai
cattolici del mondo. Questo va tenuto ben presente per capire alcuni suoi punti.
Si presenta innanzitutto come
una riflessione morale e religiosa sulle domande pressanti della Shoah per i
cattolici. La Shoah è avvenuta in Europa cioè “in paesi di lunga
civilizzazione cristiana”, e ciò inevitabilmente pone delle questioni circa
le relazioni tra la persecuzione nazista e
gli atteggiamenti dei cristiani lungo i secoli nei confronti degli ebrei,
ossia pone la questione delle relazioni tra antiebraismo e antigiudaismo
cristiano e antisemitismo nazista.
Un secondo carattere generale del documento che va messo in rilievo, è
la sottolineatura dell’enormità della Shoah, che va oltre la capacità di
espressione delle parole e che, pur risultando per tanti aspetti ovvia, è una
constatazione importante in questo contesto
in cui voci, anche autorevoli, insisterebbero per un accantonamento, per
un ridimensionamento della memoria della Shoah.
All’opposto, in questo documento si ribadisce quanto il ricordo
sia essenziale per la ricostruzione di un futuro.
Ultimo punto caratterizzante
è la ribadita condanna di ogni antisemitismo e discriminazione, cui fa
riscontro una solenne dichiarazione di pentimento.
Questi sono i punti forti del
documento, al cui interno viene tracciato uno svolgimento, un rapido percorso
dei rapporti ebreo-cristiani e che rappresenta la parte più lunga.
Prima però penso che vada
fatto un altro rilievo sull’impianto concettuale, sull’ottica che guida più
o meno implicitamente l’intero documento: è un documento che è percorso
dalla tradizionale distinzione tra le responsabilità della Chiesa,
ontologicamente e teologicamente intesa e in qualche modo sottratta ad ogni
responsabilità, e quelle dei suoi figli e figlie nei confronti degli ebrei;
quindi del mondo cristiano, non della
Chiesa in quanto tale. E’ una classica distinzione, che esenta la Chiesa
“sine macula aut ruga”
dalle colpe dei peccati dei suoi figli e in questo modo ne salvaguarda l’indifettibilità
ed il carattere del suo magistero.
Da un punto di vista storico,
esaminando lo svolgersi dei fatti, è chiaro che una distinzione non è del
tutto improponibile, nel senso che in questa, come in tante altre questioni
cruciali, risulta difficile, per non dire impossibile, non mettere in
discussione il magistero, le
premesse dottrinali,
ecclesiologiche che sorreggevano
questi comportamenti. Questo vale per il rapporto con gli ebrei, ma vale per il
problema del rapporto con le eresie, inquisizione e via dicendo. Si cerca di
evitare di mettere in discussione la linea storica dell’istituzione della
Chiesa ricorrendo a quella distinzione.
La parte centrale del
documento è la parte storica, che ricostruisce i tratti salienti della storia
di un reciproco rapporto. E’ una parte che mostra non poche reticenze e
imprecisioni, forzature e semplificazioni. Va però ricordato, a giustificazione
del documento, che, da questo punto di vista, esso riflette sovente rimozioni,
fraintendimenti, reticenze che sono proprie dell’indagine storiografica su
questi temi, troppo spesso condizionata o da atteggiamenti apologetici da una
parte, o da atteggiamenti meramente polemici dall’altra. Vi è in primo luogo
una tendenza fortemente riduttiva della definizione del problema: è riduttivo
parlare di gruppi esagitati di cristiani che nei primi secoli assalivano i
templi pagani - cito – “[…] fecero, in alcuni casi, lo stesso nei
confronti delle sinagoghe, non senza subire l’influsso di erronee
interpretazioni del Nuovo Testamento”.
E’ chiaramente una definizione e un’affermazione del tutto riduttiva: si
pensi soltanto che dietro questi assalti di sinagoghe stava una figura come
Sant’Ambrogio che, quando la sinagoga di Callinico viene distrutta
(nell’anno 338) da un gruppo di monaci, prende posizione durissima nei
confronti di Teodosio, che voleva colpire i colpevoli: “sono io il colpevole
della distruzione”, dice Ambrogio, con una serie di affermazioni molto forti
in senso antiebraico. Basta pensare alle prediche di San Giovanni Crisostomo,
basta pensare al complesso del pensiero patristico al riguardo, dove, al di là
di singoli assalti, conta la definizione di giudizio sugli ebrei, contano le
affermazioni e proposte sulla loro condizione. Ricordiamoci dello schema
agostiniano, largamente applicato, della necessità che gli ebrei venissero
sottomessi, come testimoni della verità che portano senza comprendere, ma anche
come testimoni del castigo che sono costretti a subire per avere rifiutato il
Cristo; è inutile ricordare come queste, non erano affermazioni platoniche,
avevano precise ricadute nella legislazione dell’impero cristiano.
