ciclo di incontri - Marzo 1998
Quaderno n. 73
Il racconto della deportazione nella letteratura e nel cinema
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Noi ricordiamo:
una riflessione sulla Shoah


Giovanni Miccoli- Paolo De Benedetti


Giovanni Miccoli

Il testo “Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah” è, in primo luogo, un documento rivolto ai cattolici del mondo. Questo va tenuto ben presente per capire alcuni suoi punti.

Si presenta innanzitutto come una riflessione morale e religiosa sulle domande pressanti della Shoah per i cattolici. La Shoah è avvenuta in Europa cioè “in paesi di lunga civilizzazione cristiana”, e ciò inevitabilmente pone delle questioni circa le relazioni tra la persecuzione nazista e gli atteggiamenti dei cristiani lungo i secoli nei confronti degli ebrei, ossia pone la questione delle relazioni tra antiebraismo e antigiudaismo cristiano e antisemitismo nazista.

Un secondo  carattere generale del documento che va messo in rilievo, è la sottolineatura dell’enormità della Shoah, che va oltre la capacità di espressione delle parole e che, pur risultando per tanti aspetti ovvia, è una constatazione importante in questo contesto  in cui voci, anche autorevoli, insisterebbero per un accantonamento, per un ridimensionamento della memoria della Shoah[1]. All’opposto, in questo documento si ribadisce quanto il ricordo sia essenziale per la ricostruzione di un futuro.

Ultimo punto caratterizzante è la ribadita condanna di ogni antisemitismo e discriminazione, cui fa riscontro una solenne dichiarazione di pentimento.

Questi sono i punti forti del documento, al cui interno viene tracciato uno svolgimento, un rapido percorso dei rapporti ebreo-cristiani e che rappresenta la parte più lunga.

Prima però penso che vada fatto un altro rilievo sull’impianto concettuale, sull’ottica che guida più o meno implicitamente l’intero documento: è un documento che è percorso dalla tradizionale distinzione tra le responsabilità della Chiesa, ontologicamente e teologicamente intesa e in qualche modo sottratta ad ogni responsabilità, e quelle dei suoi figli e figlie nei confronti degli ebrei[2]; quindi del mondo cristiano, non della Chiesa in quanto tale. E’ una classica distinzione, che esenta la Chiesa  “sine macula aut ruga”[3] dalle colpe dei peccati dei suoi figli e in questo modo ne salvaguarda l’indifettibilità ed il carattere del suo magistero.

Da un punto di vista storico, esaminando lo svolgersi dei fatti, è chiaro che una distinzione non è del tutto improponibile, nel senso che in questa, come in tante altre questioni cruciali, risulta difficile, per non dire impossibile, non mettere in discussione il  magistero, le premesse  dottrinali, ecclesiologiche  che sorreggevano questi comportamenti. Questo vale per il rapporto con gli ebrei, ma vale per il problema del rapporto con le eresie, inquisizione e via dicendo. Si cerca di evitare di mettere in discussione la linea storica dell’istituzione della Chiesa ricorrendo a quella distinzione[4].

La parte centrale del documento è la parte storica, che ricostruisce i tratti salienti della storia di un reciproco rapporto. E’ una parte che mostra non poche reticenze e imprecisioni, forzature e semplificazioni. Va però ricordato, a giustificazione del documento, che, da questo punto di vista, esso riflette sovente rimozioni, fraintendimenti, reticenze che sono proprie dell’indagine storiografica su questi temi, troppo spesso condizionata o da atteggiamenti apologetici da una parte, o da atteggiamenti meramente polemici dall’altra. Vi è in primo luogo una tendenza fortemente riduttiva della definizione del problema: è riduttivo parlare di gruppi esagitati di cristiani che nei primi secoli assalivano i templi pagani - cito – “[…] fecero, in alcuni casi, lo stesso nei confronti delle sinagoghe, non senza subire l’influsso di erronee interpretazioni del Nuovo Testamento”[5]. E’ chiaramente una definizione e un’affermazione del tutto riduttiva: si pensi soltanto che dietro questi assalti di sinagoghe stava una figura come Sant’Ambrogio che, quando la sinagoga di Callinico viene distrutta (nell’anno 338) da un gruppo di monaci, prende posizione durissima nei confronti di Teodosio, che voleva colpire i colpevoli: “sono io il colpevole della distruzione”, dice Ambrogio, con una serie di affermazioni molto forti in senso antiebraico. Basta pensare alle prediche di San Giovanni Crisostomo, basta pensare al complesso del pensiero patristico al riguardo, dove, al di là di singoli assalti, conta la definizione di giudizio sugli ebrei, contano le  affermazioni e proposte sulla loro condizione. Ricordiamoci dello schema agostiniano, largamente applicato, della necessità che gli ebrei venissero sottomessi, come testimoni della verità che portano senza comprendere, ma anche come testimoni del castigo che sono costretti a subire per avere rifiutato il Cristo; è inutile ricordare come queste, non erano affermazioni platoniche, avevano precise ricadute nella legislazione dell’impero cristiano.

