Inizio il mio intervento con una
citazione del regista Lanzmann: ‘Il film non è fatto con dei ricordi, l’ho
saputo fin dall’inizio, il ricordo mi fa orrore il ricordo è debole. Il film
è l’abolizione di ogni distanza tra il passato e il presente. Ho rivissuto
questa storia al presente.’
Si trattava, per Lanzmann, di
partire dall’impossibilità del ricordo e dall’impossibilità di raccontare.
Una sorta di paradosso che, però, solo apparentemente è tale. Noi abbiamo
visto soltanto una sequenza del film,
una tra le più drammatiche e toccanti, ma in realtà tutto il film è
strutturato in questo modo, Lanzmann
cioè prende i testimoni estremi dell’estremo e li fa parlare in spazi che, in
nessuna immagine, mostrano il passato. Prende testimoni estremi, nel senso che
interpella le vittime, gli spettatori e i carnefici (richiama così il titolo di
un libro di Hilberg, uno dei massimi storici della Shoah che viene intervistato
da Lanzmann nel corso del film), ma porta tutto all’estremo.
Le vittime sono quelle del
Sonderkommando, cioè di quelle squadre speciali di ebrei selezionati nei campi
di sterminio dalle SS, per lavorare intorno e all’interno delle camere a gas,
per dare poi il prodotto finale, la morte.
Gli spettatori sono i contadini
polacchi che continuavano a lavorare la terra attorno ai campi di sterminio
oppure gli abitanti polacchi di un villaggio che hanno assistito alla
deportazione di tutti gli ebrei da quel villaggio verso i campi.
I carnefici sono le SS che
lavoravano all’interno del campo di sterminio.
Si parla soltanto di territorio
polacco, quasi esclusivamente di campi di sterminio, quei campi che avevano
l’unica funzione di sterminare le persone, diversi dai campi di concentramento
dove i detenuti venivano anche uccisi, ma in cui svolgevano anche altre
funzioni, tra cui quella di lavorare per i tedeschi.
Il film è un continuo raccontare,
ricordare e testimoniare, ma ognuna di queste funzioni si trova ad essere
stravolta. Lanzmann dice che i pochi sopravvissuti delle squadre speciali, che a
loro volta finivano nelle camere a gas, come ricorda anche Levi ne ‘I sommersi
e i salvati’, non sono dei testimoni, ma
sono attori e personaggi. La tecnica usata è quella di far parlare e
ricordare, rimettendo in scena i gesti che essi stessi facevano nel passato. Da
questo punto di vista la “scena del barbiere” è del tutto emblematica.
Lanzmann non intervista Abraham Bomba in un luogo neutro, ma lo intervista in
Israele in un negozio da barbiere, dove egli rifà i gesti che faceva nel campo
a Treblinka, quando tagliava i capelli alle donne prima che entrassero nelle
camere a gas. Proprio per questa messa in scena, questa ripetizione dei gesti
del passato, i ricordi non sono veri ricordi, ma atti, attualizzazioni e ripetizioni.
I discorsi e i racconti sono
certamente tali, ma quasi tutti vengono attraversati da un momento in cui c’è
un vuoto di parola, il discorso precipita verso questo momento di silenzio e una
verità emerge dalla crisi del discorso, dal suo spezzarsi, dal suo
interrompersi. Da questo punto di vista, di nuovo, la scena del barbiere è
emblematica; il barbiere racconta e ricorda; noi all’inizio sentiamo una sorta
di distanza dal suo racconto, dovuta alla distanza che egli stesso ha rispetto
alla storia che sta raccontando, come se quel passato non fosse il suo passato,
come se quel passato fosse accaduto a qualcuno d’altro, lo allontana da sé,
usando la terza persona per parlarci del suo passato. Poi improvvisamente c’è
il silenzio, l’emozione del testimone, del barbiere, ma anche la nostra.