Questi fatti storici sono
minimizzati o omessi dal documento. E’ parso altrettanto riduttivo parlare di
sentimenti di antigiudaismo in alcuni
ambienti cristiani, sentimenti che condussero ad una discriminazione
generalizzata, a violenze. Non erano sentimenti semplicemente; erano atti,
interventi, violenze che investivano la dottrina e l’ecclesiologia, né
riguardavano soltanto alcuni ambienti, basti pensare alle massicce predicazioni
francescane del secondo ‘400 o al IV Concilio Lateranense del 1215.
L’esemplificazione è amplissima. Così è un modo quanto meno eufemistico di
dire che “[...] alla fine del XVIII secolo, quanti non erano cristiani non
sempre godettero di uno status giuridico pienamente garantito”.
Così è anche gonfio di inammissibili reticenze l’affermazione che “tra la
fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX secolo gli ebrei avevano generalmente
raggiunto una posizione di uguaglianza con gli altri cittadini nella maggioranza
degli stati”.
Chiaramente non sono solo modi eufemistici e reticenti, perché in questo caso
si oblitera, si dimentica il fatto che quell’emancipazione degli ebrei fu
letta in ambienti cristiani, cattolici e protestanti, come una smentita del
regime di cristianità.
Ed è su questa linea che
tutta la polemica del pensiero intransigente dominante nella cultura politica
cattolica dello stesso magistero papale, dal ‘48 in poi, imposta la sua
campagna antiebraica. Il documento vaticano richiama poi la diffusione, in
questo stesso periodo, di un nazionalismo esasperato e falso. Parallelamente a
questo nazionalismo, dice il documento vaticano, comincia ad affermarsi un
antigiudaismo, che era essenzialmente più socio-politico che religioso, come
conseguenza dell’accusa che gli ebrei esercitavano un’influenza
sproporzionata al loro numero.
Siamo nella seconda metà
dell’800,tra gli ultimi anni dell’800 e i primi del ‘900:
l’antisemitismo si sviluppa; c’è un concentrico attacco da tutte le forze,
che in quei decenni erano avverse al sistema liberale, all’organizzazione
dello stato liberale e quindi avverse all’ordine esistente, che individuavano
negli ebrei, in qualche modo, il simbolo della modernità, i campioni di
quell’ordine liberale, di cui gli ebrei stessi si sentivano protagonisti. Si
ha quindi un antisemitismo politico che si sviluppa in quei decenni sia sul
versante del pensiero socialista, sia sul versante del pensiero reazionario,
controrivoluzionario, quindi nemici dell’ordine esistente. Da qui la nascita
di un antisemitismo politico, ma ciò che soprattutto il documento tace,
che agli effetti di una riflessione sull’atteggiamento dei cattolici verso il
problema ebraico invece è essenziale e riguarda la nascita, in quei decenni,
dei partiti e dei movimenti cattolici, della centralità che in questi partiti
assume la polemica contro gli ebrei, una polemica che ripropose temi e
stereotipi antichi: dall’accusa di deicidio, al considerarli razza maledetta,
agli stereotipi della accusa di omicidio rituale.
Gli ultimi decenni dell’800
presentano numerosi processi di omicidio rituale larghissimamente ripresi dalla
stampa, in particolare cattolica, con l’elemento della motivazione politica.
Il punto è che l’avversione agli ebrei, l’organizzazione politica
antiebraica che i cattolici stessi si danno, assume una dimensione politica; la
proposta politica si batte contro l’emancipazione, si batte contro l’ordine
liberale e quindi, da questo punto di vista, certamente non è un antiebraismo
meramente cattolico, ma è un antiebraismo portato avanti dai cattolici anche
con motivazioni religiose oltre che politiche.
Quindi non si può distinguere ormai tra un religioso e un politico, è una
distinzione che, a mio vedere, non vale molto per i secoli precedenti, perché
l’ostilità religiosa aveva precise ricadute istituzionali, politiche e
sociali. L’esistenza, che si ritrova ancora in alcune pubblicazioni, anche
serie, di questa inutilmente insistita affermazione di tipo apologetico
(antigiudaismo-antisemitismo religioso e antigiudaismo politico-istituzionale),
è una distinzione che ha scarsi fondamenti. Negli anni ‘30 condannare il
razzismo non significava condannare l’antisemitismo, questa è una cosa che va
tenuta ben presente.