Questi fatti storici sono minimizzati o omessi dal documento. E’ parso altrettanto riduttivo parlare di sentimenti di antigiudaismo in alcuni ambienti cristiani, sentimenti che condussero ad una discriminazione generalizzata, a violenze. Non erano sentimenti semplicemente; erano atti, interventi, violenze che investivano la dottrina e l’ecclesiologia, né riguardavano soltanto alcuni ambienti, basti pensare alle massicce predicazioni francescane del secondo ‘400 o al IV Concilio Lateranense del 1215. L’esemplificazione è amplissima. Così è un modo quanto meno eufemistico di dire che “[...] alla fine del XVIII secolo, quanti non erano cristiani non sempre godettero di uno status giuridico pienamente garantito”[6]. Così è anche gonfio di inammissibili reticenze l’affermazione che “tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX secolo gli ebrei avevano generalmente raggiunto una posizione di uguaglianza con gli altri cittadini nella maggioranza degli stati”[7]. Chiaramente non sono solo modi eufemistici e reticenti, perché in questo caso si oblitera, si dimentica il fatto che quell’emancipazione degli ebrei fu letta in ambienti cristiani, cattolici e protestanti, come una smentita del regime di cristianità[8].

Ed è su questa linea che tutta la polemica del pensiero intransigente dominante nella cultura politica cattolica dello stesso magistero papale, dal ‘48 in poi, imposta la sua campagna antiebraica. Il documento vaticano richiama poi la diffusione, in questo stesso periodo, di un nazionalismo esasperato e falso. Parallelamente a questo nazionalismo, dice il documento vaticano, comincia ad affermarsi un antigiudaismo, che era essenzialmente più socio-politico che religioso, come conseguenza dell’accusa che gli ebrei esercitavano un’influenza sproporzionata al loro numero.

Siamo nella seconda metà dell’800,tra gli ultimi anni dell’800 e i primi del ‘900: l’antisemitismo si sviluppa; c’è un concentrico attacco da tutte le forze, che in quei decenni erano avverse al sistema liberale, all’organizzazione dello stato liberale e quindi avverse all’ordine esistente, che individuavano negli ebrei, in qualche modo, il simbolo della modernità, i campioni di quell’ordine liberale, di cui gli ebrei stessi si sentivano protagonisti. Si ha quindi un antisemitismo politico che si sviluppa in quei decenni sia sul versante del pensiero socialista, sia sul versante del pensiero reazionario, controrivoluzionario, quindi nemici dell’ordine esistente. Da qui la nascita di un antisemitismo politico, ma ciò che soprattutto il documento tace, che agli effetti di una riflessione sull’atteggiamento dei cattolici verso il problema ebraico invece è essenziale e riguarda la nascita, in quei decenni, dei partiti e dei movimenti cattolici, della centralità che in questi partiti assume la polemica contro gli ebrei, una polemica che ripropose temi e stereotipi antichi: dall’accusa di deicidio, al considerarli razza maledetta, agli stereotipi della accusa di omicidio rituale.

Gli ultimi decenni dell’800 presentano numerosi processi di omicidio rituale larghissimamente ripresi dalla stampa, in particolare cattolica, con l’elemento della motivazione politica. Il punto è che l’avversione agli ebrei, l’organizzazione politica antiebraica che i cattolici stessi si danno, assume una dimensione politica; la proposta politica si batte contro l’emancipazione, si batte contro l’ordine liberale e quindi, da questo punto di vista, certamente non è un antiebraismo meramente cattolico, ma è un antiebraismo portato avanti dai cattolici anche con motivazioni religiose oltre che politiche[9]. Quindi non si può distinguere ormai tra un religioso e un politico, è una distinzione che, a mio vedere, non vale molto per i secoli precedenti, perché l’ostilità religiosa aveva precise ricadute istituzionali, politiche e sociali. L’esistenza, che si ritrova ancora in alcune pubblicazioni, anche serie, di questa inutilmente insistita affermazione di tipo apologetico (antigiudaismo-antisemitismo religioso e antigiudaismo politico-istituzionale), è una distinzione che ha scarsi fondamenti. Negli anni ‘30 condannare il razzismo non significava condannare l’antisemitismo, questa è una cosa che va tenuta ben presente.