Il discorso viene interrotto, questa
distanza emotiva anche e il passato
non è fissato, non viene posto al passato. È come se il barbiere riuscisse a
parlare di questo suo passato solo in terza persona, allontanandolo quindi da sé,
e poi improvvisamente riuscisse a dire ‘io’ rispetto a quel passato, come se
potesse riconoscersi in quel passato, solo nel momento in cui non riesce più a
parlare, nel momento di assoluta emozione, del silenzio.
Si diceva dunque rottura della
funzione del discorso, del raccontare, del ricordare. In questo quadro di
rottura c’è un’altra rottura che, a mio avviso, riesce a inglobare tutte le
altre: ‘Hier ist kein Warum’: ‘Qui non c’è perché’. Questa
frase viene evocata da Primo Levi in una delle pagine iniziali di ‘Se
questo è un uomo’, nel momento in cui egli entra nel campo di Auschwitz, ed
è innalzata a legge-non legge del campo.
Lanzmann riprende questa frase,
intitola così la pagina di presentazione del film, ma le dà una maggiore
estensione. Non soltanto nel campo domina l’assenza di una ragione per tutte
le infinite regole non scritte che sovrastavano la vita dei detenuti, ma
l’intero episodio della Shoah non ha un perché, non ha una ragione: porsi la
domanda del perché gli ebrei siano stati sterminati e cercare di darvi una
risposta sarebbe in un certo senso blasfemo. Dunque la stessa possibilità di
trasmettere questo episodio deve rispettare questa assenza di ragione. Si deve
ascoltare, leggere. Avvicinarsi ai luoghi dove ciò è avvenuto, mantenendo una
sorta di atteggiamento etico dettato da una disposizione iniziale di non
comprensione. Ciò significa che nessun vero sapere preesiste alla trasmissione
di questo episodio, ma che la trasmissione stessa è il sapere.
‘Hier
ist kein Warum’.
Questa frase richiama l’attenzione
di Lanzmann al suggerimento di Primo Levi; in realtà questo non è l’unico
punto in cui Lanzmann è attento ai suggerimenti di Levi. A partire da ‘Se
questo è un uomo’, in tutte le
sue interviste e testimonianze ed, infine, anche ne ‘I sommersi e i salvati’,
Levi insiste sul fatto che nel campo domina la babele linguistica, la confusione
di linguaggi e la conseguente incomprensione che essa crea; si muore sì di
fame, di freddo, di fatica, ma si muore anche, del fatto di non comprendere le
lingue che nel campo vengono parlate(ciò vale soprattutto per i detenuti greci
e italiani). Si muore dunque di
incomprensione, non si capiscono le lingue che gli altri detenuti parlano, ma
soprattutto non si capisce la lingua in cui vengono dati gli ordini, che quindi
non vengono eseguiti immediatamente, come, invece, la regola del campo vuole.
Lanzmann rispetta questo universo
linguistico multiplo e confuso; egli intervista quasi sempre in francese, se non
nei casi in cui i suoi interlocutori parlino le lingue che egli conosce come
l’inglese o il tedesco. Ma i suoi testimoni-attori parlano anche altre lingue:
lo yiddish, l’ebraico, il polacco. Continuamente noi, in quanto spettatori,
passiamo da un universo linguistico ad un altro, passiamo dall’ascolto di una
lingua a un’altra, e veniamo a nostra volta proiettati e catturati in un
universo di dispersione linguistica che, da un lato, rispecchia quella
confusione linguistica di cui parlava Levi, dall’altro, rispecchia anche la
confusione linguistica del dopo-Shoah, cioè l’irradiamento nei vari universi
linguistici e quindi geografici che la Shoah
ha avuto. Infatti i sopravvissuti molto spesso non sono tornati nelle
loro case e si sono dispersi per il mondo.
Questa è una breve descrizione del
contesto, utile a chi non ha visto l’intero film.