La distinzione è netta e
precisa. E’ estremamente sbagliato sostenere che nelle omelie dell’Avvento
1933, il cardinale di Monaco Faulhaber, “ebbe espressione di chiaro ripudio
della propaganda nazista antisemita”.
No! Con tutta chiarezza il cardinal Fauhaber combattè un aspetto della
propaganda nazista, combatté l’affossamento dell’antico testamento, difese
gli ebrei veterotestamentari e disse
con tutta chiarezza: “non entro nel problema attuale”; è la sua, una difesa
di quelli che sono i fondamenti della religione cristiana.
E’ quindi un’interpretazione errata, ma è proprio il frutto di una
storiografia che ha continuato e continua a ripetere interpretazioni errate.
Il punto centrale di questa
parte è la ribadita differenza-distinzione tra antigiudaismo
cristiano e antisemitismo
nazista-razzista, basato su teorie (come si dice) “contrarie al costante
insegnamento della Chiesa”. E’ una distinzione-differenziazione già
annunciata negli anni ‘30, più volte ripresa e ribadita in seguito. Nel Lexicon
für Theologie und Kirche, un’opera di consultazione e di
formazione dei cattolici, già il padre gesuita Gundlach, distingueva tra un
antisemitismo permesso, che combatte gli ebrei per la loro nefasta influenza sul
popolo, e un antisemitismo razzistico proibito. Non c’è dubbio che reale e
fondata è questa distinzione, se ci si ferma ai principi e alle motivazioni
ultime.
L’antisemitismo nazista si
fonda sulla natura: gli ebrei sono
imprigionati nella loro condizione; l’antiebraismo-antisemitismo cattolico si
fonda sulla storia: è il rifiuto di
Cristo che li ha intaccati, che li ha espunti, in qualche modo, dal consorzio
civile e quindi è una condizione da cui possono uscire. E non c’è dubbio che
in situazioni estreme questa distinzione è una distinzione che ha una sua
precisa ricaduta operativa. Si può dire che per i nazisti gli ebrei possono o
addirittura devono, da un certo momento in poi, essere uccisi; per i cristiani
no. Resta però - questo è il punto che viene taciuto nel documento - un largo
terreno comune di azioni e di comportamenti fondati su un comune giudizio
negativo, sul ruolo storico degli ebrei. Da questo comune giudizio negativo
derivavano quegli atti, quelle misure di discriminazione, di persecuzione civile
che colpirono gli ebrei negli anni ‘30, non solo in Germania, ma in Polonia,
Romania, Ungheria, Italia e poi in Francia, Slovacchia non sempre per diretta ed
impositiva presenza tedesca.
Il carattere evidentemente
anche cristiano del nazismo e i suoi fondamenti neopagani creano indubbiamente
disagio nel mondo cattolico, ma tuttavia un’opposizione esplicita, decisa,
radicale a queste misure di discriminazione e persecuzione civile è impedita
dal fatto che esse nella sostanza (nel corso degli anni ’30) ripetono, con più
o meno accentuazione, quelle che per decenni i cattolici avevano proposto: una
discriminazione civile degli ebrei. Leggi di discriminazione civile rientravano
nell’ottica politica della tradizione del movimento cattolico; sono presenti
proposte in questo senso, molto precise alla fine dell’800; in Austria
continuano a riproporlo ancora negli anni ‘20 i cristiano-sociali. Cito solo
due episodi, molto rapidamente.
Nell’aprile del 1933, all’indomani della conquista del pieno potere da
parte del Reichstag, Hitler ricevette una delegazione di vescovi tedeschi, parlò
di molte cose, anche della questione ebraica. Abbiamo la relazione che il capo
delegazione, mons. Berning, vescovo di Osnabrück, fece di questo incontro e
comincia la sua relazione sulla questione ebraica dicendo: “[…] Hitler parlò
con calore e calma, qua e là pieno di temperamento, non una parola contro i
vescovi, né contro la Chiesa [...] tratta la questione ebraica facendo ciò che
la Chiesa in 1500 anni aveva proposto”. Non è tanto significativo e
interessante che Hitler si serva della tradizione antiebraica cristiana (lo farà
anche Farinacci nel ’38), era una strumentalizzazione molto facile, quello che
colpisce è che i vescovi non hanno nulla da obiettare, non riescono ad
obiettare nulla e nel resoconto questa parte è presentata in termini positivi.