La distinzione è netta e precisa. E’ estremamente sbagliato sostenere che nelle omelie dell’Avvento 1933, il cardinale di Monaco Faulhaber, “ebbe espressione di chiaro ripudio della propaganda nazista antisemita”[10]. No! Con tutta chiarezza il cardinal Fauhaber combattè un aspetto della propaganda nazista, combatté l’affossamento dell’antico testamento, difese gli ebrei veterotestamentari e  disse con tutta chiarezza: “non entro nel problema attuale”; è la sua, una difesa di quelli che sono i fondamenti della religione cristiana[11]. E’ quindi un’interpretazione errata, ma è proprio il frutto di una storiografia che ha continuato e continua a ripetere interpretazioni errate.

Il punto centrale di questa parte è la ribadita differenza-distinzione tra antigiudaismo cristiano e antisemitismo nazista-razzista, basato su teorie (come si dice) “contrarie al costante insegnamento della Chiesa”. E’ una distinzione-differenziazione già annunciata negli anni ‘30, più volte ripresa e ribadita in seguito. Nel Lexicon für Theologie und Kirche, un’opera di consultazione e di formazione dei cattolici, già il padre gesuita Gundlach, distingueva tra un antisemitismo permesso, che combatte gli ebrei per la loro nefasta influenza sul popolo, e un antisemitismo razzistico proibito. Non c’è dubbio che reale e fondata è questa distinzione, se ci si ferma ai principi e alle motivazioni ultime.

L’antisemitismo nazista si fonda sulla natura: gli ebrei sono imprigionati nella loro condizione; l’antiebraismo-antisemitismo cattolico si fonda sulla storia: è il rifiuto di Cristo che li ha intaccati, che li ha espunti, in qualche modo, dal consorzio civile e quindi è una condizione da cui possono uscire. E non c’è dubbio che in situazioni estreme questa distinzione è una distinzione che ha una sua precisa ricaduta operativa. Si può dire che per i nazisti gli ebrei possono o addirittura devono, da un certo momento in poi, essere uccisi; per i cristiani no. Resta però - questo è il punto che viene taciuto nel documento - un largo terreno comune di azioni e di comportamenti fondati su un comune giudizio negativo, sul ruolo storico degli ebrei. Da questo comune giudizio negativo derivavano quegli atti, quelle misure di discriminazione, di persecuzione civile che colpirono gli ebrei negli anni ‘30, non solo in Germania, ma in Polonia, Romania, Ungheria, Italia e poi in Francia, Slovacchia non sempre per diretta ed impositiva presenza tedesca.

Il carattere evidentemente anche cristiano del nazismo e i suoi fondamenti neopagani creano indubbiamente disagio nel mondo cattolico, ma tuttavia un’opposizione esplicita, decisa, radicale a queste misure di discriminazione e persecuzione civile è impedita dal fatto che esse nella sostanza (nel corso degli anni ’30) ripetono, con più o meno accentuazione, quelle che per decenni i cattolici avevano proposto: una discriminazione civile degli ebrei. Leggi di discriminazione civile rientravano nell’ottica politica della tradizione del movimento cattolico; sono presenti proposte in questo senso, molto precise alla fine dell’800; in Austria continuano a riproporlo ancora negli anni ‘20 i cristiano-sociali. Cito solo due episodi, molto rapidamente.

Nell’aprile  del 1933, all’indomani della conquista del pieno potere da parte del Reichstag, Hitler ricevette una delegazione di vescovi tedeschi, parlò di molte cose, anche della questione ebraica. Abbiamo la relazione che il capo delegazione, mons. Berning, vescovo di Osnabrück, fece di questo incontro e comincia la sua relazione sulla questione ebraica dicendo: “[…] Hitler parlò con calore e calma, qua e là pieno di temperamento, non una parola contro i vescovi, né contro la Chiesa [...] tratta la questione ebraica facendo ciò che la Chiesa in 1500 anni aveva proposto”. Non è tanto significativo e interessante che Hitler si serva della tradizione antiebraica cristiana (lo farà anche Farinacci nel ’38), era una strumentalizzazione molto facile, quello che colpisce è che i vescovi non hanno nulla da obiettare, non riescono ad obiettare nulla e nel resoconto questa parte è presentata in termini positivi.