Il film è doppiato ma si è fatta
questa scelta di mostrarvi almeno una scena tratta dall’originale, per far
capire il metodo usato da Lanzmann. Nella versione originale, i sottotitoli sono
in francese mentre gli intervistati usano lingue diverse, con una traduttrice
che compare a sua volta in scena e che a sua volta è un personaggio del film;
come se ci fosse bisogno di una mediazione delle cose dette.
Il film dura più di 9 ore, è stato
presentato in Francia nel 1985, ed è diventato subito un evento, sia dal punto
di vista cinematografico, sia della rappresentazione della Shoah. Per arrivare a
queste nove ore Lanzmann ha lavorato per più di dieci anni nella selezione del
materiale. Le immagini che noi vediamo sono tutte immagini del presente. Si vede
Treblinka oggi con le pietre, su cui Lanzmann insiste moltissimo, che
simbolizzano la morte; si vede Sobibor: oggi, una foresta in cui la natura copre
la storia e quindi in cui il volere dei tedeschi si è realizzato, quello cioè
di coprire attraverso la natura le tracce dello sterminio avvenuto. Poi vediamo
la Germania attuale, la Polonia, Israele, tutto viene riportato all’oggi per
far emergere il passato in una sorta di accecamento dello spettatore: quel
passato non viene mai mostrato, non è mai visto perché noi siamo accecati
rispetto a quel passato.
Lanzmann esprime così la
consapevolezza che quel passato non può essere rappresentato.
A partire da questo contesto, vorrei
allargare il mio discorso, perché il film di Lanzmann apre delle questioni
decisive, sapendo suggerire anche risposte, rispetto a
quello che si potrebbe chiamare con un brutto termine filosofico, la
‘pensabilità’ di questo evento di morte che ha segnato una cesura nella
storia del nostro secolo.
Aggiungo, come suggestione
personale, che le questioni poste da questa cesura, cioè dalla Shoah, non
riguardano soltanto la Shoah e non riguardano soltanto il nostro presente
rispetto al suo rapporto con quel particolare passato. Non ci pongono dunque
soltanto questioni e domande del tipo come ricordare, come commemorare o come
fare storia della Shoah, ma hanno anche una pregnanza di attualità: in questi
anni tutti noi abbiamo visto i
genocidi e gli etnocidi assurgere a norma del modo di risolvere i conflitti e
abbiamo visto contemporaneamente l’immediato oblio proprio a causa del modo in
cui ci venivano presentati. Li abbiamo visti presenti alla televisione ma
dimenticati immediatamente, relegati nel mondo virtuale oppure, nel caso dei
genocidi in Ruanda o nell’ex-Jugoslavia, relegati in un mondo barbarico, che
non era in grado di dialogare, se non con una sorta di orrore, con la nostra
civilissima Europa.
Ritorno al film e a una citazione di
Lanzmann ‘Ho cominciato dall’impossibilità di raccontare una storia’.
Una delle prime questioni del dopo
Auschwitz è appunto quella del racconto: come, cioè, narrare e quindi come
comunicare un’esperienza di morte, come usare il linguaggio comune, quello che
tutti noi conosciamo per comunicare e raccontare un’esperienza che nessuno
conosce e che va al di là della nostra comune capacità di immaginazione. Come
dire, per usare ancora le parole di Levi, non la fame ma ‘quella’ fame, come
dire che Auschwitz ‘è’ fame, come far sapere l’annientamento e lo
sterminio, la morte quotidiana e di massa, le fabbriche della morte, quando il
proprio stesso essere in quella esperienza era negato, perché negato era
appunto l’io e la sua capacità di vedere, di sapere, di conoscere e di
integrare, così, nel proprio sé l’esperienza vissuta.
Come assumere la voce del testimone,
come assumere dunque il proprio io dicendo ‘io dico, io giuro di dire la verità’
rispetto ad una esperienza che sin dall’inizio ha visto la negazione della
propria individualità. Per tutto ciò è emblematico il numero di matricola del
campo di Auschwitz, che toglieva il nome e cognome ai detenuti.