L’introduzione delle leggi
razziali in Italia suscita un’unica protesta pubblica: la proibizione dei
matrimoni misti nell’agosto del 1943. L’Unione delle Comunità Israelitiche
Italiane chiede a Badoglio l’abrogazione delle leggi razziali. In quello
stesso periodo padre Tacchi Venturi, per incarico della Segreteria di Stato
(cardinale Maglione), sta conducendo una trattativa per una modifica delle leggi
razziali. Saputo della richiesta di abrogazione totale, scrive, in una lettera
al cardinale, del suo incontro con il ministro degli Interni: “Nel trattare la
cosa […] mi limitai ai soli tre punti precisati nel venerato foglio di Vostra
Eminenza […] guardandomi bene dal pure accennare alla totale abrogazione di
una legge la quale, secondo i principi e la tradizione della Chiesa Cattolica,
ha bensì disposizioni che vanno
abrogate, ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma”.
Ancora nell’agosto del ‘43
l’idea di una legislazione speciale era accettata nel contesto vaticano.
Ho citato alcuni episodi, che
mostrano l’insufficienza di impostare in termini solo di contrapposizione dei
principi ultimi il discorso del rapporto tra antigiudaismo-antiebraismo
cristiano e antisemitismo nazista.
Il primo grande nodo, che riguarda l’atteggiamento della
Chiesa, dei cattolici verso la persecuzione ebraica e la Shoah, sta negli anni
‘30, sta, cioè, nella mancata e nel motivo della mancata protesta o
resistenza verso il sistematico processo di discriminazione e persecuzione
civile nei confronti degli ebrei tedeschi e via via europei. Va aggiunto che
questa discriminazione civile era una persecuzione estrema e pesante, ed era la
premessa necessaria della Shoah Non era un processo inevitabile: come una
catena, ogni anello non presuppone il successivo, ma ogni anello successivo non
può sussistere senza il precedente.
E’ evidente che la mancata resistenza, la condiscendenza, la
parziale approvazione, la parzialissima disapprovazione verso la leggi razziali,
verso i processi di eliminazione, non comportava, in chi si muoveva così,
l’idea, il pensiero del punto d’arrivo finale e tuttavia è significativo di
quanto fosse profondamente introiettata l’idea di una possibilità di
discriminazione civile degli ebrei che, ancora nell’agosto del ‘43 (con
tutte le informazioni che ormai c’erano in Vaticano) si potesse pensare al
mantenimento di una legislazione discriminatoria. Da questo punto di vista
l’atteggiamento verso la persecuzione non è rimandabile solo a pregiudizio o
a mancanza di sensibilità o indifferenza, ma tali idee e sentimenti si
fondarono su un giudizio profondamente introiettato, iscritto nella pratica
religiosa nella dottrina e nel pensiero politico della tradizione.
Il problema del silenzio comincia negli anni ‘30. Occorre soffermarsi sul
soprassalto di Pio XI, che, a mio vedere, è un autentico soprassalto: nella metà
del ‘38, non solo l’ipotesi di un’enciclica sull’antisemitismo, ma tutta
una serie di dichiarazioni pubbliche stavano portando alla rottura con il III
Reich. E’ una iniziativa che viene tendenzialmente minimizzata, bloccata e
boicottata all’interno degli ambienti della curia e non sarà ripresa dal suo
successore. Il problema dei “silenzi” apre un altro problema, così come
l’insieme della situazione che si complica particolarmente durante la guerra.
I riferimenti a Pio XII, nel
documento del Vaticano, sono estremamente elusivi: si ricorda la denuncia, nella
sua prima enciclica, dei pericoli delle teorie che negavano l’idea dell’unità
della razza del genere umano; si ricordano i ringraziamenti e gli apprezzamenti
per la sua opera di salvataggio degli ebrei, attestati nell’immediato
dopoguerra.