L’introduzione delle leggi razziali in Italia suscita un’unica protesta pubblica: la proibizione dei matrimoni misti nell’agosto del 1943. L’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane chiede a Badoglio l’abrogazione delle leggi razziali. In quello stesso periodo padre Tacchi Venturi, per incarico della Segreteria di Stato (cardinale Maglione), sta conducendo una trattativa per una modifica delle leggi razziali. Saputo della richiesta di abrogazione totale, scrive, in una lettera al cardinale, del suo incontro con il ministro degli Interni: “Nel trattare la cosa […] mi limitai ai soli tre punti precisati nel venerato foglio di Vostra Eminenza […] guardandomi bene dal pure accennare alla totale abrogazione di una legge la quale, secondo i principi e la tradizione della Chiesa Cattolica, ha bensì  disposizioni che vanno abrogate, ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma”[12].

Ancora nell’agosto del ‘43 l’idea di una legislazione speciale era accettata nel contesto vaticano.

Ho citato alcuni episodi, che mostrano l’insufficienza di impostare in termini solo di contrapposizione dei principi ultimi il discorso del rapporto tra antigiudaismo-antiebraismo cristiano e antisemitismo nazista.

Il primo grande nodo, che riguarda l’atteggiamento della Chiesa, dei cattolici verso la persecuzione ebraica e la Shoah, sta negli anni ‘30, sta, cioè, nella mancata e nel motivo della mancata protesta o resistenza verso il sistematico processo di discriminazione e persecuzione civile nei confronti degli ebrei tedeschi e via via europei. Va aggiunto che questa discriminazione civile era una persecuzione estrema e pesante, ed era la premessa necessaria della Shoah Non era un processo inevitabile: come una catena, ogni anello non presuppone il successivo, ma ogni anello successivo non può sussistere senza il precedente.

E’ evidente che la mancata resistenza, la condiscendenza, la parziale approvazione, la parzialissima disapprovazione verso la leggi razziali, verso i processi di eliminazione, non comportava, in chi si muoveva così, l’idea, il pensiero del punto d’arrivo finale e tuttavia è significativo di quanto fosse profondamente introiettata l’idea di una possibilità di discriminazione civile degli ebrei che, ancora nell’agosto del ‘43 (con tutte le informazioni che ormai c’erano in Vaticano) si potesse pensare al mantenimento di una legislazione discriminatoria. Da questo punto di vista l’atteggiamento verso la persecuzione non è rimandabile solo a pregiudizio o a mancanza di sensibilità o indifferenza, ma tali idee e sentimenti si fondarono su un giudizio profondamente introiettato, iscritto nella pratica religiosa nella dottrina e nel pensiero politico della tradizione.

Il problema del silenzio comincia negli anni ‘30. Occorre soffermarsi sul soprassalto di Pio XI, che, a mio vedere, è un autentico soprassalto: nella metà del ‘38, non solo l’ipotesi di un’enciclica sull’antisemitismo, ma tutta una serie di dichiarazioni pubbliche stavano portando alla rottura con il III Reich. E’ una iniziativa che viene tendenzialmente minimizzata, bloccata e boicottata all’interno degli ambienti della curia e non sarà ripresa dal suo successore. Il problema dei “silenzi” apre un altro problema, così come l’insieme della situazione che si complica particolarmente durante la guerra.

I riferimenti a Pio XII, nel documento del Vaticano, sono estremamente elusivi: si ricorda la denuncia, nella sua prima enciclica, dei pericoli delle teorie che negavano l’idea dell’unità della razza del genere umano; si ricordano i ringraziamenti e gli apprezzamenti per la sua opera di salvataggio degli ebrei, attestati nell’immediato dopoguerra.