Come assumere il proprio io rispetto
ad una esperienza in cui non c’era spazio nemmeno per quella individualità
estrema che è l’individualità della nostra morte, perché sin dall’inizio
si era come gli altri, si era già altri e si moriva come altri.
Come parlare e in quanto testimone
sempre alla prima persona ed aprire così lo spazio della memoria comune, che
mette necessariamente al passato il passato, quando invece l’esperienza di
Auschwitz è l’esperienza di una temporalità che non riesce a trascorrere, è
in un certo senso un’esperienza atemporale, c’è un vissuto, un’ora, un
presente eterno, nel quale non c’è da parte del detenuto la possibilità di
una sua proiezione nel futuro, il suo presente sempre uguale non permette il
trascorrere di quello stesso presente nel passato, e non permette così di avere
coscienza delle tre dimensione della temporalità che invece costituiscono la
nostra esperienza quotidiana e normale.
La questione di fondo è, dunque,
quale memoria e come si riesca a trasmettere questo evento. Ovviamente questo
riguarda anche l’interrogativo di che cosa voglia dire testimoniare, visto che
uno dei modi in cui si è costituita la nostra memoria della Shoah è la
testimonianza.
La prima domanda dunque è quale
memoria.
Uno dei modi di rispondere a questa
domanda è stato quello dei memoriali dell’Olocausto: il museo Yad Vashem a
Gerusalemme, il Museo dell’Olocausto a Washington, le infinite discussioni sul
modo in cui lo stesso luogo di Auschwitz è stato commemorato nel corso degli
anni, e, ancora, Berlino,
dove dovrebbe sorgere un enorme memoriale, discusso in Germania a tal punto che,
recentemente, un giornalista tedesco ha affermato che il memoriale vero e
proprio era costituito dallo stesso dibattito in corso.
Il suggerimento di questo
giornalista permette, forse, di vedere quale sia la funzione del memoriale e che
cosa esso sia, cioè un luogo nello spazio attuale in cui il passato viene
fissato, ma un luogo in cui la comunità attuale si riconosce, il modo in cui
essa si appropria di quel passato, lo integra in sé o, nel peggiore dei casi,
lo fissa nello spazio per espellerlo da sé.
La domanda, a questo proposito,
credo possa essere se Auschwitz è integrabile e se Auschwitz è inglobabile:
forse e in parte questo può avvenire in
Israele, dove al momento della fondazione dello stato nel 1948 un terzo della
popolazione era costituito dai sopravvissuti della Shoah.
Rimane comunque la domanda se
Auschwitz sia integrabile e fissabile in quanto passato in Germania e se
Auschwitz sia integrabile ad Auschwitz. Questo per quanto riguarda il primo modo
di rispondere alla domanda quale memoria, la memoria del memoriale.
Un altro modo di rispondere è
invece attraverso la memoria dei nomi e la nominazione. La nominazione è anche
una corrente storica, già presente in vari memoriali, dove le vittime
vengono ricordate con il loro nome. In Italia questa corrente storica è
rappresentata da quell’enorme lavoro di ricerca dei nomi dei deportati ebrei
italiani, svolto, per il Centro di Documentazione Ebraica, dalla storica
Picciotto Fargion e confluito poi nei due volumi che costituiscono il testo
‘Il libro della memoria’ che è un elenco dei circa
settemila deportati ebrei italiani: una sorta di tentativo per assicurare la
sopravvivenza di coloro che sono morti. Non voglio negare l’utilità per la
comunità attuale di un simile lavoro, né negare l’aspetto di rituale
religioso che questo tipo di nominazione comporta. Si tratta però della volontà
di negare il negativo. Si cerca una duplice negazione del negativo, si cerca una
forma di sopravvivenza nella nostra memoria dei morti, ma nominandoli si tenta
anche di negare il modo in cui quella negazione è avvenuta, nel senso che le
vittime di Auschwitz avevano perso la loro individualità, il loro nome, ben
prima di finire nelle camere a gas e forse uno degli scandali dalla Shoah è
proprio quello dell’anonimato, della morte burocratica a cui abbiamo
assistito.