La questione è più
complicata, nel senso che il problema dell’atteggiamento di Pio XII va
chiaramente inserito in quel complesso di condizionamenti e scelte, che
determinarono la linea complessiva della Santa Sede durante la guerra e non è
certamente citabile per spiegare la
volontà di evitare maggiori sofferenze alle vittime; c’era un atteggiamento
fortemente “ecclesiocentrico”, di difesa della Chiesa tedesca; c’era la
tradizionale linea di imparzialità radicale sui contendenti, che con un attacco
frontale contro la Germania sarebbe stata infranta; c’era la catena dei
condizionamenti precedenti, dei silenzi che precedono quel silenzio, ovvero
l’esigenza di mantenere un rapporto diplomatico, che incanalasse le
comunicazioni con il Terzo Reich, in funzione delle eventuali trattative di
pace. Va aggiunto che la questione ebraica resta in qualche modo al margine
dell’ottica della consultazione ed è significativo che, nell’agosto del
‘45, al chiudersi delle ostilità in Europa, Pio XII tenga il discorso del S.
Collegio tutto incentrato sul tema del rapporto Santa Sede, Chiesa Tedesca e
Terzo Reich, insistendo largamente sulla persecuzione religiosa subita dai
cattolici. Non vi fu una parola sullo sterminio degli ebrei.
Questo è l’attestato di una
debolezza e di una mancanza di percezione di quello che era stato l’insieme
della catastrofe. Molto resta da approfondire, rifiutando la vacuità delle
apologie tuttora correnti e ricorrenti, come anche delle polemiche del dopo
sterminio.
Il documento ha suscitato
molte delusioni. A paragone di molte altre dichiarazioni vescovili è certamente
un documento debole e fiacco: basta fare riferimento al documento
dell’episcopato francese in occasione dell’anniversario dell’emanazione
delle prime leggi di discriminazione civile degli ebrei da parte di Vichy, o al
documento dei vescovi tedeschi in occasione del 50° della “Kristallnacht”.
Delusione, anche perché erano dieci anni che si stava preparando il documento.
Già la Nostra aetate del Vaticano II,
rispetto alle promesse iniziali, è stato accolta con grande delusione in
ambienti ebraici e non solo. Questo
ultimo documento è un ulteriore passo, ma è certamente troppo lento. Il vero
problema sta nel fatto che tutto ciò avviene con almeno 50-60 anni di ritardo e
bisogna cercare di rispondere e di approfondire questa questione.
P. De Benedetti
A Prato, nel 1882, presso la
Giacchetti Figlio & C., è uscito un libro, con l’imprimatur
ecclesiastico, intitolato Il sangue
cristiano nei riti ebraici nella moderna sinagoga. Rivelazioni di un neofita, ex
rabbino, monaco greco, per la prima volta pubblicato in Italia, versione dal
greco del Prof. N.F.S.; segue un’appendice storica sopra lo stesso argomento:
è una cronologia commentata di tutti i cosiddetti “omicidi rituali” che si
sono compiuti dal 1200 al 1882, anno di pubblicazione del libro. Non poteva,
giustamente, parlare delle accuse di omicidio rituale, che ci sono state in
Polonia dopo la seconda guerra mondiale, con i pogrom e l’uccisione di ebrei,
né quelli che ci sono stati nella Russia Sovietica.
Questo libro, come tutti i
testi di questo genere, fa grande sforzo di scienza storica e io l’ho preso
come spunto, perché è una testimonianza, per capillarità, di questo fenomeno.
L’anno scorso sono stati
fatti circolare degli appelli, in tutta l’Italia settentrionale, per
ripristinare il culto di S.Simone o beato Simonino di Trento. Non stiamo
parlando di archeologia. Certi stereotipi c’erano già allora: quando gli
ebrei di Trento furono arrestati per l’uccisione di Simonino, il papa mandò
un legato, il quale talvolta diede torto ai giudici. Come tutte queste storie,
anche questa è finita con un papato, che stranamente non ha esercitato alcun
potere, è stata fatta guerra al legato pontifico, sono stati mandati al rogo
gli ebrei: il papa successivo ha approvato il culto di Simonino.
Prima di parlare del
documento, voglio citare una frase di Piero Stefani, che credo sia riassuntiva
di tutto: “In definitiva l’aiuto cristiano agli ebrei fu espressione più
della forza del vangelo, che frutto dell’insegnamento magisteriale”.