La questione è più complicata, nel senso che il problema dell’atteggiamento di Pio XII va chiaramente inserito in quel complesso di condizionamenti e scelte, che determinarono la linea complessiva della Santa Sede durante la guerra e non è certamente citabile per spiegare  la volontà di evitare maggiori sofferenze alle vittime; c’era un atteggiamento fortemente “ecclesiocentrico”, di difesa della Chiesa tedesca; c’era la tradizionale linea di imparzialità radicale sui contendenti, che con un attacco frontale contro la Germania sarebbe stata infranta; c’era la catena dei condizionamenti precedenti, dei silenzi che precedono quel silenzio, ovvero l’esigenza di mantenere un rapporto diplomatico, che incanalasse le comunicazioni con il Terzo Reich, in funzione delle eventuali trattative di pace. Va aggiunto che la questione ebraica resta in qualche modo al margine dell’ottica della consultazione ed è significativo che, nell’agosto del ‘45, al chiudersi delle ostilità in Europa, Pio XII tenga il discorso del S. Collegio tutto incentrato sul tema del rapporto Santa Sede, Chiesa Tedesca e Terzo Reich, insistendo largamente sulla persecuzione religiosa subita dai cattolici. Non vi fu una parola sullo sterminio degli ebrei.

Questo è l’attestato di una debolezza e di una mancanza di percezione di quello che era stato l’insieme della catastrofe. Molto resta da approfondire, rifiutando la vacuità delle apologie tuttora correnti e ricorrenti, come anche delle polemiche del dopo sterminio.

Il documento ha suscitato molte delusioni. A paragone di molte altre dichiarazioni vescovili è certamente un documento debole e fiacco: basta fare riferimento al documento dell’episcopato francese in occasione dell’anniversario dell’emanazione delle prime leggi di discriminazione civile degli ebrei da parte di Vichy, o al documento dei vescovi tedeschi in occasione del 50° della “Kristallnacht”. Delusione, anche perché erano dieci anni che si stava preparando il documento. Già la Nostra aetate del Vaticano II,  rispetto alle promesse iniziali, è stato accolta con grande delusione in ambienti ebraici e non solo.  Questo ultimo documento è un ulteriore passo, ma è certamente troppo lento. Il vero problema sta nel fatto che tutto ciò avviene con almeno 50-60 anni di ritardo e bisogna cercare di rispondere e di approfondire questa questione.

P. De Benedetti

A Prato, nel 1882, presso la Giacchetti Figlio & C., è uscito un libro, con l’imprimatur ecclesiastico, intitolato Il sangue cristiano nei riti ebraici nella moderna sinagoga. Rivelazioni di un neofita, ex rabbino, monaco greco, per la prima volta pubblicato in Italia, versione dal greco del Prof. N.F.S.; segue un’appendice storica sopra lo stesso argomento: è una cronologia commentata di tutti i cosiddetti “omicidi rituali” che si sono compiuti dal 1200 al 1882, anno di pubblicazione del libro. Non poteva, giustamente, parlare delle accuse di omicidio rituale, che ci sono state in Polonia dopo la seconda guerra mondiale, con i pogrom e l’uccisione di ebrei, né quelli che ci sono stati nella Russia Sovietica.

Questo libro, come tutti i testi di questo genere, fa grande sforzo di scienza storica e io l’ho preso come spunto, perché è una testimonianza, per capillarità, di questo fenomeno.

L’anno scorso sono stati fatti circolare degli appelli, in tutta l’Italia settentrionale, per ripristinare il culto di S.Simone o beato Simonino di Trento. Non stiamo parlando di archeologia. Certi stereotipi c’erano già allora: quando gli ebrei di Trento furono arrestati per l’uccisione di Simonino, il papa mandò un legato, il quale talvolta diede torto ai giudici. Come tutte queste storie, anche questa è finita con un papato, che stranamente non ha esercitato alcun potere, è stata fatta guerra al legato pontifico, sono stati mandati al rogo gli ebrei: il papa successivo ha approvato il culto di Simonino.

Prima di parlare del documento, voglio citare una frase di Piero Stefani, che credo sia riassuntiva di tutto: “In definitiva l’aiuto cristiano agli ebrei fu espressione più della forza del vangelo, che frutto dell’insegnamento magisteriale”.