Un altro modo per rispondere a
‘quale memoria’ è quello più problematico e, proprio per questo, più in
grado di porci dei problemi, di essere presente nel dopo inquietandoci, del
racconto.
Esiste, però, un modo del racconto
in cui, anziché far emergere i paradossi e le contraddizioni, questi ultimi
possono essere messi semplicemente a tacere. A mio avviso, questa soluzione è
quella adottata da Spielberg,
che racconta una storia intensa, drammatica, emozionante, la quale però, in
nessun momento, lascia intravedere la difficoltà di essere raccontata, la
difficoltà di costituirsi in quanto racconto. Ciò per il semplice motivo che
la storia che ci viene narrata è una storia di vita, in cui c’è un eroe, il
protagonista Schindler, accanto al
quale ci sono delle comparse relegate in secondo piano: ‘i mille ebrei di
Schindler’.
Apro una parentesi polemica rispetto
alla morale che ci viene suggerita da questo film. Schindler può essere un
giusto per un popolo perseguitato, può essere un giusto per gli ebrei che egli
ha salvato e per i discendenti di quegli ebrei nati grazie all’azione di
Schindler. Invece io trovo molto problematico e quasi scandaloso che a tutti noi
venga proposto come modello un uomo che solo alla fine dei suoi intrighi amorosi
e di affari, che solo dinanzi alla distruzione del ghetto e non invece innanzi
alla sua stessa esistenza, riesce finalmente a distinguere che cosa è il male e
a scegliere dunque per il bene.
Ritorno però al discorso di
Lanzmann, perché a mio avviso egli non soltanto in questa citazione (‘sono
partito dall’impossibilità di raccontare una storia’) sceglie rispetto a
Spielberg, e prima di Spielberg, un modo completamente diverso di raccontare.
Sceglie di raccontare tenendo presente l’impossibilità di raccontare questa
storia. Effettivamente quasi tutti i sopravvissuti che poi hanno testimoniato
parlano dell’impossibilità di comunicare e di far diventare racconto, storia,
memoria l’esperienza della morte burocratica anonima che è stata la Shoah;
un’esperienza non comunicabile, un’esperienza che non passa di bocca in
bocca, che noi ascoltiamo senza integrarci in essa e che interrompe la
possibilità di farsi storia e racconto, pur raccontandosi e narrandosi.
Dunque la domanda è ‘come
raccontare senza raccontare, come ricordare senza ricordare’. Io credo che si
possa rispondere dicendo che si può raccontare ‘rispettando l’assenza di
storia e l’assenza di ricordo’. Ma, forse, rispettare è una parola
sbagliata, perché implica un gesto di volontà, un gesto saputo da parte del
testimone e di colui che narra, racconta, ricorda questa storia. Io non trovo
invece questo gesto di volontà nelle scritture che hanno parlato della Shoah;
nelle scritture di testimonianze si trova piuttosto un gesto in cui l’assenza
della narrazione e l’assenza del ricordo emergono dalla scrittura stessa,
fanno irruzione sulla scena, come fa irruzione il silenzio di Abraham Bomba che
pure racconta e voleva raccontare, voleva distanziarsi anche nel racconto dal
suo ricordo. Un gesto appunto, da cui emerge questa assenza di memoria e di
ricordo.