A Kippur, il giorno
dell’espiazione, si afferma che Dio perdona i peccati commessi contro di Lui,
ma non quelli commessi contro il prossimo. Per essere perdonati di questi
peccati, bisogna chiedere perdono al prossimo. Questo chiedere perdono al
prossimo è un po’ difficile, occorre fare teshuvah,
che vuol dire non chiedere, ma invertire la condotta. La prima cosa che mi sono
chiesto, leggendo questo documento, è se esso esprime la teshuvah della Chiesa. A mio giudizio, probabilmente nelle
intenzioni, gli attribuisco anche un altro merito: risvegliare questa esigenza
in ampi strati, laici ed ecclesiastici, che non hanno sentito o percepito
l’enorme provocazione, che la Shoah ha posto alla legittimità di una Chiesa,
che pretende essere la Chiesa di Gesù Cristo. In questi ultimi anni si sono
sentiti molti “Basta con la Shoah” e, in questo senso, forse il documento può
fare molto, anche se ci sono stati già altri documenti di episcopati nazionali
più efficaci. La cosa singolare è che nessuno di essi è stato citato nel documento.
Questo documento vuole essere
una confessione di colpa, ma di chi è la colpa?
Io ci vedo una ecclesiologia veramente “monofisita” (più
colloquialmente direi strabica), con questa distinzione fra cristiani colpevoli
e Chiesa Santa. Tanto tempo fa si parlava di Ecclesia est Sancta e invece qui
vediamo una Chiesa Madre Santa di figli peccatori. Giovanni Paolo II ha
affermato: “E’ giusto che la Chiesa si faccia carico con viva consapevolezza
del peccato dei suoi figli”; ma solo dei figli? “Nel mondo cristiano, non
dico da parte della Chiesa, interpretazioni erronee e ingiuste del Nuovo
Testamento, riguardanti il popolo ebreo e la sua presunta colpevolezza, sono
circolate per troppo tempo.” Ma, tolti i cristiani, cosa resta della Chiesa?
Ammettiamo che in questi figli della Chiesa siano compresi i vescovi e tutti gli
altri, bisognerebbe porsi questa domanda: “Se la Chiesa è madre, come ha
allevato i suoi figli?”
E su questo “allevamento”
si potrebbe scrivere un documento che non finisce più.
Ma andiamo più indietro:
quanto aveva ragione Piercesare Bori quando, nel suo libro Il vitello d’oro, aveva messo, in qualche modo, in guardia dalla
rinascita patristica, come effetto del Vaticano II. Se la rinascita fosse
veramente avvenuta pubblicamente, e non solo a livello di studiosi, avrebbe
rimesso in gioco sia quanto detto da S. Ambrogio, sia questa frase di Giovanni
Crisostomo: “[…] come gli animali senza ragione, così il popolo giudaico,
per ebbrezza e onestà, è caduto nella maggior malizia: si ribellò, non volle
ricevere il dono di Cristo, né trascinare l’aratro della disciplina. Gli
animali brutti e inadatti al lavoro si vendono anche al macello, il che vale
anche per loro: gli ebrei, resi inutili al lavoro sono diventati adatti al
macello, per cui Cristo ha detto: I miei
nemici, che non vogliono che regni su di loro, conduceteli qui e uccideteli”.
Queste frasi venivano sentite,
avevano magistero, erano parte della tradizione. Si può davvero dire che
l’antigiudaismo teologico è una cosa e l’antisemitismo
è un’altra?
Vorrei solo ricordare che
Paolo IV Carafa, nel 1555 con la bolla Cum
nimis absurdum, una delle tre bolle, che oggi sono note come le “bolle
infami”, stabilì il ghetto e l’ultimo ghetto a cadere è stato, nel 1870,
quello dello Stato Pontificio. E non dimentichiamo che la civiltà cattolica,
negli ultimi anni del secolo scorso, era una variante dell’antigiudaismo in
tutte le sue forme, dall’omicidio rituale all’antiebraismo, alla accusa di
sangue, ecc. .
La Chiesa cattolica, fino al
Vaticano II, quindi per quasi tutta la durata della sua esistenza, ha insegnato
l’errore. Un errore non marginale, perché coinvolge l’identità stessa
della Chiesa. Basta vedere le teologie che oggi prendono spunto da Romani
9, 11 e i numerosi ed eloquenti dialoghi del Cardinal Martini, per rendersi
conto, che, se si nega la radice, la Chiesa non ha fondamento, non ha legittimità.
La Chiesa per diciannove secoli ha insegnato l’errore e ha praticato l’odio.
Ciò non solo ha avuto gli effetti
di cui si sta parlando, ma ha anche distrutto, se non impedito la nascita della
propria identità come Chiesa di Gesù Cristo.
La Nostra
aetate è il punto di arrivo riduttivo di una cosa che, nelle intenzioni del
papa, doveva essere un documento a sè, invece è diventato paragrafo di una
dichiarazione sulle religioni non cristiane. L’ebraismo non è una religione
non cristiana, lo ha detto anche lo stesso Giovanni Paolo II. Questo documento
è unico nei documenti del concilio ed è l’unico a non avere dei riferimenti
al magistero. Questo vuol significare qualche cosa.