A Kippur, il giorno dell’espiazione, si afferma che Dio perdona i peccati commessi contro di Lui, ma non quelli commessi contro il prossimo. Per essere perdonati di questi peccati, bisogna chiedere perdono al prossimo. Questo chiedere perdono al prossimo è un po’ difficile, occorre fare teshuvah, che vuol dire non chiedere, ma invertire la condotta. La prima cosa che mi sono chiesto, leggendo questo documento, è se esso esprime la teshuvah della Chiesa. A mio giudizio, probabilmente nelle intenzioni, gli attribuisco anche un altro merito: risvegliare questa esigenza in ampi strati, laici ed ecclesiastici, che non hanno sentito o percepito l’enorme provocazione, che la Shoah ha posto alla legittimità di una Chiesa, che pretende essere la Chiesa di Gesù Cristo. In questi ultimi anni si sono sentiti molti “Basta con la Shoah” e, in questo senso, forse il documento può fare molto, anche se ci sono stati già altri documenti di episcopati nazionali più efficaci. La cosa singolare è che nessuno di essi  è stato citato nel documento.

Questo documento vuole essere una confessione di colpa, ma di chi è la colpa?

Io ci vedo una ecclesiologia veramente “monofisita” (più colloquialmente direi strabica), con questa distinzione fra cristiani colpevoli e Chiesa Santa. Tanto tempo fa si parlava di Ecclesia est Sancta e invece qui vediamo una Chiesa Madre Santa di figli peccatori. Giovanni Paolo II ha affermato: “E’ giusto che la Chiesa si faccia carico con viva consapevolezza del peccato dei suoi figli”; ma solo dei figli? “Nel mondo cristiano, non dico da parte della Chiesa, interpretazioni erronee e ingiuste del Nuovo Testamento, riguardanti il popolo ebreo e la sua presunta colpevolezza, sono circolate per troppo tempo.” Ma, tolti i cristiani, cosa resta della Chiesa? Ammettiamo che in questi figli della Chiesa siano compresi i vescovi e tutti gli altri, bisognerebbe porsi questa domanda: “Se la Chiesa è madre, come ha allevato i suoi figli?”

E su questo “allevamento” si potrebbe scrivere un documento che non finisce più.

Ma andiamo più indietro: quanto aveva ragione Piercesare Bori quando, nel suo libro Il vitello d’oro, aveva messo, in qualche modo, in guardia dalla rinascita patristica, come effetto del Vaticano II. Se la rinascita fosse veramente avvenuta pubblicamente, e non solo a livello di studiosi, avrebbe rimesso in gioco sia quanto detto da S. Ambrogio, sia questa frase di Giovanni Crisostomo: “[…] come gli animali senza ragione, così il popolo giudaico, per ebbrezza e onestà, è caduto nella maggior malizia: si ribellò, non volle ricevere il dono di Cristo, né trascinare l’aratro della disciplina. Gli animali brutti e inadatti al lavoro si vendono anche al macello, il che vale anche per loro: gli ebrei, resi inutili al lavoro sono diventati adatti al macello, per cui Cristo ha detto: I miei nemici, che non vogliono che regni su di loro, conduceteli qui e uccideteli”.

Queste frasi venivano sentite, avevano magistero, erano parte della tradizione. Si può davvero dire che l’antigiudaismo teologico è una cosa e l’antisemitismo  è un’altra?

Vorrei solo ricordare che Paolo IV Carafa, nel 1555 con la bolla Cum nimis absurdum, una delle tre bolle, che oggi sono note come le “bolle infami”, stabilì il ghetto e l’ultimo ghetto a cadere è stato, nel 1870, quello dello Stato Pontificio. E non dimentichiamo che la civiltà cattolica, negli ultimi anni del secolo scorso, era una variante dell’antigiudaismo in tutte le sue forme, dall’omicidio rituale all’antiebraismo, alla accusa di sangue, ecc. .

La Chiesa cattolica, fino al Vaticano II, quindi per quasi tutta la durata della sua esistenza, ha insegnato l’errore. Un errore non marginale, perché coinvolge l’identità stessa della Chiesa. Basta vedere le teologie che oggi prendono spunto da Romani 9, 11 e i numerosi ed eloquenti dialoghi del Cardinal Martini, per rendersi conto, che, se si nega la radice, la Chiesa non ha fondamento, non ha legittimità. La Chiesa per diciannove secoli ha insegnato l’errore e ha praticato l’odio. Ciò  non solo ha avuto gli effetti di cui si sta parlando, ma ha anche distrutto, se non impedito la nascita della propria identità come Chiesa di Gesù Cristo.

La Nostra aetate è il punto di arrivo riduttivo di una cosa che, nelle intenzioni del papa, doveva essere un documento a sè, invece è diventato paragrafo di una dichiarazione sulle religioni non cristiane. L’ebraismo non è una religione non cristiana, lo ha detto anche lo stesso Giovanni Paolo II. Questo documento è unico nei documenti del concilio ed è l’unico a non avere dei riferimenti al magistero. Questo vuol significare qualche cosa.