Emerge dalla scrittura
l’insistenza con cui Levi e altri testimoni della Shoah ci hanno dato le loro
pagine, negando quasi sempre il valore stilistico di queste pagine, come se la
dignità della memoria richiedesse una non dignità dello stile, un non
intervento stilistico da parte dell’autore, un ipotetico e irraggiungibile
grado zero dello stile. Questa insistenza sul fatto di dire che non c’è stile
nella propria testimonianza (per esempio Levi dice di non essersi mai posto
problemi di stile nello scrivere ‘Se questo è un uomo’) è solo uno degli
indici di come siano proprio l’affetto, il sentimento, il dolore, la morte di
questa esperienza ad irrompere sulla scena con un’irruenza tale da spezzare
qualsiasi capacità ‘autoriale’, cioè di essere autore della propria storia
da parte dello scrittore. In questo
caso, l’autore nega se stesso in modo illusorio, perché non c’è alcuna
pagina scritta che non possa avere uno stile individuale. Nega se stesso per
cercare di dare dignità alla propria memoria, nega l’individualità dello
stile.
Ovviamente in tutti gli elementi di
un racconto autobiografico, c’è l’identità del narratore e dell’autore,
c’è l’identità del narratore e del personaggio principale e la storia
viene raccontata in una prospettiva retrospettiva, cioè da un’ora in cui la
storia viene narrata, si passa al momento del passato in cui la storia era
vissuta. Solo che a differenza delle autobiografie qui abbiamo una materia
narrata che spinge e sospinge il racconto non verso il racconto di sé, verso il
racconto della propria esperienza, ma invece verso il racconto dell’esperienza
degli altri, della vita degli altri e della morte, che non si riesce a
raccontare, degli altri. Nelle pagine dei testimoni non è, dunque, la propria
morte a far problema, a non poter essere raccontata e quindi a spezzare la
possibilità di essere l’unico padrone della
storia, ma è proprio la morte degli altri a essere irraccontabile, a
spezzare la stessa possibilità di
dire io.
Infine, un altro modo del venir meno
di questa capacità di essere autore della propria storia è un modo non deciso
dal narratore che racconta la storia ed è quello del venire meno della distanza
con cui il passato ci viene narrato. A differenza del passato del memoriale che
la comunità fissa e in cui si riconosce, ma che lo fa esistere in quanto
passato, perché il presente è altro e ingloba quel passato, continuamente
nelle pagine di narrazione di testimonianza il passato irrompe sulla scena con
una carica di presente. Sono questi i momenti in cui spesso il racconto
precipita verso una sua impossibilità, nei racconti di Levi per esempio, il
tempo verbale è talmente presente che alcuni critici lo hanno definito
‘presente assoluto’, il presente perenne della scrittura di Levi, come se
non ci fosse differenziazione e distanza tra il presente e il passato. Si narra
e, giustamente, si vuole mettere al passato quell’esperienza, ma ciò che
emerge invece inconsciamente nella scrittura è l’oppressione presente di quel
passato.
Si tratta, dunque, di una
testimonianza dell’assenza di racconto e di ricordo, della testimonianza del
silenzio. Il silenzio appunto di Abraham Bomba che riesce a dire io rispetto
all’esperienza che sta narrando solo nel momento in cui è la possibilità
stessa di parlare che viene meno, e quindi la sua possibilità di dire io.
L’emozione di Abraham Bomba è un vuoto della trasmissione, una lacerazione
del discorso, uno spazio bianco all’interno del discorso, in cui, come se
fosse una nostra ripetizione nella sua ripetizione di quel presente, si
inserisce la nostra emozione e potrà anche inserirsi, iniziare anche a
intrecciarsi, il nostro non sapere e non comprendere la Shoah stessa.
Conversazione
tenuta presso la Fondazione Serughetti La Porta di Bergamo il 5 ottobre 1998.
Registrazione non rivista
dall’Autrice.
Si fa riferimento alla
sequenza del film in cui viene intervistato Abraham Bomba, un sopravvissuto
del Sonderkommando di Treblinka.
Cfr.: Liliana Picciotto
Fargion, Il libro della memoria, Gli Ebrei deportati dall’Italia
(1943-1945), Mursia, Milano, 1991
cfr.: Spielberg, La lista
di Schindler
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