Nel documento Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, l’antigiudaismo è
preso “allegramente”; per questo suo aspetto il documento sembra più da
situarsi in una specie di tribunale ideale, che non in un luogo di espiazione,
perché, di fronte alle confessioni dei figli, la Chiesa cerca di difendersi
accumulando attenuanti. E’ chiaro
che non è questo il sistema di teshuvah,
che ci insegna la tradizione biblica e che ci insegna Gesù stesso. Se si pensa
che nel giorno di Kippur si recitano diverse volte al giorno le confessioni dei
peccati, in cui ciascuno si confessa anche dei peccati che non ha commesso, qui,
in occasione di questo documento, il comportamento è esattamente il contrario.
Per quanto riguarda la
distinzione tra antigiudaismo e antisemitismo, mi sembra che la riduttività,
che si opera qui, ignora totalmente un fenomeno importantissimo della civiltà
occidentale: l’illuminismo, una generale laicizzazione e secolarizzazione. E
allora che cosa era l’antisemitismo non religioso, se non un recupero
dell’antigiudaismo religioso e un suo salvataggio in chiave laica? Io vedo
l’antisemitismo moderno come una variante imposta dalla storia: se non dice più
molto il fatto che gli ebrei abbiano ucciso il Cristo, si dirà che sono una
razza maledetta, sub-umana.
Che cosa dire della Shoah?
Fondamentalmente due cose: é stata eseguita, pressoché totalmente, da
battezzati ed in un paese che era cristiano da ben 15 secoli. E’ ciò che
Martin Cunz ha chiamato la “bancarotta del battesimo”; e qui entra il terzo
punto del dissenso: quella assolutamente inopportuna nota n° 16 su Pio XII.
Questa nota non c’entra niente con il tema, è certamente un’infiltrazione
curiale ed è più dannosa che utile, perché mostra soltanto la tenacia nel non
volere confessare le colpe e ciò che riguarda il pontificato di Pio XII. Citare
la commemorazione di Golda Meir non
ha nessun significato.
Non c’è apologia vaticana
che cambi di una virgola il giudizio storico su Pio XII. Un giudizio può essere
ancora modificato da indagini, ma è una faccenda degli storici non dei
cardinali. Non credo che potrà essere capovolta assolutamente, credo piuttosto
che su Pio XII si debba dare un doppio giudizio. Posso ammettere, a denti
stretti, che Pio XII è stato un buon cristiano, nel senso che ha salvato degli
ebrei, li ha nascosti, li ha accolti, ma ad un papa si chiede molto di più che
ad un buon cristiano della strada. Si chiede quello che è stato chiesto a Gesù.
Che dire della famosa frase di
Bonhoeffer: “Chi non grida per gli ebrei, non può cantare il gregoriano”?
La Chiesa, per moltissimi secoli, ha gridato contro gli ebrei, ma al momento
opportuno ha cantato il gregoriano e non ha gridato per gli ebrei, tranne
Lichtenberg e altri che erano spinti dal Vangelo e non da un magistero. Non
vorrei che questo venisse inteso come una demolizione proprio totale della
Chiesa, sostengo ed auspico che la
Chiesa, dopo questo documento, che deve essere considerato, come ha detto
giustamente il cardinal Martini, solo il primo passo, debba coraggiosamente
compiere altri passi. Quando la Chiesa avrà acquisito la consapevolezza non
delle colpe dei suoi figli, ma delle sue e dei suoi errori, degli insegnamenti
erronei, ecc., sarà finalmente una Chiesa con un’autocoscienza purificata,
una Chiesa che non avrà l’ossessione di difendere quello che si può da
quello che non si può.
In che modo la Chiesa dialoga?
Con chi dialoga? Con gli ebrei? Non ha senso parlare di dialogo con gli ebrei,
è una bella parola per tutti gli usi: gli ebrei non sono un organismo
monolitico, si può parlare con uno, non con l’altro e non è questione di
dialogare di teologia, perché l’ebraismo non ha una teologia costruita. La
Chiesa deve dialogare con se stessa al cospetto di Israele, è questo il vero
dialogo. La Chiesa deve dialogare con se stessa, vedendo, cercando in mezzo ai
propri peccati e ai propri errori di far emergere non quella “bella e immortal
benefica Chiesa in trionfi avvezza”,
ma la “Maddalena”, che in fondo era la più vicina e la più amata da Gesù.