Nel documento Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, l’antigiudaismo è preso “allegramente”; per questo suo aspetto il documento sembra più da situarsi in una specie di tribunale ideale, che non in un luogo di espiazione, perché, di fronte alle confessioni dei figli, la Chiesa cerca di difendersi accumulando  attenuanti. E’ chiaro che non è questo il sistema di teshuvah, che ci insegna la tradizione biblica e che ci insegna Gesù stesso. Se si pensa che nel giorno di Kippur si recitano diverse volte al giorno le confessioni dei peccati, in cui ciascuno si confessa anche dei peccati che non ha commesso, qui, in occasione di questo documento, il comportamento è esattamente il contrario.

Per quanto riguarda la distinzione tra antigiudaismo e antisemitismo, mi sembra che la riduttività, che si opera qui, ignora totalmente un fenomeno importantissimo della civiltà occidentale: l’illuminismo, una generale laicizzazione e secolarizzazione. E allora che cosa era l’antisemitismo non religioso, se non un recupero dell’antigiudaismo religioso e un suo salvataggio in chiave laica? Io vedo l’antisemitismo moderno come una variante imposta dalla storia: se non dice più molto il fatto che gli ebrei abbiano ucciso il Cristo, si dirà che sono una razza maledetta, sub-umana.

Che cosa dire della Shoah? Fondamentalmente due cose: é stata eseguita, pressoché totalmente, da battezzati ed in un paese che era cristiano da ben 15 secoli. E’ ciò che Martin Cunz ha chiamato la “bancarotta del battesimo”; e qui entra il terzo punto del dissenso: quella assolutamente inopportuna nota n° 16 su Pio XII[13]. Questa nota non c’entra niente con il tema, è certamente un’infiltrazione curiale ed è più dannosa che utile, perché mostra soltanto la tenacia nel non volere confessare le colpe e ciò che riguarda il pontificato di Pio XII. Citare la commemorazione di Golda Meir  non ha nessun significato.   

Non c’è apologia vaticana che cambi di una virgola il giudizio storico su Pio XII. Un giudizio può essere ancora modificato da indagini, ma è una faccenda degli storici non dei cardinali. Non credo che potrà essere capovolta assolutamente, credo piuttosto che su Pio XII si debba dare un doppio giudizio. Posso ammettere, a denti stretti, che Pio XII è stato un buon cristiano, nel senso che ha salvato degli ebrei, li ha nascosti, li ha accolti, ma ad un papa si chiede molto di più che ad un buon cristiano della strada. Si chiede quello che è stato chiesto a Gesù.

Che dire della famosa frase di Bonhoeffer: “Chi non grida per gli ebrei, non può cantare il gregoriano”? La Chiesa, per moltissimi secoli, ha gridato contro gli ebrei, ma al momento opportuno ha cantato il gregoriano e non ha gridato per gli ebrei, tranne Lichtenberg e altri che erano spinti dal Vangelo e non da un magistero. Non vorrei che questo venisse inteso come una demolizione proprio totale della Chiesa, sostengo ed auspico che  la Chiesa, dopo questo documento, che deve essere considerato, come ha detto giustamente il cardinal Martini, solo il primo passo, debba coraggiosamente compiere altri passi. Quando la Chiesa avrà acquisito la consapevolezza non delle colpe dei suoi figli, ma delle sue e dei suoi errori, degli insegnamenti erronei, ecc., sarà finalmente una Chiesa con un’autocoscienza purificata, una Chiesa che non avrà l’ossessione di difendere quello che si può da quello che non si può.

In che modo la Chiesa dialoga? Con chi dialoga? Con gli ebrei? Non ha senso parlare di dialogo con gli ebrei, è una bella parola per tutti gli usi: gli ebrei non sono un organismo monolitico, si può parlare con uno, non con l’altro e non è questione di dialogare di teologia, perché l’ebraismo non ha una teologia costruita. La Chiesa deve dialogare con se stessa al cospetto di Israele, è questo il vero dialogo. La Chiesa deve dialogare con se stessa, vedendo, cercando in mezzo ai propri peccati e ai propri errori di far emergere non quella “bella e immortal benefica Chiesa in trionfi avvezza”[14], ma la “Maddalena”, che in fondo era la più vicina e la più amata da Gesù.

Questo documento è altamente insoddisfacente, altamente prudente, ma queste note negative forse possiamo considerarle provvisorie: è un cammino che si sta facendo, o meglio, come ha osservato Piero Stefani, ha segnato un passo veramente irreversibile. E qual è? In questo documento finalmente compare la parola Shoah, che non era mai comparsa nei documenti vaticani. Ricordo, per esempio, che nel documento Orientamenti e Suggerimenti dell’85, si diceva, e sembrava già un passo in avanti, che “i cristiani devono rendersi conto dell’importanza che ha l’Olocausto per gli ebrei”; ma come per gli ebrei? Riconsiderando queste parole io non mi scandalizzo, vedo solo che qualche  avanzamento è stato fatto, però teniamo presente che i passi in avanti non li farà mai Roma come tale, li devono fare i cristiani. Non aspettiamo ancora, perché per quasi 2000 anni ci sono state date cose che noi oggi rifiutiamo.   

 

Conversazione tenuta presso la Ex sala Consiliare in via T.Tasso a Bergamo il 29 aprile 1998.

Registrazione non rivista dagli ’Autori.



[1] Basta citare la Lettera ad un amico ebreo, di Sergio Romano (Longanesi 1997)

[2] Tale distinzione è prospettata esplicitamente in una citazione di quel discorso che Giovanni Paolo II tenne nell’ottobre 1997 ai partecipanti all’incontro di studio su: Radici dell’antigiudaismo in ambiente cristiano. Il testo di Giovanni Paolo II diceva: “Nel mondo cristiano, non dico da parte della Chiesa in quanto tale, interpretazioni erronee ed ingiuste del Nuovo Testamento riguardanti il popolo ebreo e la sua presunta colpevolezza sono circolate per troppo tempo, generando sentimenti ed ostilità nei confronti di questo popolo”. L’Osservatore romano, 1.11.’97

[3] cfr.: Efesini, 5, 27

[4] La questione mi pare implicita nei temi stessi appena affrontati e nel documento stesso. Emerge una oscillazione al riguardo già in chi scrive: un cardinale firma un documento, che viene approvato dal Papa, presentandosi  anche lui come figlio della Chiesa e per due volte si rivolge ai fratelli e alle sorelle. E’ un modo di rivolgersi, in documenti del magistero, assolutamente inconsueto: di solito il Papa si rivolge ai fratelli, quando si rivolge esclusivamente all’episcopato, non quando si rivolge a tutti i fedeli. Dunque la formula “figli” in questo caso non si riferisce ai fedeli soltanto, ma ne è coinvolta, in qualche modo, anche la gerarchia.

[5] Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, parte III: “Le relazioni tra ebrei e cristiani”, pag.11

[6] Ibidem, pag.11

[7] ibidem, pag.12

[8] L’uguaglianza dei culti e la libertà di coscienza sono più che mai l’uguaglianza civile concessa agli ebrei e rappresentava una smentita di quel regime di cristianità che voleva gli ebrei vivi, ma sottomessi, chiusi nel ghetto.

[9] Gli esempi sono numerosi: i cristiani sociali austriaci combattono gli ebrei per ragioni politiche, sociali, ecc., perché corrompono la morale del popolo cristiano; così i testi della prima Democrazia Cristiana Italiana, così in Francia e via dicendo.

[10] Ibidem, pag.13

[11] Quando il Congresso Mondiale Ebraico, che era riunito in Svizzera, gli mandò un telegramma di ringraziamento, fece rispondere dal suo segretario: “Io non sono entrato in questioni politiche: ho difeso il Vecchio Testamento”.

[12] In Actes et documents du Saint Siège rélatifs à la seconde guerre mondiale, 9, n.317, Città del Vaticano 1975, p.459. Mi sono soffermato sull’attegiamento della Santa Sede rispetto alle legislazioni antiebraiche attestato da questo e da altri episodi in La Santa Sede nella II guerra mondiale: il problema dei “silenzi” di Pio XII, in Miccoli, Fra mito della cristianità e secolarizzazione. Studi sul rapporto chiesa-società nell’età contemporanea, Marietti, 1985.

[13] Ibidem, pag.16, nota 16. In questa nota si elencano gli attestati di riconoscimento ricevuti dal papato nel secondo dopoguerra per le iniziative

[14] La citazione esatta, tratta da “Cinque maggio” di A.Manzoni è “bella e immortal benefica fede in trionfi avvezza”

 

 

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