Questo documento è altamente insoddisfacente, altamente
prudente, ma queste note negative forse possiamo considerarle provvisorie: è un
cammino che si sta facendo, o meglio, come ha osservato Piero Stefani, ha
segnato un passo veramente irreversibile. E qual è? In questo documento
finalmente compare la parola Shoah, che non era mai comparsa nei documenti
vaticani. Ricordo, per esempio, che nel documento Orientamenti e Suggerimenti dell’85, si diceva, e sembrava già un
passo in avanti, che “i cristiani devono rendersi conto dell’importanza che
ha l’Olocausto per gli ebrei”; ma come per gli ebrei? Riconsiderando queste
parole io non mi scandalizzo, vedo solo che qualche
avanzamento è stato fatto, però teniamo presente che i passi in avanti
non li farà mai Roma come tale, li devono fare i cristiani. Non aspettiamo
ancora, perché per quasi 2000 anni ci sono state date cose che noi oggi
rifiutiamo.
Conversazione tenuta
presso la Ex sala Consiliare in via T.Tasso a Bergamo il 29 aprile 1998.
Registrazione non
rivista dagli ’Autori.
Basta citare la Lettera
ad un amico ebreo, di Sergio Romano (Longanesi 1997)
Tale distinzione è
prospettata esplicitamente in una citazione di quel discorso che Giovanni
Paolo II tenne nell’ottobre 1997 ai partecipanti all’incontro di studio
su: Radici dell’antigiudaismo in
ambiente cristiano. Il testo di Giovanni Paolo II diceva: “Nel mondo
cristiano, non dico da parte della Chiesa in quanto tale, interpretazioni
erronee ed ingiuste del Nuovo Testamento riguardanti il popolo ebreo e la
sua presunta colpevolezza sono circolate per troppo tempo, generando
sentimenti ed ostilità nei confronti di questo popolo”. L’Osservatore
romano, 1.11.’97
La questione mi pare implicita
nei temi stessi appena affrontati e nel documento stesso. Emerge una
oscillazione al riguardo già in chi scrive: un cardinale firma un
documento, che viene approvato dal Papa, presentandosi
anche lui come figlio della Chiesa e per due volte si rivolge ai
fratelli e alle sorelle. E’ un modo di rivolgersi, in documenti del
magistero, assolutamente inconsueto: di solito il Papa si rivolge ai
fratelli, quando si rivolge esclusivamente all’episcopato, non quando si
rivolge a tutti i fedeli. Dunque la formula “figli” in questo caso non
si riferisce ai fedeli soltanto, ma ne è coinvolta, in qualche modo, anche
la gerarchia.
Noi
ricordiamo: una riflessione sulla Shoah,
parte III: “Le relazioni tra ebrei e cristiani”, pag.11
L’uguaglianza dei culti e la libertà di
coscienza sono più che mai l’uguaglianza civile concessa agli ebrei e
rappresentava una smentita di quel regime di cristianità che voleva gli
ebrei vivi, ma sottomessi, chiusi nel ghetto.
Gli esempi sono numerosi: i
cristiani sociali austriaci combattono gli ebrei per ragioni politiche,
sociali, ecc., perché corrompono la morale del popolo cristiano; così i
testi della prima Democrazia Cristiana Italiana, così in Francia e via
dicendo.
Quando il Congresso Mondiale
Ebraico, che era riunito in Svizzera, gli mandò un telegramma di
ringraziamento, fece rispondere dal suo segretario: “Io non sono entrato
in questioni politiche: ho difeso il Vecchio Testamento”.
In Actes
et documents du Saint Siège rélatifs à la seconde guerre mondiale, 9,
n.317, Città del Vaticano 1975, p.459. Mi sono soffermato sull’attegiamento
della Santa Sede rispetto alle legislazioni antiebraiche attestato da questo
e da altri episodi in La Santa Sede
nella II guerra mondiale: il problema dei “silenzi” di Pio XII, in
Miccoli, Fra mito della cristianità e
secolarizzazione. Studi sul rapporto chiesa-società nell’età
contemporanea, Marietti, 1985.
Ibidem, pag.16, nota 16.
In questa nota si elencano gli attestati di riconoscimento ricevuti dal
papato nel secondo dopoguerra per le iniziative
La citazione esatta,
tratta da “Cinque maggio” di A.Manzoni è “bella
e immortal benefica fede in trionfi avvezza”
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